«Lancelot du Lac» di Robert Bresson, 1974

Senza esagerazione, Robert Bresson è stato uno dei più grandi teorici del cinema…

su YouTube forse ci sono ancora le sue conferenze sulla necessità del cinema di affrancarsi dalle sue arti sorelle, tipo il teatro per la recitazione e la letteratura per la costruzione della trama…

la sua lucida idea era che il cinema dovesse andare da solo: le pose teatrali attoriche non c’entravano nulla con il cinema, secondo lui: l’attore, nel cinema, doveva essere un supporto per la ripresa, visto che l’immagine è la materia del cinema…

e siccome i suoi film sono solo cinema, senza racconti e senza recitazioni (da un certo punto in poi ha lavorato solo con figuranti non professionisti), la visione di una sua opera spiazza, anche se è spesso parte irrinunciabile dei corsi di cinema, poiché, per spiegare il tempo post-WW2, della Nouvelle vague e del Neorealismo, oltre a Rossellini, Godard e Truffaut, i film di Bresson sono quelli più proposti dai docenti, proprio perché così coerenti nella loro filosofia di cinema, capace di esemplificare quasi come un’antonomasia quel modo, ribelle alle correttezze del cinema narrativo, e ribelle, politicamente, al cinema dell’istituzione e delle industrie, quel cinema come merce che era anche propaganda prima della WW2 e poi è diventato consumo
per uno studente di cinema è difficile non aver mai almeno sentito parlare di Un condamné à mort s’est échappé (’56), di Pickpocket (’59), del Procès de Jeanne d’Arc (’62: il confronto con la Giovanna d’Arco di Dreyer, ’28, è spesso un must dei moduli di Storia del cinema), di Au hasard Balthazar (’66), o di L’argent (’83)…

Lancelot du Lac è anche curioso perché arriva, nel 1974, nella temperie culturale, da me tanto indagata, che, sottotraccia, porterà al boom delle grandi saghe hollywoodiane degli Star Wars, degli Alien, dei Superman e quindi al filone dei fantasy anni ’80

ripeto che la notizia che Tolkien vendeva i diritti cinematografici, nel 1968-’69, innescò molto di quello che poi sarà verbo negli anni ’80…

Luca Ronconi aveva fatto Orlando furioso in uno spettacolo sperimentale a Spoleto, nel 1969, che ebbe repliche redditizie anche a New York, ed è abbastanza per identificare un soggetto cavalleresco in agenda

Dopo gli interessi dei Beatles per Tolkien (addirittura con Kubrick), John Boorman va parecchio avanti nella pre-production di un Lord of the Rings tra ’70 e ’72 e, al fallimento dell’impresa, ripiega su Zardoz (’73-’74), molto influenzato da un’agenda fantasy ibridata in fantascienza

nel ’73 il Rocky Horror Show faceva faville nel West End londinese proprio riferendosi alla classica fantascienza in termini psicanalitici…

Bresson partecipa a tutto questo mentre, dopo negoziati iniziati nel ’71, Alejandro Jodorowski tentava di fare Dune, proprio nel ’74, con Moebius e Giger…

dopo Bresson e Jodorowski, Ronconi porta sulla RAI una riimmaginazione filmica del suo spettacolo, nel ’75, che non ebbe poca eco internazionale…

ancora nel ’75, i Monty Python decidono di esordire al cinema con un fantasy, Monty Python and the Holy Grail: lo stesso soggetto di Bresson… e il Rocky Horror Show diventa Rocky Horror Picture Show al cinema…

è una sorta di entropia che monta e ribolle in potenziale, come una catasta di legname bagnata di benzina a cui basterà soltanto una scintilla per prendere completamente e furiosamente fuoco…

quella scintilla, si sa, fu l’inaspettato successo di Star Wars di Lucas (’77), che dette poi il via a tutto il resto, dall’Excalibur di Boorman (’81) al Dragonslayer di Robbins (’81) al Conan di Milius (’82) in poi… con, parallele, le lavorazioni del Superman di Donner, del Lord of the Rings di Bakshi, dalle ceneri del lavoro di Boorman (entrambi escono nel ’78) e di Alien di Scott (’79)…

Robert Bresson, il grande teorico, il filosofo del cinema non narrativo estraneo all’industria, si trova quasi a originare un’agenda poi a lungo sfruttata proprio dal cinema narrativo industriale…

E il suo film un po’ detta il tono per i successivi fantasy con le armature e le spade…

sicuro, il cinema muto, in quanto a cavalieri e spadoni, non aveva pochi modelli da offrire, tra Abel Gance, Murnau ecc., e neanche la Hollywood classica, tanto odiata da Bresson, non aveva disdegnato l’iconografia equestre, tra Robin Hood vari e Cid Campeador eventuali (il film di Anthony Mann con Charlton Heston è del ’61)…

Bresson, con Pasqualino De Santis alla fotografia (i soldi che trovò per il film erano anche italiani: con De Santis, Bresson girerà gli altri due film che completerà: Le Diable probablement, ’77, e L’argent, ’83), preferisce però concentrarsi su esempi pittorici: i quadri di Frederic William Burton, di John William Waterhouse, di Pierre Charles Comte, di Edward Robert Hughes, di Edmund Leighton, oltre a tutti i pre-raffaelliti possibili…
è pittorica l’impostazione visiva dei due, che rappresentano l’immaginario arturiano non con classiche inquadrature narrative, ma con una serie di piccoli dettagli, spesso insignificanti, sui quali una macchina da presa ferrea si muove quasi come un automa, una sorta di marionetta, privilegiando spostamenti netti, sull’asse (Bresson preferisce il movimento dal basso all’alto o viceversa rispetto a quello, comunque presente, da destra a sinistra o viceversa), come se fosse un burattino manovrato non da un’istanza narrativa ma appunto da una voglia evocativa di rappresentare un ricordo di vicenda mediante composizioni d’immagine, che sono come dettagli di un quadro più grosso che la macchina da presa inquadra quasi solo accidentalmente, poiché preferisce comunicare il piccolo di quei quadri, il particolare di quei quadri, lasciando percepire ogni tanto il totale…

come marionette appaiono anche i cavalieri, all’inizio, così impegnati in movimenti di battaglia che paiono codificati e coreografati, per nulla naturali, con anche i corpi palesati come dei quasi robottini scenici con ben visibili i meccanismi di pompa del sangue finto…

il loro cavalcare è stereotipo, non è un vero cavalcare: sono le immagini, è la macchina da presa che rende, che rappresenta il cavalcare con una serie di shot reiterati, identici, in cui si vedono e si sentono i cavalieri, che agiscono sul cavallo dalla destra alla sinistra dell’inquadratura, ma il loro agire è evocato dal cinema: non sono cavalieri effettivi che cavalcano ma sono immagini di cavalieri che con l’effetto suggerito dal visivo e dal sonoro ricostruiscono il cavalcare…

il ricorstruire e l’evocazione rappresentativa si applica a tutto, alle tende scenografiche poverissime e minimali, a tutto il sistema di ripresa che quasi nega il necessario per soffermarsi sul superfluo…

la macchina da presa spesso inquadra il terreno, i piedi dei cavalieri e gli zoccoli dei cavalli, lasciando completamente acefale le figure principali, come se l’effettiva identità dei personaggi fosse del tutto secondaria rispetto al contorno pittorico
e anche quando li inquadra, spesso lascia le figure principali di spalle, o volutamente a volto coperto…
molte volte la macchina sembra accontentarsi di inquadrare le ombre dei personaggi invece che i personaggi stessi…

molte volte una macchina da presa incollata a un personaggio sceglie di smettere di seguirlo quando egli, quasi per una metafisica predestinazione, attraversa uno scorcio di composizione privilegiato, come una pozzanghera a forma di cuore, che diventa stranamente più importante della destinazione del personaggio…

il film è fatto quasi completamente da architetture di punti di vista compiuti per composizione, quasi volendo esprimere un’autosufficienza dell’inquadratura monopuntale, priva del bisogno di stacchi, come se tra uno shot e l’altro non ci fosse alcuna tensione reciproca…

un’autosufficienza che però spesso non cerca un soggetto dell’autosufficienza ma si limita a dare l’idea dei contorni di quel soggetto, come se la composizione totale e i suoi dettagli decretassero una forma molto più importante di un contenuto che da quella forma viene negato…

nonostante questo, il montaggio (di Germaine Lamy) gioca un ruolo fondamentale perché, anche se non determina la tensione reciproca tra le singole inquadrature, le organizza per azioni e ne determina le elisioni diegetiche, o ne completa certe reticenze: diversi colpi di giostra combattente sono organizzati al montaggio, ed è il montaggio che produce un certo senso di stralunatezza posponendo quasi per caso i quadri dettagliati delle immagini, nel contempo anche contribuendo alla conduzione acefala del film, perché le giustapposizioni del montaggio dànno molto l’idea che i particolari pittorici delle immagini si muovano per coazione più che per azione…
mi spiego: certe situazioni sono date allo spettatore per suggestioni appunto automatiche, come gli automi di personaggi inquadrati: le scene reiterate quasi identiche non si contano: la parte centrale è occupata da un torneo in cui tutte le sfide sono accompagnate da situazioni identiche che si ripetono: la preparazione della lancia, la giostra, l’alzabandiera, la banda che introduce la tenzone, il commento di Arthus e Gauvin: tutto si ripete identico, nello stesso ordine, molte volte, come un rituale…
e anche la salita a cavallo dei personaggi è spesso inquadrata in modo simile…
è come se i personaggi si muovessero per un’inerzia chimica invece che per libero arbitrio, che vadano avanti per coazione a ripetere invece che per necessità…

in tutto il film è anche la conduzione del sonoro a creare un mondo non lineare: le battaglie, spesso, manco si vedono: vengono sentite nel sonoro, ogni tanto gratificato dalla musica (di Philippe Sarde), medievaleggiante e molte volte intradiegetica, e anche se extradiegetica per nulla di commento ma quasi slegata dall’azione e dalle immagini…

l’agire di queste immagini ci immette in un mondo quasi privo di volontà, che però sente una sorta di urgenza metafisica a muoversi, ma nel muoversi non centra né il senso né lo scopo del proprio muoversi, dando corpo visivo a un andamento pseudo-narrativo che esprime la mancanza di significato dell’esistenza tutta…

Al ritorno della infruttuosa e mortifera ricerca del Graal, Guenièvre convince Lancelot a rinunciare al suo fioretto di non tradire Arthus amandola…
per Guenièvre il fioretto è assurdo: come può una cosa grande come dio interessarsi ai suoi amori, e come può un sentimento reciproco influire sulla morte di tutti? è assurdo…

ma tali assurdità superstiziose sono all’ordine del giorno nel campo arturiano: i cavalieri si spaventano se vedono la luna oscurata dalle nubi, come se le nubi potessero sconfiggere la luna…
e il sistema dell’ordalia fa credere ai cavalieri della morte di Lancelot solo vedendo il suo gonfalone squarciato, sulla sua tenda, dopo un temporale…
quello del campo arturiano è un mondo incerto, spaventato dalle credenze delusionali, davvero acefalo come le inquadrature che ce lo fanno vedere, che per andare avanti si affida alla non azione codificata della reiterazione, della ripetizione priva di pensiero…

e, nonostante questo, una certa umanità affiora, come le composizioni pittoriche che distraggono la macchina da presa dalle figure principali: una sorta di afflato vitale si suggerisce nell’amore che nonostante tutto sboccia tra Lancelot e Guenièvre e sulle sue conseguenze…

il gossip della relazione incupisce Mordred, che fa di tutto per trovare le prove e portarle ad Arthus, con Lionel e Gauvin quasi solitari nel difendere la purezza di Lancelot…

questi frammenti di trama non vengono ovviamente risolti e diversi snodi fondamentali vengono esplicitati nei laconici dialoghi quasi a posteriori, a cose fatte, e sono contrappuntati da una serie di simboli reiterati, in visivo e in sonoro, che stanno per l’azione
che Mordred sappia tutto dell’Amore tra Guenièvre e Lancelot è detto dal dettaglio della sciarpa di Guenièvre, che Mordred ruba dal posto segreto degli amanti… un posto segreto che viene determinato dal suono dell’allodola, quasi slegato dai dialoghi, che ritorna come un sogno in una trama che non va avanti, ma si poggia appunto su questi simboli per essere percepita… simbolo di Guenièvre anche la bifora della sua finestra, ripresentata come un tema ricorrente…

un torneo inutile occupa il centro del film, quasi un a sé nel bel mezzo della mancata diegesi: Lancelot sembra parteciparvi per evitare una trappola di Mordred, appostato di nascosto nelle stanze di Guenièvre, sicuro di testimoniare dal vivo la tresca (Mordred e la sua squadra di congiurati sono certi di pugnalare Lancelot appena entra nelle stanze di Guenièvre e col sangue dimostrare ad Arthus l’adulterio)…
Lancelot pare partecipare al torneo stranamente sotto mentite spoglie, vincendo tutto, sotto gli occhi di Gauvin e Arthus, ma poi sparisce, ferito da una assurda caduta da cavallo (la ferita di Lancelot come simbolo del senso di colpa per il tradimento di Arthus con Guenièvre fa parte della leggenda arturiana, è in Chrétien de Troyes e in Thomas Malory)… la sparizione di Lancelot fa concludere a quasi tutti che il cavaliere vincitore non poteva essere lui, poiché egli avrebbe certamente rivendicato le sue vittorie…

La sparizione di Lancelot viene interpretata come la sua morte, innescando la voglia di Gauvin e Lionel di provare l’innocenza di Guenièvre con un duello con Mordred: Gauvin cerca di convincere Guenièvre a smettere di andare nella rocca boschiva dei suoi amori con Lancelot, così da calmare gli animi, ma invano…

poi vediamo Guenièvre prigioniera di Arthus, stavolta convinto solo con le parole di Mordred del tradimento di Lancelot… e della prigionia di Guenièvre, un ferito Lancelot, curato da contadini (gli stessi che aveva trovato all’inizio e che pensavano ai cavalieri come a una minaccia, anche se ne sono comunque attrati: questi contadini sono un elemento molto numinoso: Lancelot si perde e si rifocilla presso di loro ed è il loro paese a chiedere l’assurdo torneo contro Arthus: nella scena iniziale perfino Gauvin è sorpreso che Lancelot arrivi di notte, dopo i feriti, perché si è perso in mezzo ai contadini e la contadina, all’inizio, pare predire la morte di Lancelot!), viene a sapere quasi per magia, e parte, pur ancora con le ferire non rimarginate, per difendere la regina (e i contadini, tra cui una ragazzina attratta da Lancelot, sembrano sapere perfettamente che andrà a morire)…

la battaglia per la difesa di Guenièvre non si vede, ma ne apprendiamo l’efferatezza dal fatto che Gauvin, grande paladino di Lancelot, è paradossalmente ferito mortalmente proprio da Lancelot: dai soli dialoghi striminziti si apprende una complicata azione in cui Agravain, fratello di Gauvin, parte dell’esercito di Arthus, affronta Lancelot e rimane ucciso: e per vendicare il fratello, quindi, Gauvin, del campo di Lancelot, cerca di uccidere Lancelot, ma Lancelot uccide pure Gauvin…

non ci si capisce niente, ma si sa che Lancelot è riuscito a strappare Guenièvre dalla prigionia di Arthus, lasciando cadaveri anche dalla parte sua amica…

tanto che Guenièvre è inorridita…
adesso anche lei, all’inizio restia alla superstizione che impediva il suo amore, sembra cedere ai fatalismi, dicendo che tutti quei morti sono davvero causati dal suo Amore sbagliato per Lancelot…

un Lancelot incredulo: proprio lui che voleva porre fine all’Amore fin dall’inizio, e che si era fatto convincere da Guenièvre a continuare, nonostante le malevolenze di Mordred, si sente confermare da Guenièvre quelle stesse paure che lei stessa aveva scacciato…

sconsolato, Lancelot lascia Guenièvre tornare da Arthus, ma quando si ha notizia che Mordred, mai pago, ha mosso congiura anche contro Arthus per diventare re, parte a strombattuto a difendere il legittimo suo re, anche per espiare il fatto di avergli rubato la moglie…

ma l’ultima battaglia è amara: in un bosco scuro non vediamo nulla se non cadaveri… sono morti tutti, anche Arthus e Mordred…

Lancelot stesso muore mentre evoca Guenièvre e scorge nel cielo un uccello (un corvo? un falco?) che, come tanti altri elementi, simboleggia una mancanza di senso di tutto quanto, che ha prodotto solo morti: la catasta di armature morte sono l’ultima immagine del film…

Quello di Bresson è un regno arturiano quasi fatto da pupi, con tendine di cavalieri che sono semplice scenografia, con attori privi di intenzioni e mai recitanti, che producono i loro movimenti davvero come se fossero mossi dai fili, quei fili che rendono automatiche anche le immagini della macchina da presa, che si bea nei dettagli dei bellissimi quadri che inquadra, autosufficienti per composizione formale quanto inutili per la loro mancanza di contenuto, in cui l’animo umano, con i suoi amori e le sue gelosie, non trova motivo né significato, ma c’è e contribuisce al non senso, andando dietro a credenze e superstizioni (il credere ai fioretti di dio, alle nubi più forti della luna, alle ordalie, alle civette, alle sciarpe metafisiche, alla stessa lealtà verso gli amici, all’Amore stesso) a cui sceglie di affidarsi ma che non hanno valore nell’esistenza accidentale e insignificante, finendo in nulla, nella morte, unica uscita dall’insensato…

l’umano come marionetta del niente, che si inganna di avere un motivo nella sua stessa umanità, ma che si perde soltanto nell’autoinganno di uno show reiterato di pupazzi fatto di fondali, tende e suoni…

Lancelot è Luc Simon, un pittore che ha fatto solo un altro paio di filmetti…

Gauvin è Humbert Balsan: è stato assistente di Bresson in Le Diable probablement e in qualche documentario… ha fatto non poco come produttore… si è suicidato nel 2005…

Guenièvre è Laura Duke Condominas: figlia di Niki de Saint Phalle, ha recitato un altro paio di volte, ed è stupendissima nel dare una cupa disperazione stilizzata a Guenièvre: Bresson architetta per lei una delicatissima sequenza in cui fa il bagno attendendo l’amore di Lancelot, tutta monopuntuale e piena di dettagli “amorevoli”, come lo sguardo “indiretto” di Guenièvre che si affaccia, diretto alla macchina da presa, dagli specchi che, come dei mascherini, creano inquadrature dentro l’inquadratura…

3 pensieri riguardo “«Lancelot du Lac» di Robert Bresson, 1974

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  1. Il Superman di Donner spacca, ma per me il miglior film di Superman in assoluto è il terzo, quello in cui c’è Richard Pryor a fargli da spalla comica e una villain terrificante a fargli da antagonista.

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