«Demon Copperhead» di Barbara Kingsolver

Come ci arrivo?

Dal solito blocco del lettore denunciato in Almeno tu

…il tentativo di estinguerlo è purtroppo incappato nei Giorni di Vetro, che, magari, se evitavo, era meglio…

da lì si sono susseguiti due tentativi nella saggistica: uno, Storia del dove, è riuscito; l’altro, L’invenzione del bene e del male di Hanno Sauer, è andato peggio: ora è in pausa…

quindi c’è stato l’ennesimo assalto ai Fiori per Algernon, la cui scalata sta andando avanti da almeno un anno, ma proprio non c’è madonne: sarà la quarta volta che sbocconcello i capitoli centrali, ma sono ancora arenato a metà (e anche il tentativo di leggerlo in inglese non ha aiutato): troppo prolisso…

allora, strucugliando incipit a caso nel campo delle riletture (il Tristram Shandy di Giuliana Aldi Pompili [io lessi quello di Lidia Conetti Zazo, condotto quasi 35 anni dopo: sarebbe stato opportuno un confronto? o magari leggerlo in inglese? mmm]; e Sylvie & Bruno di Carroll nella versione classica di Franco Cordelli [sarebbe stato curioso collazionarlo con la nuova edizione di Chiara Lagani, forte del linguaggio più fresco di quasi 50 anni di ricerche traduttive? o anche quello leggerlo in inglese? ugualmente mmm]), in cerca di acchiappanze (termine che desumo dal doppiaggio di Carlo Cosolo di Say Anything… di Cameron Crowe), trovo un inception che mi supporta la continuazione della lettura in un libro mai letto e, per giunta, recente!

giuntomi tra le mani per pura curiosità perché appartenente alla medesima collana, la Bloom di Neri Pozza, che mi aveva regalato le Bestie di Dizz Tate, una delle letture più slurpanti dell’anno scorso, e perché vincitore di diversi premi seri, inizio a leggerlo in ebook senza alcuna contezza della sua stazza di quasi 700 pagine…

Pubblicato in America da HarperCollins nel 2022, quando il primigenio disastro Trump è appena finito, arriva in Neri Pozza nel 2023, con una traduzione paradisiaca di Laura Prandino, di quelle che ti ci vuoi tuffare dentro!

L’esperienza, però, è discontinua…

Siamo nella Lee Country, dove la Virginia si insinua in mezzo a Kentucky e Tennessee, durante gli anni ’90 e poi al principio dei 2000s…

Kingsolver si rimmagina il classico David Copperfield di Dickens in questo tempo…

di primo acchito la cosa dà l’idea di una regia moderna di opera lirica: anche se le pieghe della lettera non quadrano così tanto, l’aggiornamento dei problemi e il trasferimento della geografia regge molto bene e illumina il classico davvero di luce nuova…

in più ha anche il vantaggio di non essere un verbatim ma di muoversi dalle parti dei migliori remake attualizzanti cinematografici di Shakespeare, tra Romeo + Juliet e 10 Things I Hate About You (entrambi, anche loro, prodotti di contesto: entrambi usciti negli anni ’90)…

nell’aggiornamento, Kingsolver sembra una bestia: puntuale, implacabile nella traslazione dei drammi e fantasiosa nell’immaginazione…

gli orfani rimangono, e rimangono il lavoro minorile, le stragi familiari, i lutti sociali e personali: tutto eruttato con l’eloquio dei bambini e poi adolescenti dei 1990s, rabbiosi ma schematici e pressapochisti, tutta passione e poca riflessione, che, quando c’è, è pure egoistica, personale e aneddotica, con la colpa da far ricadere su tutti tranne che su noi stessi: Kingsolver ritrae tutto questo al meglio grazie all’espediente di far parlare un io narrante adulto (20enne, nei 2000s) che rievoca (nei ’90s) rivivendo il passato con una sorta di taglio del senno di poi (vedi anche Le ragazze di Cline) però mai pronto all’autocritica ma sempre in prima fila per giustificarsi o perfino “auto-apologetizzarsi”…

Kingsolver, da vera maestra, non fa un romanzo di “emozioni” sciorinate per il solo gusto dell’emozione: sono emozioni legati a fatti, mai rivolte a nessun altro se non al suo io narrante, e, per di più, mai scritte per traslarsi nel lettore ma solo e soltanto comunicate dall’io narrante *da* se stesso *per* se stesso…

non è, quindi, un libro di emozioni, che sta pagine e pagine a dire cosa hanno provato tutti i personaggi, dal protagonista al cane del protagonista (non è Postorino)… né una pesante immersione sentimentale, compiaciuta e fatta apposta per far piangere il lettore, di uno sfigato (cioè Yanagihara)…
ma è solida narrazione obliqua di fatti e di reazione a quei fatti, condotta magistralmente da un narratario fallace, che sa sia di contraddirsi sia di enunciare quel che gli pare sia di essere cresciuto (male) mentre narra cose del passato…

è una tecnica mirabile e acchiappa a mille!

anche perché non è mai né una lagna da indirizzare al lettore né un’autocommiserazione per il narratario, che, almeno nei primi due terzi, non si piange mai addosso…

la mancanza di autocritica non dà fastidio per via di un diffuso nichilismo autentico e vero, né edulcorato né rancoroso (alla Pirandello, per capirsi), molto sincero, che a uno sguardo taglientissimo ed essenzialissimo dell’esterno (le descrizioni ormonali, da 15enne, delle ragazze che arrapano il protagonista, sono il massimo dell’esplosivo per il loro connubio glaciale tra brevità e capacità evocativa delle parole-immagine) affianca, all’interno, un modo aforistico massoso, sì plateale, ma così corrosivo e roboante che ti travolge e trascina con lui: sei proprio d’accordo e vorresti che su quelle massime disperate ma nette e saturninamente sardoniche si basasse l’esistenza di tutti!

poi, però, arrivano i punti deboli…

e sono parecchietti…

l’incollamento a Dickens, dopo un pochino, mostra tanta di quella corda da risultare ridicolo, con, perfino, un senso di déjà vu delle situazioni, alle volte perfino squallidamente prevedibili (i calchi di Uriah Heep, Dora Spenlow e Agnes Wickfield [vedi anche Bohemian Rhapsody] sono così pedissequi da fare quasi rabbia)…

il sostituire l’etilismo ottocentesco di Dickens con la dipendenza da antidolorifici rende, a partire dalla metà, il tutto una storia di droga che vorrebbe essere più sgradevole di quello che risulta, e appare, spesso, meramente funzionale per istanze di denuncia sociale americanista

poiché, ben presto, la lunghezza immotivata e spiantata plasma una sorta di deviato telefilm americano, con tanto di deplorevolissimo scadimento proprio nell’americanata

Introducendo il cinema hollywoodiano nella Storia del cinema mondiale Einaudi, Gian Piero Brunetta descrive quello americano come il cinema degli eroi, che non è mai stato esente dal peggiore e lisergico buonismo dell’«arrivano i nostri», alla ricerca di finali lieti anche dove di lieto non c’è nulla… anche Terry Gilliam, nella sua critica a Schindler’s List dice che un americano non riesce mai a parlare di fallimento, ma solo di successo… anche se di successi non ce n’è per niente…

in questi difetti, Barbara Kingsolver casca con tutte le scarpe…

dopo l’ultima parte del libro, fatta apposta per abbrutire il protagonista nella droga, Demon Copperhead tenta di riannodare le fila e lo fa nel peggiore dei modi…

  • scova una catabasi cacata a forza proprio da resa dei conti esageratissima, davvero simile a quell’episodio di telefilm anni ’90 in cui morivano tutti subito prima del finale di stagione così da giustificare un cambio di cast nella serie successiva…
  • la fa seguire da una anabasi scolastica e didascalica, molto simile a quella di Flight di Zemeckis, in cui, dopo la solita miracolosa riabilitazione, al protagonista si aggiusta tutta la vita e diventa uno zucchero (vedi anche Walk the Line)…
  • incappa nella sempiterna indecisione tra glorificare la vita che racconta e criticarla (alla libro italiano qualsiasi), mandando un po’ in vacca le bellezze stilistiche…
  • fa troneggiare un sulfureo elogio dell’America rurale che non si sa dove va, specie quanto vorrebbe condirsi di anticapitalismo: risulta solo in indeterminato sciovinismo populista, dalle venature perfino trumpiane…
  • nonostante leggerissime aperture all’antirazzismo, finisce per dare retta proprio ai Repubblicani nel dire che i più disgraziati di tutti, in USA, sono i vecchi rimbecilliti che si ostinano a voler rimanere tali, con le disperazioni delle altre minoranze relegate a lamentina immotivata: la solita pretesa degli stronzi di essere i più disgraziati di tutti…
  • il finale di Dickens di far sposare al protagonista quella che, nizzole e nazzole, è la sorellastra, è ciò che regge meno nell’adattamento all’oggi… scivola in un ridancianissimo cattivo gusto e mostra la corda proprio di tutta l’operazione di adaptations perché da espediente facile nel 1850, nel 2000 in diegesei e nel 2022 in poiesi butta via tutto il romanzo nel cesso dei falsi problemi e arronza un sottotesto ignobile:
    Demon si sposa la sorellastra dopo la riabilitazione e quasi sancisce l’irrealtà del fatto, e rende Demon un bello che ce la fa proprio perché bello e quindi passibile del pregiudizio classico del καλὸς καὶ ἀγαθός, che spazza via tutte le crudezze del libro…
    se tutto gli va bene perché è bello, tanto che scova perfino la donna della vita in colei con cui, appunto, ha già vissuto tutta la vita, allora i suoi problemi c’erano davvero o era solo Bildung idealizzante e archetipica ottocentesca che nell’idealizzazione dell’Ottocento aveva senso ma che nell’America del 2000 annulla qualsiasi denuncia nelle secche della coglionaggine?
    Perché se Demon bello “merita” per davvero, e non per metafora, l’amore della bella, allora Demon i problemi ce li ha avuti davvero o erano bubbole?
    e non solo: questo finale «lieto per forza» sussiste o è come quelli di Frank Capra, che appicciano una idiozia di happy end a un finale che è tutto meno che happy?
    La Cosa dei Fantastici 4 o Eric Stoltz di Mask, che si scopano la più bella del bigoncio perché lei è, miracolosamente, cieca, così da potersene sbattere delle loro mostruosità (e la cieca di Stoltz è addirittura la Laura Dern del 1985), è una cosa realistica oppure è fiaba consolatoria come la scemenza di far diventare principi i ranocchi e le bestie baciate dalle principessine?
    E se sono fiabe allora il realismo, anche nichilista, tanto apprezzato all’inizio da che parte sta?
    Non si rischia di renderlo tutto una rievocazione ottocentesca appunto schematica e scemotta, oltre che, si diceva, tremendamente conservatrice, regionalista e sciovinista?
    Non si rischia, gratificandolo di un finale da bello, di far finire Demon in quelli che millantano i falsi problemi che lui ha denunciato per tutta la vita? Cioè, Demon che si è sempre ritenuto il più disgraziato di tutti perché contadino orfano e drogato della Virginia, più discriminato di tutti i discriminati, più dei neri e più dei gay, ma che alla fine si scopa la sweetheart, è davvero un disgraziato o è anche lui uno di quelli che si lamenta senza averne ragione come lui ha sempre ritenuto i neri e i gay?
    Un disastro!

Veramente un peccato che il finale smonti un librone stilisticamente interessante, e un processo di adattamento che era partito con le migliori premesse…

Per capirsi:
Demon Copperhead, per quasi 2/3, prende bene e si fa ammirare per la concretezza di pensiero, e forse rimane un ottimo documento per conoscere l’America rurale, proprio, appunto, per certi sciovinismi trumpiani e populisti (e anche per la sincera descrizione di quello che va bellamente a ramengo nella tutela dei più deboli, con il rendiconto delle più minute aporie amministrative e sociali), ma lo scadimento dell’adaptation nella sbrodolata da telefilm, con un finale assurdo, lo fanno relegare malamente nel campo delle americanate un po’ fastidiose, oltre che immotivatamente lunghe…

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