«Wonder Woman» di Antonio Latella e Federico Bellini al Teatro di Rifredi

Io sono molto sensibile all’argomento e, di recente, Noémie Merlant lo ha affrontato con stupendi logos visivi nelle Femmes au balcon (diretto nei Libri, film e opere contro la violenza di genere)…

Antonio Latella, da me abbastanza apprezzato un paio d’anni fa in un Edward Albee alla Pergola, dice la sua un po’ cadendo nel problema di Call me by your name: siccome il tema è indispensabile per una convivenza leggermente al di sopra del Far West (dove, purtroppo, si vive), allora la sua semplice enunciazione contiene tutto, di per sé, basta sia…
ma invece no, purtroppo…

Maria Chiara Arrighini, piccoletta e compatta;
Giulia Heathfiled Di Renzi, rossa e dinoccolata;
Chiara Ferrara, perbenino ed educata;
e Beatrice Verzotti, poderosa e materica
quattro incarnazioni della donna (velatamente riflesso delle tre Streghe di Eastwick?) urlano le aporie di una sentenza anconetana di assoluzione degli stupratori, e narrano i soprusi subiti dalla vittima in ogni lembo (dalla denuncia, all’ospedalizzazione, all’ostracismo familiare, all’atroce assoluzione dei carnefici: alcuni toni adombrano quasi pericolosamente quelli dell’ultima arringa di A time to kill del povero Joel Schumacher: ai tempi, 1996, Cesarino Barbetti affidò McConaughey a Luca Ward) di una vicenda presa a sineddoche della maledizione del patriarcato…

non c’è scena, se non i microfoni e i loro cavi, disposti, alla fine, a formare un sistema di rettangoli precisi sul palco nudo… cavi rossi come le scarpe anti-femminicidio di Elina Chauvet (o di Sandra Landi, presente in sala con Serra Yilmaz, o di Posto occupato) indossate dalle donne, unico costume a cui, alla fine, si uniscono alcuni stracci rituali, tra un voodoo femmineo e un fortunoso cosplay di Wonder Woman, supereroina ispiratrice del testo…

le donne stanno una accanto all’altra, e pur recitando da dio tutte le emozioni della vittima e tutte le sconcezze degli stupratori, dei medici, dei questori, degli avvocati e perfino delle magistrate donne assolutorie verso i carnefici per ragioni mediatiche, raramente si muovono dalla rigida stasi della sistemazione una accanto all’altra nello stesso ordine…

il testo è bello, ed evoca tutti gli archetipi che ci vogliono, dai riferimenti classici (si sa che Wonder Woman sarebbe una sorta di dea Diana: per fortuna si tocca l’immaginario pop riferendosi alla Lynda Carter del ’75-’79 e al suo TV theme di Charlie Fox e Norm Gimble e mai al pessimo film di Patty Jenkins), dalle Erinni alle Eumenidi, da Dike a Urano alla sua testicolare figlia Afrodite, da Dante a Law & Order SVU per il fatale strazio che il corpo della vittima è esso stesso prova del reato, dalle Femen a Non una di meno

e il quartetto femminile è eccezionale a dimostrarsi polimorfica mente singolare della vittima e insieme coro nefasto degli altri dalla vittima, raccontando lo stupro, la denuncia, gli esami, il processo e le conseguenze, incarnando tutti gli attanti di queste fasi in un testo che tutto sommato rimane una sorta di trasformistico monologo, trasferito, a turno, alle attrici paratatticamente disposte quasi come pannelli pittorici semoventi ma insieme ferme lì (e la rettangolatura dei cavi dei microfoni, sul finale, enfatizza la disposizione a polittico), lì sul posto, stanti, insieme tutte e tutti nell’incorniciatura di un lavoro pittorico (e noto che, magari, un po’ di porzione di recitato in più mi è sembrato ce l’avesse Chiara Ferrara)…

il dramma è che questa impostazione, alla fin fine monologante e statica, pur tutta emotiva e a suo modo mobile (perché nel fare tutto le attrici si muovo assai), suscita fermezza e fissità invece di partecipazione… e il carattere enunciativo del testo non si salva dalla verbosità…

per bilanciare la cosa, Latella opta per alcuni momenti di vaniloquio di solo movimento (il bellissimo «bla bla bla» polifonico) e per una seconda parte muta, fatta di sola danza (le coreografie sono di Francesco Manetti e Isacco Venturini), su lisergiche, percussive e dai sapori di misticismo gregoriano, musiche originali di Franco Visioli, agita ancora dalle attrici, vestite con i cascami rituali da cosplay, stavolta più aperte allo scambiarsi di posto e a sfidare l’irreggimentazione rettangolare…

tutto è bellissimo, ma niente toglie all’operazione il saporaccio della lezioncina benintenzionata che forse cade nel disastro del didascalico

sicuramente in un mondo di Giuseppe Cruciani spettacoli così sono necessari, e la perizia delle attrici merita perfino idolatria da quanto sono brave, ma certe increspature le ho viste

  1. nella fissità del sistema monologante: sì, le donne si muovono ma non cessano di essere pannello, quasi exemplum iconico: alla lunga io ho avuto un’impressione di prigionia più che di altro: non so se la cosa era voluta per eternalizzare la maledizione del patriarcato o che altro…;
  2. nello stesso sistema monologante, mobile e cangiante quanto vuoi, ma tragicamente broadcast: a metà spettacolo (che in tutto non raggiunge gli 80 minuti) le attrici prendono perfino il microfono e ci parlano dentro denunciando i media complici del patriarcato: non so se era il sistema giusto per farlo, visto che è uno spettacolo che non dialoga, se non per finta, ma trasmette e basta, cosa che col microfono usato in quel modo si smaschera ancora di più…
  3. nell’assenza della componente maschile, che causa il dramma ontologico della lotta al patriarcato…
    i maschi “ci sono”, rappresentati dalle donne soprattutto nelle prime battute di rievocazione della violenza subita, ma non ci sono davvero…
    sono rappresentati bene, con tutti i loro vizi e tic fallici… ma nella denuncia che siano i maschi il problema io continuo a non capire perché allora lo sguardo non debba essere sul maschio da stigmatizzare e rifare invece che sulle donne…
    certo è sacrosanto il monito di Margherita Vicario e Vinicio Capossela («E un’altra volta è lui a prendere la scena, è ancora lui ad invocare pena») secondo cui il vedere la vittima è forse più efficace che dare spazio all’onnipresente assassino che non meriterebbe neanche un’occhiata…
    potrei essere d’accordo…
    ma allora l’impostazione appunto di Noémie Merlant, che uccide i carnefici per smascherarne le follie, in una impossibile evocazione dialogica, capace di sbattere in faccia agli uomini la loro infima infamità, mi sarebbe piaciuta di più delle urla sì sacrosante ma del tutto ribadenti e perfino orrorosamente risapute delle donne di questo show…

risulterò quindi forse antipatico a dire che uno spettacolo come questo è simile a certe operazioni televisive, appunto alla SVU o alla Amore criminale: indica la disperazione della donna, che urla la propria condizione di schiacciata dal patriarcato, nella speranza
1. di suscitare consapevolezza nelle altre donne, che devono denunciare pur conoscendo i pericoli vergognosi che corrono nel farlo,
2. di suscitare pietà negli uomini violenti, magari colpiti dalla disperazione che provocano nelle loro vittime…

e in questo ultimo punto, a mio avviso, l’intento si abbatte nell’impostazione statica da broadcast e nell’iconografia da polittico fisso, che rende le donne quasi icone là dove dovrebbero essere vive agenti della propria liberazione (forse la danza finale, che calpesta i rettangoli rossi dei cavi dei microfoni suggeriva proprio questo?), e rimane effettivamente privo di maschi, e cioè appunto privo dell’unico elemento che causa il patriarcato che è la mentalità maschile della borghesia capitalista… e magari questa mentalità andrebbe colpita…
e si colpisce con i risaputi slogan e inni sulla sempiterna disperazione femminile?
forse…

o forse un qualcosa di vendicativo (alla Coralie Fargeat) o di dibattuto (alla Noémie Merlant) avrebbe elevato lo show dal pur splendido compitino perfino semi-televisivo, da documentario, da spiegone, che è…

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