Stavolta Chailly è stato davvero coraggioso, la sua ultima zampata prima di Chung…
Vedere, o anche ascoltare, Lédi Mákbet Mcéskogo uézda, non è facile…
e, benché la sua vicenda sia nota e arcinota, forse è bene fare un piccolo riassunto di premessa…
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Si sa tutti che un anatema di Stalin interruppe a Mosca un run scenico di Lédi Mákbet che a San Pietroburgo, appena due giorni prima (22 gennaio del ’34), si presumeva più che ottimo… là, l’opera aveva fatto faville…
Ma Stalin usò il tutto sommato giovane (poco meno di 30 anni), ma già molto affermato Šostakóvič, per “organizzare” l’Arte sovietica verso un Realismo socialista statalizzato…
Naturalmente, come sempre succede quando l’Arte diventa statale (non solo nei regimi totalitari, ma anche nelle nascenti organizzazioni nazionali, vedi anche la Cecoslovacchia di Masaryk o il Messico del periodo 1920-1946, successivo alla Rivoluzione, con Diego Rivera e Carlos Chávez coinvolti nel creare arte governativa), le categorie estetiche rispondevano a esigenze di contingenza politica e di propaganda e non sopravvivevano ad alcuna analisi competente… il Realismo socialista di Stalin, così come il connubio città-campagna di Rivera e Chávez, o l’Arte degenerata nazista, o l’autentica arte nazionale cèca o morava, erano concetti fantasiosi, immaginati e costruiti apposta per fare gruppo, per fare identità nazionale, e non avevano nulla di effettivo a livello di forma, e quindi sono stati usati per tutto e il contrario di tutto a seconda delle simpatie o contingenze della più minuscola immediatezza, e, nello spazio di un sospiro, hanno cambiato faccia immediatamente ogni volta che, in un attimo, cambiava il tempo…
così come Salvini, oggi, per propaganda elettorale, ha esemplificato la Famiglia nel bosco della provincia di Chieti come exemplum del vivere sano, in barba ai suoi dettami di italianità (la famiglia è tecnicamente australiana, quindi “straniera” secondo l’ottica di Salvini fino ad adesso), di sicurezza (i campi rom che Salvini ha sempre voluto, e vuole tuttora, radere al suolo, perché sono senza cesso, dànno ai minori un ambiente che è esattamente come l’abitazione della Famiglia nel bosco), di primato ai poveri autoctoni (alla Famiglia nel bosco australiana sono state regalate case gratuite che gli italiani poverissimi si sognano) e di irreggimentazione scolastico-educativa familiare (se una famiglia si azzardasse a far giocare un figlio maschio con un rossetto, Salvini ci metterebbe un secondo a “salvare” quel maschio dalla gender theory mandando la Digos e strappando il figlio ai genitori, sia che vivano nel bosco sia che vivano in condominio; se la famiglia del bosco fosse stata sì straniera, ma di pelle nera, a fare home schooling con le capre e a cagare in una buca per terra, allora Salvini sarebbe partito con la ruspa a “salvare” immediatamente i figli), nello stesso modo Stalin parlò di Realismo socialista, contravvenendo a tutto quanto da lui detto fino ad allora, perché aveva capito che l’aere rivoluzionario dell’èra Lénin (un leader sì violento, ma anche molto incline allo smussare gli angoli coi primigeni combattenti per la Revoljucija: vedi il posto statale trovato a Bogdánov, nonostante i loro dissapori “scientifici”), che ancora gonfiava le vele degli “utopisti” come Mejerchól’d, Vachtángov (morto già nel ’22) e il povero Majakóvskij (il quale, una volta capito che la Revoljucija tanto adorata aveva prodotto tirannide, si uccise, nel 1930), remava completamente contro al consolidamento della società socialista!
Tutto quello che, al tempo di Lénin (’17-’24), Stalin stesso aveva promosso, in termini di coltivazione del dissenso, del ribellismo, dell’avanguardia al servizio del Socialismo, dell’astrattismo contro il figurativismo zarista ecc. ecc., su cui tutti i detti (da Majakóvskij a Gór’kij a Mejerchól’d a Zamjátin) avevano campato, si capiva minare dall’interno le gerarchie, le autorità, lo stesso potere ritenuto necessario per tenere insieme una popolazione rurale forzosamente tramutata in industriale…
Ma il ribellismo leninista aveva davvero tanto aiutato la generazione rivoluzionaria primigenia, e rischiava di rimanere inamovibile nei giovani artisti, tanto da rappresentare una minaccia di efettiva libertà delle arti, una libertà capace di criticare efficacemente il governo, proprio nel momento in cui il governo non poteva essere criticato…
quella libertà delle arti, allora, non poteva essere tollerata…
…ma non poteva neanche essere censurata apertamente: con la sola repressione, Stalin avrebbe ottenuto il risultato di fare la figura degli odiati nazisti, cosa che lui non voleva affatto…
Stalin si credeva una persona migliore…
Infatti, se il Terzo Reich poteva additare solo ragioni razziali e di puro gusto per plasmare la sua Arte di stato (vedi le opere di Schreker, assolutamente identiche a quelle di Strauss, ma schifate perché Schreker era ebreo; oppure le opere di Hindemith, convinto nazista, censurate solo perché a Hitler non piacevano, e quindi, fatte passare per arte degenerata anche se era completamente diversa dalla aborrita dodecafonia sionista di Schoenberg e Webern, anche loro, sì ebrei, ma convintissimi destrorsi [Webern votò a mille il Partito nazista, felice come una pasqua, prima di scoprire che la sua musica era invisa al potere]), Stalin diceva di essere scientifico: niente gusto, niente pregiudizi, ma l’Arte promossa era quella che aderiva a un concetto… un concetto sì inventato e indeterminato, ma comunque qualcosa su cui i giornali e i critici potessero disquisire, e un qualcosa a cui gli artisti potessero perfino aderire, senza, quasi, nulla cambiare rispetto a quel che facevano prima!
vediamo di spiegarci…
ci voleva il Realismo socialista, ok, quindi si fecero fuori (spesso letteralmente) gli irriducibili astrattisti come Mejerchól’d (che viene fucilato nel 1940), ma gente come Gór’kij, famosissimo critico del regime (quando Majakóvskij si spara, Gór’kij è in esilio a Sorrento in polemica con la troppo autoritaria URSS), poteva tornare a teorizzare quel Realismo socialista (Gór’kij tornò con tutti gli onori in seno a Stalin nel 1932, nella principesca Villa Rjabušínskij, vicino all’Arbát)…
…e anche certa roba astratta, alla ormai morto Mejerchól’d, poteva rientrare dalla finestra se si dichiarava autenticamente realista socialista: bastava aggiungere qualche coro qua e là, inneggiare alla gloria della Russia in qualche battuta, sbandierare un po’ di felicità socialista in una scena…
ma si doveva anche dire che, se quelle scene mancavano, allora la pièce si censurava, e l’autore era in pericolo di vita, come chiunque durante gli arresti di massa staliniani degli anni ’30, fatti apposta per rendere precarissima e in costante pericolo la vita della popolazione al fine di non farla insorgere o lamentare per la mancanza di cibo e riscaldamento (la polizia segreta era tanta ma non così tanta per arrestare davvero tutti, ma un sistema random di arresti, periodi più o meno lunghi nei GULag, e fucilazioni misteriose, con la vittima tacciata di connivenza col nemico, alimentava la paura della fucilazione e della prigionia in chiunque, che quindi sopportava l’essere pagato in fiammiferi invece che in denaro per una paura indotta di una fucilazione “possibile”)…
Prima di Lédi Mákbet, nel 1928, Šostakóvič, per il teatro, aveva composto il Nos di Gógol’… con Mejerchól’d!
Proprio quell’astrattista surrealista assurdista che nel 1934 andava in giro a dire che il nascente Realismo socialista era una minchiata!
Ma se Šostakóvič, proprio il pupillo di Mejerchól’d, magari con Gór’kij, aderiva al Realismo socialista, cioè se si “piegava” a comporre esattamente come prima ma con aggiunti dei begli inni al socialismo a caso, avrebbe fatto da esempio per tutti quanti gli altri, vecchi e giovani!
…e col suo stardom internazionale (che già aveva), avrebbe imposto l’URSS di nuovo come grande platea artistica, senza che nessuno più si mettesse a rimpiangere i bei tempi andati di Lénin, in cui l’avanguardia era goduriosamente sovvenzionata dallo stato, con la glorificazione palingenetica del dissenso eterno: una nostalgia che il suicidio di Majakóvskij e l’esilio volontario di Gór’kij alimentava assai, con già tanti, all’estero, a dire che l’URSS si avviava a diventare una vomitata di stato senza Arte…
Finisce che Stalin e i suoi think tank, alla rappresentazione di Mosca, 2 giorni dopo la prima a San Pietroburgo, dicono che la Lédi Mákbet di Šostakóvič, pronta a fare il pieno di incassi, è una cosa non aderente al Realismo socialista… e che se Šostakóvič continua a comporre cose simili farà la fine del topo!
È ovvio che Šostakóvič, come Gór’kij, si adegua…
…perché sa che, per essere autentico Realismo socialista, a Lédi Mákbet manca soltanto un coretto propagandistico, e poi avrebbe tutto!
in Lédi Mákbet c’è tutto il degrado zarista,
la corruzione pre-Rivoluzione,
la grettezza del popolo ancora non liberato dal Socialismo…
c’era ogni cosa!
solo che venne presa a modello per rendere il Realismo socialista l’Arte di stato, e per scongiurare nei giovani qualsiasi rigurgito di astrattismo, motore del dissenso…
dalla proibizione di Lédi Mákbet, Šostakóvič non cambia nulla del suo modo di comporre…
ma non tenterà più il teatro musicale…
questo pseudo-adeguarsi (visto che lo stile compositivo non è cambiato di una virgola), ha fatto di Šostakóvič il compositore sovietico numero 1, insieme alle vecchie glorie Prokóf’ev, Métner e Mjaskóvskij, e ai giovani Chačaturján (3 anni più vecchio di Šostakóvič), Ligeti (che però era ungherese, e aveva poco più di 10 anni ai tempi di Lédi Mákbet), Šnítke (nato lo stesso anno di Lédi Mákbet), Kabalévskij (esattamente 30enne all’epoca di Lédi Mákbet), Gubajdúlina (che ai tempi di Lédi Mákbet aveva solo 3 anni) e tanti altri, un primato ancora più svettante dopo le morti contemporanee di Stalin e Prokóf’ev, nel 1953 (Mjaskóvskij è morto nel ’50 e Métner nel ’51)…
col tempo, da questo “adeguarsi” di Šostakóvič alle minacce di Stalin, si è originato tutto il mito dello Šostakovič tacitamente dissidente, che si adeguava suo malgrado a non comporre più per il teatro…
…può darsi…
ma, ultimamente, dopo che sono venute fuori le telefonate simpatizzanti di Stalin, e dopo che si è accertato che lo stile di Šostakóvič è rimasto identico, con solo l’aggiunta di quelle anticchie volute da Stalin (il trionfo finale in tutti i pezzi, e qualche coretto a parlare della gloria della Russia: cose che nelle sinfonie e nei film che Šostakóvič musicava erano all’ordine del giorno), la storia del compositore insoddisfatto e tacitamente avverso al regime, sotto continua minaccia della fucilazione, si è un po’ ridimensionata…
…anche perché Šostakóvič, dopo la chiusura di Lédi Mákbet, è diventato davvero il compositore di stato… più del povero Prokóf’ev…
Durante l’assedio nazista di San Pietroburgo è Šostakóvič a comporre la sinfonia (la sua settima) ispirante la Resistenza, con buona pace di Prokóf’ev, che cercò di fare altrettanto (con la sua quinta)…
e la quinta sinfonia di Šostakóvič, del ’37, subito dopo lo stop di Lédi Mákbet, dimostrava a tutti, soprattutto ai più giovani, che, con un po’ di paraculsimo qua e là, soprattutto riferito a farlocchi programmi di sala comunicanti la gloria dell’URSS simboleggiata in quel modo maggiore nella batutta tot del pezzo, o al cacato a forza finale lieto, il Realismo socialista era garantito anche in una composizione completamente avanguardista e astrattista!
un paraculismo a cui si adeguarono tutti i “capolavori” del periodo staliniano anni ’30-’50, di Prokóf’ev (roba come Romeo e Giulietta, Aleksándr Névskij e perfino Pierino e il lupo) come di Chačaturján (il balletto Sparták, completato, però, in neonata èra Chruščëv), o anche del cinema di Ejzenštéjn (che era amico di Prokóf’ev, vedi i 38 momenti, ma anche allievo del tanto odiato Mejerchól’d!)… benché, certo, nelle maglie censorie continuarono sempre a finire cosette varie ed eventuali, giusto per rompere le scatole, soprattutto negli anni ’40, dopo il terribile omicidio di stato dell’irriducibile Mejerchól’d (Ógnennyj ángel di Prokóf’ev, Gajané di Chačaturján, il film su Ivan il Terribile di Ejzenštéjn), e con un inasprimento abbastanza fortino nel 1948, durante il blocco di Berlino, la crisi greca e il distacco da Tito…
ma, in mezzo a tali noie (nel ’48 abbastanza pesanti: Júrij Ljubímov disse che in quel periodo Šostakóvič era sicurissimo di fare la fine di Mejerchól’d e quindi dormiva accanto all’ascensore, così da farsi deportare il più in fretta possibile, senza dare fastidio ai familiari), Šostakóvič non cadde mai più durante il periodo Stalin, anzi…
e proprio durante quel periodo, dopo il 1948, Šostakóvič traboccò…
Quel paraculismo fatto di astrattismo mascherato da glorificazione sovietica, forte dei programmi di sala più che della effettiva musica, resero Šostakóvič una sorta di vate della composizione musicale avversa al regime!
un paradosso bello pimpante!
la leggenda della censura subita, e del riscatto con una sinfonia, la quinta, che si proferiva realista quando invece era completamente astrattista, alimentarono un interesse per Šostakóvič che partì ideologico, e che presto si trasferì al suo linguaggio musicale…
…un linguaggio che non era niente di che, ma che sembrava chissà cosa…
potentemente stravinskiano quando Stravinskij era già eminentemente neoclassico, e fascinosamente timbrico senza ossequio a nessun farlocco “imbarbarimento” popolare (e quindi avulso da roba tipo Bartók), Šostakóvič si dimostrava massicciamente anti-dodecafonico (anche se Schoenberg, in vecchiaia a Los Angeles, dichiarò apertamente di adorarlo), ma sonoramente mahleriano, con la gustosissima passione, alla Elgar (o addirittura alla Bach), per i rompicapi enigmistici e per i messaggi cifrati all’interno delle note e delle tonalità usate (i famosi temi DSCH, ossia re-mi♭-do-si, preponderanti nelle sue composizioni, la sua firma, fusa perfino nel bronzo della sua tomba, al Cimitero Novodévičij a Mosca; o i motivi che cifrano alcuni amici e innamorate, tutti tradotti in note o armonie): un mix che mandò in visibilio tutto un asse anti-adorniano attivissimo in tutto il mondo…
Šostakóvič sembrava uno Stravinskij, o un Varèse, più compiuto e prolifico, capace di sfornare una sinfonia ogni due anni durante l’èra Stalin (dopo il 1945 diradò un poco: complice la seconda denuncia del ’48, passano 8 anni tra la nona e decima, 4 tra la decima e l’undicesima, altri 4 tra undicesima e dodicesima, ma solo 1 tra dodicesima e tredicesima, poi 7 tra tredicesima e quattordicesima, infine 3 tra quattordicesima e quindicesima), e una quantità industriale di musica da camera, senza mai comporre nulla né di dodecafonico né di seriale, garantendo una sorta di eterno atonalismo espressivo, cioè simile a quanto si componeva in quell’età d’oro del primo Stravinskij, degli Strauss e dei Mahler (al massimo dei Berg, pur allievo di Schoenberg), ossia un periodo dai 30 ai 50 anni antecedente agli anni in cui continuava a comporre Šostakóvič, che tanto attizzava la nostalgia degli odiatori di Darmstadt, e appariva più modernista dell’alcolizzato Sibelius, dell’ormai morto e sepolto Bartók (morto nel ’45), di quel nazista tonale che fu Hindemith (che campa fino al ’63) e dello stesso Stravinskij, dal ’52 anche lui rampollo della dodecafonia…
Contemporaneamente e parallelamente, in maniere serendipicamente paradossali, in URSS, Šostakóvič fu il compositore ufficiale di stato, e in Occidente fu una figura di combattente contro le oppressioni, sia quelle formali del serialismo (che promuoveva arte rifuggendo il pubblico, da Stockhausen a Boulez a Cage a Maderna ecc.), sia quelle politiche dello stalinismo, in un mito di incomprensione dell’URSS che ancora oggi affligge tutta la storiografia su di lui…
L’Occidente anti-darmstadtiano adorò Šostakóvič quasi platealmente, con gesti scenografici ed esagerati: con i regolari acquisti delle partiture fatti passare per fortuite operazioni di contrabbando, con tour e dischi incisi tutte le volte che il KGB dava l’ok (famosi i concerti per pianoforte incisi per la EMI, con André Cluytens, alla Salle Wagram di Parigi, con l’Orchestre de la Radiodiffusion Française, dal 24 al 26 maggio del ’58, in contemporanea a un tour per la prima francese della sinfonia n. 11; e molto più grandi i tour americani, nel ’49, durante il consolidamento dopo gli screzi berlinesi-greco-titini, e nel ’59, con Bernstein prostrato davanti a Šostakóvič, “gemellato” con un conseguente tour di Bernstein e la New York Philharmonic in URSS; non si contano anche le comparsate nella DDR o anche nelle “vicine” capitali nordiche, da Riga a Stoccolma), e con gloriosissime prime europee ed americane da jet set, popolati da gente bene, non dai giovinastri artistoidi, cattivi e prepotenti, che, sparuti, assistevano alle prime elitarie di Stockhausen, Boulez o Berio…
In Occidente Šostakóvič fu quasi un rampollo dei benpensanti, che adorarono anche Bernstein, Vaughan-Williams e Britten… e proprio con Britten, cattolicissimo, Šostakóvič iniziò un dialogo artistico, cementificato dal tramite Mstisláv Rostropóvič, all’insegna della musica atonale e para-espressionita, alternativa ai rapporti matematici dei post-weberniani, che andavano in giro in camice bianco, come scienziati più che come artisti, alla ricerca dell’ordine invece che dell’anima…
Il tutto mentre, in URSS, dettava comunque legge, con solo la tredicesima sinfonia, Babij Jar, nel ’62, ad avere noie, facilmente bypassate proprio grazie al suo stardom in Occidente…
Compose tutto quello che c’era da comporre in ambito celebrativo: inni per l’inaugurazione di questo e di quello, dozzine di film, sinfonie per la rivoluzione del 1905, per quella del ’17, cantate, show, valzerini da balera, riscritture dei classici (della Chovanščina di Músorgskij per il film del ’59), mentre in Conservatorio (prima a San Pietroburgo poi a Mosca) imponeva il mahlerismo (che Prokóf’ev cercò di emendare fino alla morte negli stessi conservatori!) e scriveva quella miriade di musica da camera adatta a tutti i palati e a tutti gli studenti (quasi nessun operatore musicale russo, da Michaíl Juróvskij a Rudól’f Baršaj)!
In piena Guerra fredda, Šostakóvič divenne un perno dei due mondi!
In Occidente idolatrato da simil-destrorsi nostalgici o da sinistrorsi blandi (ovvero Bernstein e Britten), perché sentito come avverso a un regime totalitario, proprio mentre, in URSS, era un “compositore di stato”!
Šostakóvič rendeva lampante una sorta di “scontro” politico tra sovietismo e socialdemocrazia, grazie a un “mito di dissenso”, quasi certamente inventato, che molto probabilmente cavalcò perfino scientemente… e che si rifletteva, malamente, nel linguaggio musicale, col sovietismo che, in Occidente, era artisticamente incarnato dall’asse darmstadtiano-adorniano-bouleziano, e con la socialdemocrazia sposata musicalmente dai neo-romantici…
La socialdemocrazia, anche musicale, diceva «lo vedete Šostakóvič? lo obbligano a comporre cantate celebrative neo-romantiche, ma lui, genialmente, ci mette armonie depresse per fare dissenso occulto! è dei nostri! è un socialdemocratico!»…
Il sovietismo, anche musicale, invece affermava «che Šostakóvič, con i suoi sodali sovietici neo-melodici, scriva puttanate atonali, è il segno che il Comunismo vero è stato tradito dall’URSS, oggi paese perfino para-fascista, visto il suo arretramento culturale, e il Comunismo autentico è ancora di là da venire, e lo facciamo arrivare noi col nostro serialismo post-weberniano!»
Alla fine, dunque, lo stop a Lédi Mákbet e le denunce del ’48, a posteriori, sembrano quasi una calcolatissima operazione di regime a cui Šostakóvič ha forse perfino “partecipato” (!) onde poter essere il compositore più potente dell’URSS, e tra i più coccolati in Occidente…
vendersi al regime per plasmare, rendere in qualche modo “reale”, quel farlocco Realismo socialista fatto apposta per “digerire” l’astrattismo dissenziente, che, senza un compositore adeguato e impegnato, non sarebbe mai esistito…
Secondo le analisi più recenti e più dettagliate della sua vita, tutte le farloccate del compositore dissidente, con la famiglia in ostaggio, veicolate dai diari quasi sicuramente finti (il famoso Testimony scritto da Solomon Volkov e circolato quasi soltanto in Occidente e in inglese dal 1979, eternamente tacciato di forgerie bella e buona), adombranti uno Šostakóvič non comunista, che partecipava all’Arte sovietica solo per costrizione, e che faceva tour internazionali scortato da un KGB che lo teneva al guinzaglio, è forse un po’ da rivedere…
Ci sta che Šostakóvič al Comunismo ci credesse davvero… e credette davvero nelle sue composizioni più antifasciste (le sinfonie 2, 3, 7, 11, 12, 13), così come forse Prokóf’ev credeva che l’URSS fosse veramente quel mondo di fiaba in cui i buoni battono i cattivi, pur con perdite enormi, che pennellava nelle sue ultime composizioni (tipo il balletto del fiore di pietra, il Kaménnyj Cvetók)…
…e per questo, magari, è stato perfino paradossalmente d’accordo con Stalin nel censurare Lédi Mákbet…
è certamente dirla grossa, visto che dall’altra parte c’è uno Stalin che ti fucilava… ma è facile immaginarsi l’enigmistico Šostakóvič, che si crede più furbo di tutti, lì a crogiolarsi nell’essere sicuro di riuscire a prendere in giro un entourage statalista incompetente di musica, che si accontentava della superficie e mai della sostanza, che lui riusciva a raggirare con trionfi all’apparenza felici ma armonicamente tragici, con una produzione da camera sterminata, quasi “privata”, alternata alle pubbliche sinfonie, che è delle più depresse mai composte (proprio contraddicendo continuamente la facciata aulica e celebrativa)…
uno Šostakóvič che prende goduriosamente in giro i rétori del Realismo socialista, baloccandosi nel “costruire”, per gloria e vanità, un costrutto che era palesemente senza senso… e che lui incarna godendosela di essere l’unico, in quanto creatore di quel fasullo, che sa che tutto è fasullo!
uno Šostakóvič che fa questo, che rimane in URSS a godersi i trionfi, perché è sicuro che ciò che poteva fare là, in URSS, in termini di antinazismo e di “bene per la libertà”, non l’avrebbe mai potuto fare in un’Europa capitalista, dove una metà l’adorava ma un’altra metà, cioè l’élite culturale dramstadtiana lo perculava; un’Europa o un’America in cui ai suoi figli mai sarebbe stato garantito davvero il lavoro e l’abitazione, se non con spregevoli contratti mercificanti, con Hollywood (industria molto più spaccona del cinema intellettuale sovietico a cui era abituato), e magari con Broadway, dove solo se eri già ricco ti adulavano, in risacche di antisemitismo e di imperialismo evidenti, e dove un’orchestra doveva obbedire a logiche di mercato e gli editori e gli impresari ti potevano togliere il contratto se non vendevi abbastanza…
…in USA o in Europa mica sarebbe stato un «compositore di stato», con il lavoro pronto da fare e comporre senza preoccupazione per il ritorno economico! L’assenza di obbligo del guadagno lo ha reso, in URSS, uno dei più prolifici grafomani musicali del Novecento, con tante sue composizioni che, ancora oggi, devono essere scoperte e ritrovate nei suoi archivi!…
…in Occidente sarebbe stato un poveraccio che, come Gershwin o Kurt Weill o Bernard Herrmann, avrebbe finito per scrivere canzonette per quattro soldi, andando dietro NON ai suoi gusti enigmistici e alle sue armonie complicate, appannaggio di gente “intelligente” o sedicente “intelligente”, ma allo spregevole semplicismo del consumismo…
invece, da là, da reuccio di un regime visto come logoro, poteva dettar legge e atteggiarsi a martire della libertà nascosta… e, perfino, da arbitro ammonitore che il linguaggio musicale, poiché totalmente asemantico, è anche apolitico, e non c’entra nulla con l’ideologia politica del compositore… dalla sua posizione apicale in URSS, Šostakóvič, da elegantiae arbiter, sentenziava che la dodecafonia non era di per sé di sinistra, anzi, nascondeva in sé un esclusivismo respingente, perfino fascista!
E quel monito, urlato dall’URSS, suonava più duro rispetto a quando lo affermavano, continuamente, Bernstein, Britten o perfino Messiaen (e, dopo un po’, addirittura lo stesso barricadero Boulez) in Occidente… [tra anni ’20 e ’40 succedevano le stesse cose nel “nuovo” Messico: era di sinistra il tutto sommato neoromantico Chávez, totalmente governativo, o l’attratto dal serialismo, e quasi totalmente “dissidente”, Revueltas? in quel caso, la morte di Revueltas già nel ’40 lasciò a Chávez il ruolo di essere lo Šostakóvič messicano, adorato in USA da Bernstein e Copland, cioè dai liberal socialdemocratici, quanto visto in cagnesco dalla comunistissima, e sempre governativamente repressa, neoavanguardia latinoamericana, timidamente seriale, o totalmente popolare, alla Bartók (e non il popolare rispulizzito e perbenino, ma comunque capace a suo modo di mordere, di Chávez), con tutto il portato sgrammaticato che il termine popolare porta con sé]
All’ego di Šostakóvič piaceva essere quel reuccio…
e quel reuccio è stato, mentre, nel frattempo, proprio per ingraziarsi un pubblico europeo, si atteggiava a martire della libertà censurato da uno Stalin morto e sepolto da anni…
e tanti, anche in Italia, in questa immagine di contrastato, ci sono cascati completamente… vedi la monografia di Franco Pulcini…
e a dar loro ragione, in effetti, c’è il fatto che, dopo la censura staliniana, Lédi Mákbet non s’è più granché fatta neanche in Russia…
Nel 1962, in èra Chruščëv, Šostakóvič ha tentato un remake, intitolato Katerína Izmájlova, che ha un po’ spinto anche per rappresentazioni all’estero (anche alla Scala), che però non sono giunte…
e mentre le opere di Prokóf’ev (da Vojná i Mir a Igrók), in Russia, diventavano dei classici stra-canticchiati quanto i mostri sacri di Glínka e Čajkóvskij, la seconda e ultima opera di Šostakóvič è diventata rara…
senza una tradizione, impossibilitata dalla censura stalinista, Lédi Mákbet è sfuggita al Rinascimento dei dischi di musica russa portato avanti dallo specialista Valérij Gérgiev dopo l”89: Gérgiev, felice comunicatore di Prokóf’ev, Čajkóvskij e Rímskij-Kórsakov, non ha mai inciso Lédi Mákbet…
E Lédi Mákbet è un po’ sfuggita da uno stranamente rinnovato interesse per Šostakóvič avvenuto dopo l”89…
Benché, s’è visto, sempre coccolato dai grandi, da Bernstein in giù, con la menzione d’onore per Bernard Haitink, che tanto si è dedicato al sinfonismo šostakóvičiano al Concertgebouw di Amsterdam tra ’78 e ’86, l’apertura degli archivi dopo il crollo dell’URSS, o anche dopo la morte di Šostakóvič nel 1976, fece riaccendere la passione occidentale per Šostakóvič anche a livello documentale, e, per certi versi, aprì a ricerche anche russe, non più vincolate al solo oggetto delle opere grosse ma riferibili anche alle carte private, alla sterminata musica da camera, ai valzerini, ai film, alle cantante, a tutto il comparto light, che si sapeva essere immenso…
Negli anni ’80, con Šostakóvič morto, cominciò l’impresa della pubblicazione scientifica delle opere complete da parte dell’editore di stato Muzyka: fu l’inizio dell’esplorazione dell’immenso antro light delle composizioni di Šostakóvič…
nel 1984, Muzyka disse di aver ritrovato una fantomatica “seconda” Jazz Suite nell’archivio del compositore, di cui si aveva notizia: si sapeva essere stata scritta nel 1938, ma non s’era più né eseguita né pubblicata né rintracciata tra le carte…
Muzyka era sicura del ritrovamento, e destò l’interesse dei grandi amici di Šostakóvič: Mstisláv Rostropóvič, nell”88, diresse la prima di quella “seconda Jazz Suite”, al Barbican a Londra, con la London Philharmonic…
e nel 1991, collegandosi alla tradizione di Haitink, il suo successore al Concertgebouw, Riccardo Chailly, registrò un Jazz Album di Šostakóvič che includeva sia questa “seconda Jazz Suite”, sia altre composizioni light di Šostakóvič…
Lo scalpore destò un qualche interesse, anche se rimase all’interno di una cerchia di appassionati… fino al 1999… cioè fino a quando Stanley Kubrick usa l’incisione ’91 di Chailly del Walzer 2 della fantomatica “seconda Jazz Suite” nella colonna sonora del suo ultimo film rimasto incompiuto, e distribuito in poma magna come ultimo capolavoro del maestro, ossia Eyes Wide Shut…
da lì, l’album di Chailly, con la musica light di Šostakóvič diventa di massa, come mai erano stati i pur grandi eventi jet set col compositore vivente, e come mai erano stati i dischi di Bernstein e Haitink…
da allora Šostakóvič è diventato davvero classico…
anche se poi si è scoperto che la “seconda Jazz Suite” ritrovata da Muzyka nell”84 era in realtà una collection di pezzi pre-esistenti light di Šostakóvič, orchestrati e riassemblati da un suo dipendente, Levón Avtomján, probabilmente su suo ordine, nel 1956 o ’57, onde ottenere una Suite per orchestra di varietà…
…e della effettiva Jazz Suite 2, di cui si aveva notizia dal 1938 (e che, si scoprì, Šostakóvič aveva riciclato in un film del 1950, senza però lasciare traccia scritta), fu trovato lo spartito, tra le carte šostakóvičiane, nel 1999, proprio l’anno di Eyes Wide Shut, e fu orchestrata su modelli strumentali šostakóvičiani da Gerard McBurney per un’esecuzione pubblica ai Proms di Londra nel 2000…
Un’acribia che, però, ripeto, non ha mai toccato Lédi Mákbet…
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tanto che, prima di questa edizione scaligera, erano solo 3 gli audio effettivamente reperibili in studio dell’opera, anche se c’era un numero molto più nutrito di DVD…
- il disco di Mstisláv Rostropóvič e Galína Višnévskaja con la London Philharmonic, inciso nel grande studio n. 1 di Abbey Road a Londra nell’aprile del ’78…
Rostropóvič e Višnévskaja erano amicissimi di Šostakóvič, e, dopo la loro fuga dall’URSS nel ’74 (Šostakóvič muore l’anno dopo), hanno molto promosso l’immagine dello Šostakóvič pseudo-dissidente (Rostropóvič ha creduto anche al farlocco Testimony di Volkov, che scrive anche il saggetto introduttivo nel booklet del disco e delle successive stampe in CD)…
data la vicinanza degli interpreti al compositore, è stata da subito un’incisione di riferimento… - l’album di Myung-whun Chung e Maria Ewig con l’Opéra de Paris, catturato all’Opéra Bastille di Parigi nel febbraio 1992…
Chung andava a fondo nel dare corpo a una registrazione digitale magnifica, più maestosa e assordante ma forse meno viva di quella di Rostropóvič… - la grande impresa di Andris Nelsons e della Boston Symphony di incidere tutte le sinfonie e i concerti di Šostakóvič, con Lédi Mákbet impressa con Kristine Opolais alla Symphony Hall di Boston dal vivo e in forma di concerto nel gennaio 2024…
perfetta ma certamente priva dello scatto del teatro…
negli anni 2000, un grande campione di Lédi Mákbet è stato James Conlon… ne ha tratto una suite lui stesso, per meglio diffonderla, e l’ha proposta a New York (già nel ’94) e a Firenze, con Lev Dódin regista, e Jeanne-Michèle Charbonnet, nel 2008 (uno spettacolo che io ho perfino visto dal vivo! ne esiste anche un DVD con regia video di Andrea Bevilacqua)
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e adesso ecco Chailly,
con regia di Vasilij Barchatov,
e regia televisiva di Arnalda Canali…
uno Chailly che quindi amministra una musica che in Italia è materia solo e soltanto di grandi appassionati, e con l’ultimo allestimento vicino e memorabile, quello di Conlon-Dodin a Firenze, vecchio di quasi 20 anni…
uno Chailly, quindi, che quasi non ha concorrenza…
ma uno Chailly che, ricordiamo, dal 1999 di Eyes Wide Shut imperversa nelle nostre orecchie con il suo Walzer 2 della finta Jazz Suite 2 del ’91…
uno Chailly, quindi, che la sua porca figura la fa!
Lenteggiante ma appassionato, più come Chung che come Rostropóvič, e, un po’ come Nelsons, forse poco attivo nell’immediatezza e nell’azione, sfoggia una adesione alla musica, tutta suono, roboante di timbrica e di volume orchestrale (evidente anche nella pessima ripresa audio RAI), da grande specialista šostakóvičiano!
Chailly dà a Lédi Mákbet una corposità sonora dello Šostakóvič anni ’60 proprio mentre riesce a sottolineare il suo astrattismo stravinskiano anni ’30…
Mi spiego:
Chailly sembra leggere Lédi Mákbet come l’avrebbe letta uno Šostakóvič maturo, negli anni ’60!
Rispetta il vario e caleidoscopico, quasi divertito, senso della satira, e sottolinea il sardonico aspetto da grande parodia musicale (di Rossini, o di Strauss, identica alle parodie degli anni ’30 di Stravinskij [che proprio in contemporanea, tra ’35 e ’37, parodizzava Rossini in Jeu de cartes], o degli anni ’20 di Janáček [che prende quasi in giro Strauss nelle Příhody lišky Bystroušky del ’24]) che l’opera possiede intrinsecamente…
…e, allo stesso tempo, dà a tutto un corpo orchestrale sopraffino, cólto e disincantato, massoso e pensoso, sorridente ma sotto i baffi, o col sorriso della consapevolezza dell’inutilità, che Šostakóvič sfoggia nella maturità, quando ha le armi strumentali più affinate ma più consapevoli, più tristi e meno pazzoidi, con una “nota di fondo” che esprime la consapevolezza della presa in giro più che l’energia iconoclasta…
È un approccio quasi inedito rispetto alle serissime letture di Rostropóvič, Chung e Nelsons, che ben trattano la rabbia e la pazzia, ma forse acchiappano poco l’ironia… cosa che invece Chailly fa perfettamente!
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Purtroppo, a questa lettura musicale, si affianca uno spettacolo di illustrativismo spicciolo, con troppo lusso inutile nella messa in scena…
Lo spostamento agli anni ’60 o ’70 (che magari poteva sposarsi all’impostazione di Chailly), fa venire meno la povertà zarista, e tutti si muovono in ambienti ricconi che stonano assai con il degrado miserrimo e “contadino” della musica…
L’andamento a flashback, con gli interrogatori in bella vista, appesantiscono con grave macchineria la visione, e non vanno davvero in nessun posto, dato che rimangono muti e mimetici, tanto da risultare quasi ridicoli…
L’atmosfera da festa d’alto bordo imbolsisce tutte le scene, tanto che perfino il sesso e gli stupri, barricaderissimi e spaventosi in musica, appaiono forse poco atroci…
I cambi scena costosissimi, di una scenografia priva di senso semantico, risultano noiosissimi, pura ostentazione di ricchezza…
una messa in scena tutta illustrazione e poco arrosto, molto vicina allo zeffirellismo che Chailly ha promosso pressoché sempre, con Davide Livermore e altri…
speriamo che Chung porti a ben altra consapevolezza scenica…
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Neanche Arnalda Canali, alla regia televisiva, pur tornando a farci vedere, finalmente, il direttore (un sollievo!), è capace di ravvivare la cosa, anzi, i suoi primi piani rimpiccioliscono pure lo sfoggio della macchineria principesca, e tagliano l’insieme dell’azione facendoci perdere spesso il filo…
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Vespa, Carlucci e Pulcini, tutti impegnati a delineare l’immagine dello Šostakóvič anti-comunista, sempre sottolineando le costrizioni, le minacce e le censure subite, alla fine risultavano fumettistici…
…e nessuno, forse il povero Mahmood, oltre, ovviamente, a Paolo Nori negli eventi collaterali evidentemente non degni di RAI1, ha veramente parlato del malsano rapporto tra potere, costrizione e creatività, tra scelta artistica e imposizione statale (con la scelta artistica che riesce, anche con l’inganno, a vincere sull’imposizione) e tra linguaggio musicale e politica: cioè quello di cui Šostakóvič ha “parlato” davvero per tutta la vita…
e nessuno ha davvero sottolineato la malinconia di Lédi Mákbet che, per staccarsi dalla barbarie (che era zarista ma può essere universale), si aggrappa a un sogno di amore e di rivalsa, per il quale uccide e ammazza (forse come la Medea di Apollonio Rodio, o, musicalmente, come La Navarraise di Massenet, 1891), ma che, purtroppo e fatalmente, la ricambia col tradimento, con la presa in giro, con nuova barbarie…
…una delusione da cui, davvero, è meglio fuggire, nelle acque gelide della non esistenza… se stessa e, con lei, tutti quanti!
Una scelta di violento disincanto autoingannante che, a quei tempi, forse ha perseguitato sia gli incubi sardonici e libertari di Šostakóvič, sia le fughe nell’altrove sognato di Prokóf’ev: hanno scontato la loro esistenza con la follia… ma, in certi casi, come dicevano proprio Lénin e Černyšévskij, che cacchio d’altro volevi fare?
Anch’io ho seguito la vicenda della famiglia del bosco, e mi si è gelato il sangue quando ho sentito parlare la mamma di quei bambini di come lei e il marito avevano reso ecologica al massimo la loro abitazione: ne parlava con un fervore inquietante, paragonabile a quello dei membri delle sette religiose (anche la volontà di isolarsi dal mondo fa pensare che lei e il marito, più o meno consapevolmente, avessero creato una sorta di micro – setta). E infatti le autorità hanno iniziato ad interessarsi a questa famiglia quando i bambini sono stati ricoverati in ospedale e sono andati nel panico quando i medici volevano intubarli. Non perché fossero spaventati dalla procedura in sé, ma perché i tubi erano fatti di plastica, e i loro genitori gli avevano inculcato l’idea che la plastica è il Male assoluto. Se arrivi a questi livelli, poi non ti puoi lamentare se ti portano via i figli.
Ma guarda, io invece non l’ho seguita per niente, ma mi sono molto divertito a vederla “seguire” dagli altri… con risultati sì raggelanti, ma anche molto involontariamente comici!
I fiorentini (purosangue o acquisiti che siano) a forza di vivere in una città così dedita all’ironia imparano a cogliere sempre il lato comico delle cose. Comunque tutti i politici calibrano le loro dichiarazioni in base a come la pensa il loro elettorato, non è una scaltrezza che appartiene solo a Salvini.
E cercano di spartirsi, malamente, lo stesso identico elettorato, sempre più risicato… con la stessa gente che ha votato Andreotti –> Craxi –> Berlusconi –> Renzi –> Grillo –> Salvini –> Meloni… mentre altrettanti hanno smesso di votare…
È un giochino al ribasso…
Dopo Meloni, io attendo una rivincita di un insospettabile: Paragone!
Paragone puntò tutte le sue fiches sui novax: erano il 15% della popolazione, quindi bastava che uno su 4 lo votasse e lui era dentro. Il guaio è che le elezioni si tennero a fine 2022, quando la pandemia era già passata da un pezzo: di conseguenza Paragone non ha neanche sfiorato la soglia di sbarramento. Immagino che gli sia dispiaciuto poco e nulla, considerato che una magistratura l’aveva già fatta in precedenza, con tutti i benefici economici che ne derivano.
Tornando ai fiorentini, l’ironia è il loro più grande pregio, ma allo stesso tempo è anche la ragione più profonda del loro autoisolamento. Perché quando provano a scherzare con delle persone provenienti da altre parti d’Italia, queste ultime non stanno allo scherzo, perché pensano subito che il loro interlocutore le stia deridendo, anche quando è evidente che la sua era solo una battuta innocente. Questo discorso vale soprattutto per i meridionali: il loro esagerato senso dell’onore li porta ad interpretare come un’offesa personale anche la più blanda forma di umorismo. Dopo aver ricevuto più volte delle reazioni di questo tipo ho capito come mai i miei concittadini provino un’avversione profondissima nei confronti di chiunque non sia fiorentino e dei meridionali in particolare: perché con loro non si può scherzare, e a un fiorentino se gli togli l’ironia gli togli tutto.
Io ho difficoltà a parlare con chiunque: Nord, centro, sud, est e ovest! Non solo per gli scherzi ma anche per il mio disprezzo per ogni cosa…
Io odio veramente tutti, mettendo in imbarazzo chiunque parli con me!
Scommetto che con questa tettona non saresti così misantropo: https://wwayne.wordpress.com/2022/12/31/i-10-film-piu-belli-che-ho-visto-nel-2022/
Ma chi lo sa…
Di sicuro farei qualche battuta scomposta su una carriera un po’ sprecatina, nonostante le tette
In effetti Alexandra Daddario poteva fare una carriera molto più brillante. Tra l’altro non l’ha fatta proprio perché ha smesso di mostrare le tette a tutto spiano: probabilmente si era stancata di fare la donna – oggetto e si era illusa di poter continuare a lavorare anche indossando dei vestiti a collo alto, non capendo che le sue immense e bellissime tettone erano l’unico motivo per cui aveva sfondato a Hollywood, e quindi coprendole si sarebbe condannata a cadere nel dimenticatoio. Grazie per la risposta! :)
Io sono per interpretare certi usi non così brillanti di attrici tettone come colpa dei maschi: una volta viste quelle, i maschi smettono di vedere i film di quelle attrici, siano esse brave o no (vedi anche Sydney Sweeney, quest’anno abbonata al flop), e poi dànno la colpa alle attrici perché hanno smesso di mostrare le tette…
Ok, ci sta…
Io ammetto che Daddario l’avrei voluta vedere in ruoli degni che forse lei non ha accettato, e di questo, forse, avrei parlato con lei sfoggiando la mia antipatia…
E sarei stato curioso di sapere da lei se davvero le tette, viste o non viste, hanno avuto parte in causa, o se lei ritiene di essere vittima di male gaze…
Comunque argomenti non facili: non ci saremmo divertiti!
E’ nella natura umana provare il cosiddetto horror vacui, ovvero il desiderio irrefrenabile di colmare il vuoto. Quando qualcuno non fa più qualcosa, gli altri trovano subito qualcun altro che lo rimpiazzi, perché non sopportano l’idea che il suo posto resti vacante. Così, non appena la Daddario ha deciso di sua volontà di non mostrare più le tette (perfino in dei film dove farlo era praticamente obbligatorio, come Baywatch), i capoccia di Hollywood l’hanno scaricata e hanno portato in trionfo un’altra bellezza che a differenza sua le tettone le mostra eccome, ovvero Sydney Sweeney. Guardare questa arrapantissima foto per credere: https://wwayne.wordpress.com/2023/12/31/i-10-film-piu-belli-che-ho-visto-nel-2023/
Io non partecipo all’ammirazione per Sydney Sweeney: il suo sorriso mi sembra una paresi… e le tette, beh, 1 ce n’è tante, 2 siamo davvero ridicoli ad apprezzarle solo per le tette..
Sydney Sweeney ha un viso da 7, delle tette da 10 e lode e un resto del corpo da 9. Ergo, a mio giudizio non è apprezzata solo per le tette, anche sono soprattutto quelle il motivo per cui ha sfondato a Hollywood. Se lo merita comunque, perché è partita con un ruolo di contorno in una serie tv (Euphoria), e adesso dopo aver fatto la gavetta si sta godendo lo status di donna più desiderata del mondo.
Quando vedrò dei suoi film, per ora sto a zero, mi pronuncerò…
Per il resto, il suo stardom molto prepotente e comunicato, non mi tange… come non mi tange quello di Zendaya: non sono il mio tipo (e di Zendaya ho visto un paio di film, pessimi)…
Sono rimasto a Pugh, de Armas, Elle Fanning e Jennifer Lawrence: anche loro, però, con tante cavolate fatte…
In effetti è da un bel pezzo che Jennifer Lawrence non recita in un bel film. Anzi, in realtà negli ultimi anni non ha recitato punto e basta, perché ha avuto ben 2 figli. Ha fatto bene, tanto ormai i suoi soldi li ha fatti, e il suo Oscar l’ha vinto. E poi, essendo una 35enne probabilmente sarebbe stata scaricata da Hollywood in favore di una ventenne con o senza figli. Cosa intendi con “stardom molto prepotente e comunicato”?
Jennifer Lawrence spacca in Die My Love, uscito pochi giorni fa! Performance favolosa!
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Sydney Sweeney la vedo dappertutto: che palle
Quindi quell’espressione era un modo per dire che è sovraesposta. Lo trovo del tutto naturale: come ti dicevo prima, è la donna più desiderata del mondo, quindi tutti la cercano per sponsorizzare i propri prodotti.
Però 4 flop di fila…
Potrebbe tornare alle serie con la coda tra le gambe…
Adesso il pubblico (soprattutto quello giovane) si è spostato in massa verso le serie tv, quindi oggi se uno sceneggiatore ha in mente una buona idea ci fa sopra una serie tv, non un film. Al cinema restano solo gli scarti. E tra poco neanche quelli, perché se ci fai caso da qualche mese a questa parte quasi tutti i titoli in programmazione sono dei vecchi film alla seconda distribuzione in sala. E’ come se il mondo del cinema si fosse rassegnato al fatto che ormai le sale sono frequentate solo dagli anziani, quindi tanto vale lusingarli rispolverando delle anticaglie anziché proporgli un film nuovo di zecca che parla un linguaggio troppo moderno per loro.
Alla luce di tutto questo, se la Sweeney tornasse alla serie tv probabilmente non ci perderebbe granché come quantità di spettatori che ammirano la sua straripante bellezza, anzi probabilmente ci guadagnerebbe.
Il mercato delle serie è saturo… le piattaforme sono troppe e tutte uguali, e difatti è un mercato che si difende e arrocca, monopolizzandosi (si comprano tra loro), perdendo chiarezza di mission (non sanno più se fare uscire le serie tutte insieme o a pezzi, creando hype: e se hai bisogno di fare hype più volte all’anno, vuol dire che sei in difficoltà perché fai metà dei soldi che facevi prima in una uscita soltanto), e con la pirateria che torna in auge… con devices diversi che deformano aspect ratio e durate, e quindi storytelling e volti…
Sweeney farebbe bene a smettere del tutto di recitare, e campare di fotografie destinate ai dipendenti dalle tette: guarderanno le sue finché non ne verranno altre, mentre lei, come altre pin up, passerà…
E anche ‘sticazzi…
E’ normale che la Sweeney sia destinata a non durare, perché la corona di donna più desiderata del mondo non può restare a lungo sulla stessa testa. Che io ricordi, colei che è riuscita a tenerla più a lungo (dalla fine degli anni 80 fino alla fine degli anni 90) è stata lei: https://wwayne.wordpress.com/2023/06/30/per-mio-padre-era-un-mito/