Lee

Dopo Strange Darling, Vertice 360 ci porta in sala un altro eccezionale film del 2023, completamente prodotto da Kate Winslet con i soldi suoi senza l’appoggio di nessuna distribuzione major

Un film che batte bandiera britannica: Winslet l’ha plasmato da sola, con esiti davvero sorprendenti!
Solo la sua fama e la sua coerenza artistica sono stati in grado di garantirle un cast sopraffino, da lei contattato quasi di persona uno a uno (Cotillard, una smagliante Noémie Merlant, O’Connor, Skarsgård, per altro seconda scelta dopo i problemi del designato Jude Law alle fine afflitto da conflitti di scheduling), e una troupe da serie A (niente meno che Pawel Edelman alla fotografia, Alexandre Desplat alle musiche [hanno fotografo e “musicato” Winslet in Carnage] e Gemma Jackson alle scenografie [ha “visto” Winslet in Iris e in Neverland]), in un mondo produttivo governato dal maschilismo che non ha fatto altro che metterle i bastoni tra le ruote, tra do ut des scandalosi («se mi fai la particina nel mio film di merda ti do i soldi per il tuo») e rifiuti del tipo «ma a chi vuoi che interessi la storia di una donna!» [o non era il tempo di «ormai tra donne e uomini c’è parità, quindi è inutile insistere su film femministi o woke: se insistete nel farli vince Trump»? Sì sì: sognate sognate]

Winslet ha dovuto pagare diverse settimane di stipendi di tasca propria e ai primi giorni di riprese si è anche stirata la schiena, cosa che l’ha resa quasi incapace di girare scene in piedi, ma non si è arresa!
Il film, gestito dall’occhio di Ellen Kuras, colei che aveva fotografato Winslet in Eternal Sunshine of the Spotless Mind che esordisce con lei alla regia, si è fatto tra Londra, Croazia e Ungheria e, senza una distribuzione univoca, è circolato nei festival nel 2023 dove è stato comprato da Sky per la Gran Bretagna, da Vertigo per gli USA e da altre piccole compagnie, uscendo quasi dappertutto nel 2024, strappando una nomination ai Golden Globe, ma, privo del necessario battage di favori vari reciproci tra major e mini major, rimanendo fuori dagli Oscar (ancora per ribadire quanto questo premio sia solo un fatto pubblicitario)…

Tutto questo sforzo per uno dei massimi capolavori non solo dell’anno ma del nostro tempo…

Parliamoci subito chiaro: i puristi del budget, quelli che sono andati in brodo di giuggiole per The Brutalist, avranno subito da ridire che il mero risultato concreto delle immagini di Kuras ed Edelman (specie se paragonate ai grandi fasti da loro ottenuti in passato) non è quello ottenibile con i soldi veri…
ma le loro idee di sguardo sfiammano

La protagonista è fotografa e quindi figuriamoci: il campionario di occhi, frame, fuoco, specchi, punti di vista, composizione dell’immagine, giochi di cattura del reale da parte del costruito della macchina, è disorientante da quanto è ispirato e galvanizzante…

La sceneggiatura, limata da Winslet e Kuras in una decina d’anni di riscritture, con seri professionisti capeggiati da Liz Hannah, basata sulla biografia di Lee Miller del di lei figlio Antony Penrose, si è avvalsa della collaborazione di Penrose a ogni livello, dalla consultazione integrale degli archivi all’accesso e al permesso di divulgazione anche del materiale mai pubblicato: nonostante un inizio a dir poco verboso, si erge a sublime testo dell’importanza del documento e della divulgazione in anni di crisi e della atrocità della guerra…

finisce che Lee, oltre che rendicontare una vita fin troppo marginalizzata (solo Civil War, in tempi recenti, aveva riassorbito il messaggio di Lee Miller), è logos del racconto, è riflessione sulla necessità della narrazione (anche della guerra), è emblema dell’interiore emergenza dell’immagine, è monumento del disastro umano, culturale, morale, colossale, epico e cosmico che è stato il nazismo e la Seconda Guerra Mondiale (quella che oggi in tanti vorrebbero rifare per opporsi al male, come se la “vittoria” fosse stata un susseguirsi di rose e fiori)…

Lee non tace nessun punto dei fatti:

  • fa tranquillamente vedere che a violentare furono anche gli americani, in un tempo in cui non si poteva non essere traditori o collaboratori del nemico: e la pietà giusta per l’umiliazione pubblica del collaborazionista (un racconto simile a quello della Santina nella Luna e i falò, senza la tragicizzazione ferina e folklorica di Pavese, ma con occhiate sicure e trancianti di verità, simili a quelle di Lucarelli nell’Inverno più nero) non assolve in nessun modo la violenza del liberatore: in uno scambio di sguardi, Lee affronta di petto il discorso che la pietà per uno non è assoluzione per l’altro, ma è compartecipazione alla tragedia: e questa esattezza, scovata nelle espressioni di Winslet che mimano le foto di Miller, porta via!
  • dimostra quanto l’orrore sia stato completamente indicibile, tanto che anche le immagini rifuggono dal mostrarlo, e solo storie ed eventi sublimati in ricordo abbracciato alla poesia e all’immaginazione possono darne un’idea…
    le foto di Miller illustrano le poesie di Paul Éluard (impossibile non lacrimare a Winslet che rileggere, in francese e inglese, Liberté), le performance di Nusch Éluard (Merlant, con pochissimo girato, si supera nel rimanere impressa), la disperazione di Solange d’Ayen (una straordinaria Marion Cotillard): l’anima della Resistenza culturale francese…
  • sviscera quanto sia stato impossibile rievocare, nella vergogna del dopo, quando i nazisti prendevano posto perfino nei posti di potere della Germania Ovest e degli stessi Stati Uniti, quello che fu, con le foto più tragiche di Dachau e Buchenwald (le prime immagini occidentali, le prime che vedevano lo sterminio, denunciato a parole, l’anno prima, come vero ed effettivo, e non solo favola macabra, dall’Armata Rossa: il film racconta bene anche di quanto, sul fronte occidentale, ancora nel ’44, ci fosse ritrosia a credere a quanto è stato) censurate in Gran Bretagna per molti anni per una voglia di dimenticare l’orrore (vedi anche Babij Jar: solo il processo ad Adolf Eichmann, nel 1961, fece di nuovo piombare chi s’era vergognato nei suoi abissi)…

ma non si può dimenticare:
la cornice, con protagonista un misuratissimo Josh O’Connor, prende forse spunto dagli assunti filosofici dell’Anatomie d’une chute e li ricompatta in pochi shots di meravigliosa sintesi del soggetto:
il documento e la verità sfuggono, portati via dall’orrore e dalla vergogna, ma sono rievocati dal ricordo, dall’immaginazione, dall’evocazione narrativa della storia…
…e anche se scompaiono del tutto in quanto immagini solo sognate dalla nostra mente, o lacerate dalla vergogna, i documenti che ne provano l’esistenza, anche se insufficienti, sono lì, a comprovare quanto è stato, a eternare l’orrore quanto l’eroismo di chi ha testimoniato, a fare da monito a chi si dimentica quanto è stato, in un finale insieme mentale e documentale (tra Ufo 78 e Ainda estou aqui) che ci marchia a fuoco con l’avvertimento di continuare a raccontare la giusta storia contro il nazismo sempiterno; un avvertimento scolpito con le immagini allucinanti di invenzione, sogno e insieme ricordo simili a quelle del finale di Madres Paralelas di Almodóvar

Per capirsi:
Lee avrebbe avuto bisogno di più budget, ma con quello che avevano hanno fatto un capolavorone, che rimane entro le 2h (anche se di soli due minuti) e che gronda di istanze fondanti l’immagine e la Storia in sé e Storia delle immagini, dimostra quanto un film così sia importante per tutti, e stupisce per soluzioni attoriche (Winslet recita veramente in un altro campionato e anche Andy Samberg e Andrea Riseborough picchiano!), scrittorie e fotografiche…

da buttarcisi dentro e non uscire mai più!

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