A Complete Unknown

Eh, vabbé…
se proprio devi fare i film sui musicisti, è bene tu li faccia come Mangold invece che come Larraín e Cooper

Mangold ci fa vedere, per lo meno:

  • Bob Dylan che compone,
  • che registra in studio (seguendo tutta l’aneddotica varia saputa e risaputa ma che è divertente almeno intravedere in un film, invece di silenziarla del tutto come hanno fatto con Maria),
  • che si esibisce,
  • che scrive e riscrive,
  • che ha a che fare con le svolte essenziali della sua parabola creativa (invece la tragedia della morte di Kennedy per Bernstein non s’è vista, e nemmeno la svolta belliniana, dopo Wagner, per Callas)…

Poi, sì, Mangold lo conosciamo, fin troppo

Lo trattano come un fulmine da battaglia perché sa parlare con gli attori, sa (con Papamichael) imbastire un discreto show visivo, sta nel budget e consegna in tempo, ma in quanto a brio, non ce l’ha mai avuto, né 20 anni fa né adesso

Di sicuro sa come si fanno ricerche sui musicisti e sa come rappresentare quelle ricerche…

La sceneggiatura, tra l’altro, è di Jay Cocks, quel super “compagno d’armi” di Scorsese per diverse scorrerie (anche per Last Temptation)…

e Jay Cocks lo sa da dove trarre gli aneddoti di prima qualità, anche perché di film su Bob Dylan è pieno il mondo…

…uno l’ha fatto anche lo stesso Scorsese, No Direction Home, nel 2005, che erano quasi 4h di Dylan che parla, racconta e commenta lo sterminato materiale d’archivio messo insieme da Scorsese e David Tedeschi: si può sentire lì la viva voce di Al Kooper raccontare di essersi presentato come suonatore di Hammond pur di entrare in studio a registrare Like a Rolling Stone, cosa che Mangold, puntualmente, mette in scena…

e un altro film importante, vero correlativo oggettivo per Mangold, è stato I’m not There di Todd Haynes, del 2007: confusissimo, non lineare e impiastricciatissimo sistema anti-narrativo che però è ancora l’unico tentativo, attuato forse nell’unico modo possibile (a parte Kieszlowski e Forman, per altro maestro di Mangold), di parlare di una vita d’artista in termini onnicomprensivi: Haynes frange i diversi aspetti della parabola artistica di Dylan in ben 6 personaggi diversi, interpretati tutti da attori diversi, che si affastellano e sovrappongono mediante 6 diverse sistemazioni visive che giocano con ricordi, sogni e cinema nel cinema incasinando campi di volti e controcampi di specchi sugli stessi volti, flashback dentro flashback, flashback dentro flashforward, citazioni colte cinetiche momentanee (Jean Vigo) e imitazioni stilistiche esatte e prolungate (Otto e mezzo di Fellini per tutto l’arc con Cate Blanchett), con ricreazione certosina di tutti i tic, anche i più minimi e umorali, di Dylan, con Cate Blanchett a fare la parte del leone, chiamata a interpretare il periodo più strong della vita di Dylan, proprio il passaggio all’elettrico che illustra anche Mangold (e davvero paradossale che a girare I’m not There, così inventivo e vario, sia stato lo stesso Ed Lachman che ha girato quel piattume di Maria: è proprio vero che un tecnico, da solo, non può niente quando il regista è un pesce lesso)

In I’m not There c’era solo da perdersi, perché a livello di narrazione era un film impossibile da seguire, con 2h e 15′ di pura immersione, veramente a valanga, di tutto quello che Dylan ha fatto (Haynes e Oren Moverman hanno scritto la sceneggiatura quasi facendo puro copia e incolla delle cose scritte e dette da Dylan, senza alcuna parvenza di narrazione se non subliminale e supposta), che, col sistema da luna park visivo di Haynes, ti investiva in maniera anche più pesante di quanto di tramortivano le 4h di Scorsese…

Dati questi esempi impegnativi, Mangold, quello che 20 anni fa trovò il modo di semplificare per Hollywood la vita di Johnny Cash in Walk the Line, sapendo di non poter gareggiare davvero contro di loro, continua la sua semplificazione, con un film che parla, tra le tante che ha fatto Dylan, di una cosa singola (il passaggio all’elettrico): ma è, almeno, una cosa importante e fondativa, che non viene affrontata male…

Mangold riprende tutte le cose che gli erano venute bene di Walk the Line (la gestione strepitosa del fuoco, i movimenti di macchina continui), a cui aggiunge saporosi zoomoni avanti e indietro a simboleggiare il volo della nuova musica dylaniana, e guida gli attori come fa un professionista…

Chalamet è certamente piatto e monocorde, e non ha un’anticchia del carisma che Cate Blanchett spandeva a profusione anche solo di spalle, però ha cantato e suonato tutto lui (si sa che ha approfittato dello stop alla produzione dovuto ai lockdown di 4-5 anni fa e il suo gorgheggiare risulta almeno credibile, rispetto ai lamenti da mal di pancia che ci ha fatto sentire in Wonka: ok, il confronto con Dylan lo lascia a brandelli, là dove invece, in Walk the Line, Phoenix reggeva meglio l’imitazione di Johnny Cash, ma tutto sommato, dai) ed è capace, almeno, di fare il piacione… sfumature sentimentali sulle due love story? non pervenute… ma qualche “tormentino” dylaniano ce l’ha fatto almeno intravedere…

Non posso dire che Monica Barbaro mi sia granché piaciuta: carina e decisa, ok, ma, tutto sommato, di normale amministrazione…

Elle Fanning la adoro: un po’ rivista nelle espressioni lermoyante da donna tradita, ma ha pianto quando doveva, ha fatto bene la donna carrierata e impegnata, e nelle scene sentimentali c’ha messo quei carichi emotivi di cui Chalamet è sprovvisto: si meritava forse più lei la nomination di Barbaro…

Edward Norton, subentrato in corso d’opera a Benedict Cumberbatch, fa quella parte da padre comprensivo che scalda il cuore a tutti…

ma a parte gli attori, si diceva, Mangold, va di solidissimo e professionalissimo scolasticismo

ok, s’è detto:

  • almeno mostra la routine di un musicista effettivo e non una marmorizzazione parrucconistica,
  • almeno nomina Peter, Paul & Mary (gli artistelli che la Columbia affiancò a Dylan e Seeger per distribuire le loro canzoni in salsa più poltronosa; Larraín, invece, manco si sogna di menzionare Vittorio Gui),
  • non tace, anche se la lascia nello sfondo più fondo, la componente politica (cosa che in Walk the Line aveva un po’ tramortito): la passione utopica di Seeger, tutto pace e gioia anche davanti a una violenza di destra (le morti di Kennedy e Malcom X) che decise di non affrontare davvero o per paura o per incapacità di visione, è espressa tragica, anche se in una sola e singola battuta, e i 13 giorni della Crisi dei Missili di Cuba sono rappresentati con la giusta ansia e con precisione documentale…

però manca, e sempre è mancato in Mangold, lo ripeto, un certo guizzo che lo possa rendere un vero autore: ce la fa, un po’ come Rob Marshall, a farsi assumere per i più disparati progetti, per i quali fa i compiti a casa, sa dove andare a cercare i fatti e i documenti, e magari sa dare alla sua visione un estro non male, ma non è ancora riuscito a ergersi a responsabile riconoscibile come, nelle stesse situazioni, sono riusciti a fare Blake Edwards o Richard Donner

…per cui anche A Complete Unknown lo guardi bene, è tutto esatto, ti aiuta a capire l’artista, ti fa vedere delle belle scenette, con attorini messi bene, con la preziosità del documento fictionizzato ben esibita…
ribadisco: se proprio devi fare i biopic hollywoodiani semplificati di artisti complicati è davvero bene farli come li fa Mangold…
…ma alla fin fine non si può mentire dicendo che Mangold, tutto sommato, non li faccia stra-noiosi e, data la semplificazione, non li faccia didascalici, con quasi zero arricchimento se non quello del passatempo…

Molto gustoso vedere Alan Lomax, geniale etnomusicologo (andate a sentire la musica popolare che è andato a incidere in tutto il mondo!), dipinto come un intransigente doxastico!

e gustose sono le differenze tra A Complete Unknown e l’Elvis di Luhrmann: Mangold sarà anche noioso ma almeno non è ripetitivo, e sarà anche visivamente corretto e scolastichino, ma almeno non fa passare per genialate quelli che sono semplici manierismi baracconi…
anche se i loro film sono noiosi entrambi (‘st’accidente di A Complete Unknown dura 2h e 20′ ingiustificatissime: almeno un paio di leva e metti tra Chalamet e Fanning potevano essere tagliati), quello di Luhrmann pesa sui testicoli molto di più…

avere Joaquin Phoenix a fare Johnny Cash anche in A Complete Unknown sarebbe stato davvero al di là di qualsiasi universo cinefumettistico!
Holbrook è comunque ottimo eh…

in modo tangenziale, parla di Bob Dylan anche Inside Llewyn Davis di Joel Coen, e si dice che, durante il lockdown, Chalamet si sia molto consultato con Joel Coen su come affrontare il personaggio, proprio mentre lo stesso Bob Dylan dava dritte a Mangold e Cocks sullo script e sull’interpretazione attoriale da improntare…

inutile parlare dell’acribia ricostruttiva, fatta solo per mandare in brodo di giuggiole chi si appassiona della paccottiglia: hanno rotto le palle alla Gibson Guitars anche per sapere a che ora erano state costruite le chitarre usate da Dylan (sto esagerando) e hanno passato mesi e mesi negli archivi della Columbia a sentire e risentire i takes delle incisioni e a informarsi su quali microfoni siano stati effettivamente impiegati durante le sessions: e le caratteristiche dei microfoni poi sono state rispettate per catturare l’audio in presa diretta del film così da dargli un sound anni ’60 (roba che ha fatto meritare al comparto del sonoro la nomination agli Oscar)

8 pensieri riguardo “A Complete Unknown

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    1. Spero con tutto il cuore di pensarla così anch’io un giorno: tanti non li ho visti (lo stesso Logan, Ford v Ferrari, Cop Land), ma quelli che ho visto sono manuale più che romanzo…

      1. Beh, Logan è il suo miglior film da Walk the Line, senza dubbio… secondo me quello potrebbe farti un po’ cambiare idea e riconoscere quel po’ di autore in mezzo a una carriera – su questo hai ragione – principalmente da mestierante beneviso agli studios

      2. Spero di vederlo a breve, mi dicono tutti che è bello…
        Io continuo a saltarlo perché di Wolverine non me ne frega niente… sono pervenuto…

  1. Ho visto sia A complete unknown che I’m not here, quest’ultimo però l’ho visto quando è uscito, quasi vent’anni fa ormai, e ne ho un ricordo molto vago: a me comunque sono piaciuti entrambi, ovviamente molto diversi, sarà forse che mi piace Dylan…

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