Here

Tanti anni fa s’è tanto preso in giro i film, riferibili in special modo a Spielberg, che rappresentavano la gente che si affezionava ad attrezzi, robot e circuiti con cui aveva a che fare…
dopo i classici di fantascienza e dopo robetta come Herbie, the Love Bug di Stevenson (’68), di film in cui l’umano si metteva a piangere per un qualcosa di inanimato ce ne sono stati di carini (Short Circuit di Badman, ’86, o *batteries not included di Robbins, ’87), di profondoni (Blade Runner di Scott, ’82), di horror (la cara vecchia Christine di Carpenter, ’83), di lacrimevoli (Bicentennial Man di Columbus e The Iron Giant di Bird, entrambi del ’99)…
il più delle volte ci sono state delle innocue cacchiatelle…
Dopo l’idiozia parossistica di A.I. (appunto di Spielberg, 2001, in Spielberg VI) e dopo le intense e articolare riflessioni di Her di Spike Jonze (2013) ed Ex Machina di Garland (2015), con in mezzo la nascita degli smartphones e dei social network, che hanno di molto ridimensionato la percezione dei devices hardware, certi filmetti sono un po’ spariti, per fortuna…

Ma in circolazione c’è ancora Zemeckis…

Quel grande regista che ne azzecca due ogni dieci (gli ultimi sono stati Allied e Welcome to Marwen), che ha vissuto dei cult più sopravvalutati di sempre (Forrest Gump, ’94, e Death Becomes Her, ’92: rivisti oggi sono il massimo del nonsenso anche rappresentativo: Forrest Gump fu portato avanti soprattutto pubblicizzando una parossistica cura degli effetti speciali come se questi fossero il massimo che Hollywood poteva offrire: sono 30 anni passati che non mi mancano affatto) e che per due decenni lunghissimi ci ha frantumato lo scroto ripetendoci all’infinito, con film ridicoli, che il futuro sarebbe stato di film totalmente in motion capture (un futuro che è perennemente imminente), tanto da sbattersene di qualsiasi verosimiglianza visiva (vedi le prove di fintezza di The Walk e delle orrende Witches), con la sua macchina da presa che si metteva a passare attraverso i muri inquadrando immagini CGI che più fasulle non si può, torna a fare uno di quei film che lui continua a chiamare sperimentali, ma che non si sa cosa effettivamente sperimentino: cosa ci sarebbe da scoprire, misurare o verificare in esperimenti del genere?

Nel 1994, Zemeckis trovava geniale affittare un razzo dal Pentagono solo e soltanto per fare una tempesta in mare: e lo pubblicizzava… si atteggiava a genio per aver fatto quella roba che chiunque avrebbe fatto meglio senza razzo…

30 anni dopo, Zemeckis continua a ritenersi geniale di fare un film in cui pubblicizza di aver mantenuto uno ed un solo punto macchina: un’unica posizione della macchina da presa…

che quell’idea sia stata oltremodo (e fastidiosamente) provata, riprovata e scartata perfino dalla TV (per fortuna sono lontani i tempi di Camera Café, il cui prompt francese è del 2001 e che in Italia si è protratto fino al 2017; e Love Bugs, la cui “origine” canadese era del ’97, e in Italia ha martoriato le palle fino al 2007), a Zemeckis non interessa…
secondo lui la cosa è nuova

e che quella del punto di vista singolo del suo film sia una scemenza promozionale, visto che i tanti split screen rendono il suo sedicente “unico” punto di vista un mosaico di dozzine di sguardi diversi, non preoccupa affatto Zemeckis…
lui è davvero convinto di stare facendo un nuovo cult costituito da un unico punto di vista…

come in Forrest Gump, in Here Zemeckis si vanta della sua stessa genialità dopo aver fatto una ciofecata che piace solo a lui (vedi anche la stessa motion capture, cioè la genialata di ‘sta minchia che ha prodotto solo e soltanto stronzate il più delle volte girate dal solo Zemeckis) e quella genialità la usa per marketing: stesso procedimento di Forrest Gump, una delle sue opere più ingiustificatamente celebrate, che Zemeckis si sente di voler davvero rifare, dopo 30 anni…

e Zemeckis si comporta davvero come si comportò 30 anni fa: sbandiera ai 4 venti l’idea fasulla del punto di vista unico, e la fa passare come nuova, geniale e necessaria; punta moltissimo sulla reunion dei protagonisti di Forrest Gump, Hanks e Wright; e scrive la sceneggiatura con Eric Roth, quello che scrisse, male, Forrest Gump

Per questo bell’esperimento, Zemeckis ricicla il vecchio soggetto della gente che si affeziona e parla con i robot, i circuiti integrati e con i transistor, soggetto perduto da 10 anni, e lo trasforma nel concept che la gente si “affeziona”, invece che al robottino, alla casa, all’antro, alla tana, al sito, alla cuccia, come le bestie…

e in questo soggetto travasa tutti i luoghi comuni del caso, che più triti e ritriti sono meglio è…

  • e la casa non si può vendere perché c’è l’ipoteca;
  • e la casa è scena di gioie e dolori;
  • e la casa che tanto abbiamo odiato perché in essa abbiamo tanto penato con suoceri molesti, ictus, ristrettezze economiche e prevaricazioni psicologiche, è proprio quella che ci fa provare la tanto cara e vecchia nostalgia che tanto piace alla gente (non solo agli anziani, come Zemeckis, ma anche a tantissimi giovani) e che tanto ci fa commuovere quando non si ha nient’altro;
  • e la casa è il posto in cui anche le negatività si stemperano nei ricordi: perché i ricordi edulcorano e appianano tutto;
  • e tornando alla casa avita si lacrima e piange per il tempo passato, che è stato un tempo di merda, ma siccome è passato, allora merita una carezza lodevole perché già il fatto che sia passato ci ricorda che la vita oramai è prossima alla fine e quindi non c’è da provare rancore ma solo tenerezza anche per le cose che ci hanno fatto male, poiché ci hanno comunque reso come siamo… come se essere come si è per colpa dei traumi sia una cosa da celebrare invece che da stigmatizzare con risentimento, con rabbia, o almeno con riflessione, ma solo da accettare pacificamente

molti di questi ridicoli, vieti, stantii e spregevolmente borghesi messaggi (sia mai che Zemeckis parli a quelli che la casa non ce l’hanno avuta o ce l’hanno bombardata) sono veicolati dalla storia di Hanks e Wright, dalla quale si aprono finestrelle assolutamente inutili e assurde su altre vicende, forse simili forse no, sulla formazione dei cari e vecchi Stati Uniti, in un arco di tempo che va dal meteorite dei dinosauri, ai pellerossa, alla Guerra d’Indipendenza, alla Guerra di Secessione…

naturalmente, al centro, Hanks e Wright portano le vicende veramente americane degli anni 1945-2024, quelli della Generazione Jones, quelle dei votanti americani che non vedono l’ora di vedersi rappresentati!

La trama è questa:

In una casa coloniale posta su un sito di pellerossa, dirimpetto a una dimora di quelli che diventeranno ricconi nordisti che si staglia sullo sfondo della sedicente unica inquadratura, si stabiliscono:

  • un appassionato di aviazione a inizio ‘900…
    la moglie odia gli aerei come nuove diavolerie pericolose…
    l’appassionato aviatore finisce per morire di Spagnola forse nel 1918-’20…
  • l’inventore della poltrona La-Z-boy intorno al 1942-’43… una bella storia di caro vecchio self-made man puritana!
  • Paul Bettany con Kelly Reilly nel 1945…
    Bettany è veterano della WW2, scorbutico, autoritario e patriarcale…
    Reilly lo sopporta perché era così a quei tempi…
    i due fanno Hanks e chissà quanti altri figli…
    Hanks si appassiona di pittura e grafica ma mette incinta Wright a soli 18 anni…
    Bettany butta in faccia a Hanks che i fronzoli della pittura devono finire perché c’è da mantenere la figlia appena nata…
    intanto c’è il solito Vietnam e la figlia di Hanks e Wright che diventa avvocata, ma con Bettany e Reilly che invecchiano e si ammalano, e quindi con altre spese da sostenere…
    Wright, che vorrebbe smettere di vivere con le rotture di coglioni dei suoceri, è sempre trattata con sufficienza da Hanks che le ricorda l’ipoteca sulla casa accesa proprio per stare dietro a quei suoceri sempre più decrepiti e rincoglioniti…
    solo quando Reilly è morta e Bettany ha un piede nella fossa, Wright divorzia da Hanks…
    e solo allora Hanks torna a dipingere…
    e, da anziano, appena Bettany muore, vende la casa…
  • la compra una coppia di afroamericani che subisce le angherie della polizia e che vive la pandemia del 2020, così tanto uguale a quella di Spagnola di un secolo prima: oddio che commozione (sarcasmo): una pandemia che li costringe a vendere la casa…
  • mentre la casa è tra un proprietario e l’altro, Hanks porta una 80enne Wright con l’Alzheimer a rievocare i ricordi costruiti in quella casa…
    e invece delle angherie dei suoceri e del marito, cioè la maggior parte che ‘sta cazzo di casa ha prodotto, noi tutti siamo lì a dover piangere con lei dei pochissimi ricordi belli vissuti, che nella nostalgia sopravanzano la vita orrenda che abbiamo patito in questa orrenda tana

Naturalmente, il film è su Hanks e Wright, con Bettany e Reilly a fare da comprimari anziani…
dei pellerossa che lì vissero, dei settecenteschi, degli ottocenteschi, dell’aviatore, della La-Z-boy, dei neri e del COVID, Zemeckis ci fa vedere piccoli spezzoni di pochi secondi nelle finestrine di split screen che si aprono a caso, senza alcun discernimento se non una velata e debole analogia, più supposta che fattuale, con i fatti che riguardano Hanks e Wright…

Cioè, se Wright compra un divano nuovo nel 1972 si apre una finestrina a lato dello schermo per far vedere che nel 2019 qualcuno comprerà anche lui un divano nuovo e che anche nel 1917 ne avevano comprato uno!
e poi, completamente senza agganci, si vedono i dinosauri, i pellerossa e i soldati di Washington e Ulysses Grant così, a comparire nelle ridancianissime finestrelle ai lati dallo schermo senza motivo…

Non vi dico il grado di ridicolezza della situazione…

e le finestrelle che si aprono a caso dànno anche quel dazzling inopportuno che aveva quel pattume di Cloud Atlas delle Wachowski, 2012, in cui c’era Hanks!

ed è un dazzling che non è neanche tra le cose più fastidiose di questo film, che, a parte la sindrome del fenomeno vivente che ha Zemeckis e che gli fa prendere taaaaaaaaaanto seriamente un film macchiettistico come questo, fa sorgere dissenteria per lo spregevole americanismo borghesone che propugna con una dose di propaganda acritica, viscerale e pazzoide veramente insopportabile!

Zemeckis proprio ci crede che lo stare nella casa dei tuoi genitori con l’ipoteca, costretto a fare lavori che non ti piacciono per allevare marmocchi non voluti, sia davvero la vita migliore che si possa vivere!
e i pellerossa ammazzati, le guerre odiose, il razzismo, il misoneismo insopportabile dei bigotti, e le malattie passeggere siano solo episodi, sciocchezze, paturnie che non imbrattano per nulla un affresco del meraviglioso sogno americano, gigantizzato nel piccolissimo punto di vista di Here convintissimo di essere l’universale americano tout court (anche storicamente) esistente nel più minuscolo particolare della vita di un singolo e dello sguardo di un singolo su una singola abitazione…
poiché tutti, nella mente sciovinistica di Hanks, partecipiamo, con le nostre singolari azioni, alla Storia di quella grande nazione che è ed è stata l’America…

sì, c’è il razzismo, il bigottismo e il patriarcato, ma siccome, a parte queste minuzie, ci siamo noi, noi americani laboriosi e popolosi di bambini, idee, ingegni e mestieri, a bearsi dei nostri stessi errori, allora la nostra piccolezza si gigantizza nella grandezza del nostro sentimento reso enorme come un intero paese e un’intera Storia…

si può rimanere davvero seri di fronte a tali assunti?

che Zemeckis ci creda così tanto, e rimanga stolido nel crederci, rende veramente il film una sequela di idiozie americanistiche assolutamente comiche…

che il film sia così autocelebrativo di una civiltà, anche dei suoi aspetti più prevaricanti (Wright che sopporta tutta la vita i suoceri e l’ipoteca, e Hanks che pensa che sia giusto lavorare senza diritto alla felicità), fa sbellicare…

e fa ancora più sbellicare pensare a questo diorama edulcorato da Sindrome di Stoccolma come la cosa a cui tornare per commuoversi di nostalgia quando saremo completamente rincoglioniti dall’Alzheimer!

inoltre, per chi ha a noia l’attaccarsi alle cose dei borghesi, l’affezionarsi alla casa che propugna Here è veramente purulento…

a complicare le cose anche la natura completamente costruita del visivo zemeckiano…

le finestrelle diegetico-temporali si aprono come finestre su desktop di Windows o Mac, o come finestre di photoshop… quasi designando proprio un demiurgo-Zemeckis, gongolante, da solo, al computer mentre monta il film, che si masturba con le sue stesse immagini! (il solito autoerotismo di certa gente, da Spielberg a Eggers a Villeneuve a Chazelle a Cuaron)…
Wright e Hanks si giovinizzano e invecchizzano con le più logore tecniche digitali: non sembrano mai essere qualcuno, ma sembrano essere qualcosa, appunto solo e soltanto un effetto speciale, bambolette semoventi (come i mostri delle motion capture di Zemeckis)…
i dinosauri, i pellerossa, i settecenteschi, gli ottocenteschi, e l’immagine leitmotivica del colibrì (metafora di destino come la piuma di Forrest Gump e che Roth aveva già usato come allegoria della gloria degli USA in Benjamin Button) sono fatti di una CGI traslucida priva di qualsiasi pretesa mimetica di verosimiglianza…

come altri film di Zemeckis, Here è un film di pupazzi che si muovono in ambienti virtuali, ripresi con la vuota grana pulita e disinfettata di Don Burgess che puzza di detersivo…

ma c’è da prenderlo sul serio, perché è convinto, con quel fintume, di esprimere i pilastri della società, che, anche se sono logori, decotti e dannosi, lui è convinto, come tutti i retrogradi mascherati da sperimentali, che siano ancora le uniche cose che contano…

Alla fine, come il romanzo Ragazzo italiano di Gian Arturo Ferrari, non so in che modo schifare di più Here, se dal punto di vista politico per il borghesume, dal punto di vista psicologico per la sindrome di Stoccolma, dal punto di vista etico per il rivoltante nazionalismo, dal punto di vista cinematografico per la più sconfortante fasullaggine plastificata, dal punto di vista di marketing per lo spacciare come nuove cose logore, dal punto di vista sociologico per considerare l’abitazione come l’unica entità possibile di identificazione dell’essere umano gemellata coi soldi e il mestiere da svolgere…

Here è un distillato di qualsiasi cosa vada male al mondo glorificata come fosse la cosa che al mondo fa più bene…

Inascoltabile la musichetta piana e leggiadra del solito Alan Silvestri…

12 pensieri riguardo “Here

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  1. Ma Alan Silvestri è ancora vivo? Pensavo avesse 800 anni! Ho scoperto che è più giovne e plastificato di quanto credessi. Riguardo al film non ne sentirò la mancanza, spero che non lo voteranno per qualche hall of fame (americana)…

      1. …and the winner is… vabe’ se non c’è di meglio vince lui, questo come sempre non vuol dire essere bravo, ma il meglio, in questo momento

  2. oh ultimamente non ti va bene un film 😂

    cmq, per me La morte ti fa bella è un cult e ho ancora le vertigini da quando vidi The Walk al cinema (anche se non mi ricordo molto del film in sé)

    però concordo che ultimamente ‘sto regista non ne sta azzeccando molte

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