In Richard Jewell, nonostante la leggera suggestione della trama, paventavo un Eastwood di maniera, alla Woody Allen, tanto da non andare a vedere Cry Macho (2021)…
Juror #2 non parte bene: come in Richard Jewell vi ho osservato, sulle prime, un découpage classico normalino e narrativino, come tanti… e Nicholas Hoult aveva la faccia pulitina dei bimbi bravi repubblicani dell’Eastwood post-2004 (dopo Mystic River, Eastwood ha cominciato a declinare nella mia classifica personale di interesse)…
Poi, però, la statua della bilancia tremolante della giustizia connette Juror #2 col capolavoro misconosciuto di Eastwood che fu Midnight in the Garden of Good and Evil (’97), che inizia proprio con una statua della giustizia nella stessa Georgia di Juror #2…
e su cosa intendere per giustizia, in Juror #2 Eastwood butta tutto quello che sa, come uno studente bravo che conosce l’argomento del tema assegnato…
e sulla giustizia Eastwood non sa poco…
per tutta la vita ci ha speculato, ci ha pensato, ci ha riflettuto…
spesso, certo, arrivando a conclusioni ai limiti del fascismo, o ai limiti di Dostoevskij nel Delitto e Castigo, quelle conclusioni per cui la presunta superiorità di un individuo lo fa blaterare di poter decidere egli stesso cosa è possibile e cosa no, con tanto di completa sfiducia verso quella costruzione culturale che è la giustizia (discuto l’assenza di giustizia nel fascismo sia nelle Benevole sia nel Continente bianco)…
a partire da Josie Wales (1976) e poi lungo tutti gli anni ’80 e ’90, non poche sono state le volte che Eastwood ha paventato ma insieme anche un po’ “idolatrato” il giustiziere pazzoide che in completa follia scrive e riscrive le sue regole senza senso accaparrandosi con la violenza il diritto di vita e di morte su chi gli sta intorno, in sommo spregio della giustizia come qualcosa di superiore: Pale Rider (dell”85), è l’esempio più idolatrante, ma poi White Hunter Black Heart (’90), Unforgiven (’92), A perfect world (’93, nei 10 personaggi) e Absolute power (’97), rimescolano il paiolo arrivando davvero alla paura di un essere simile a quello raccontato nel Pale Rider, mostrando un vero logos filosofeggiante su cosa voglia dire essere giusti, retti e moralmente adatti…
e poi c’è, appunto, Midnight in the Garden of Good and Evil, che quelle tematiche le aveva ricomposte arrivando alla tragedia di una particolare metafisica relativistica che non ammetteva una divinità di per sé del concetto di giustizia, ma di sicuro la riteneva un qualcosa quasi di non umano, sfiorante il sovrannaturale…
si avvita a tutto questo, come un ingranaggio gemello, la tematica del senso di colpa, come se giustizia e colpa, per Eastwood, fossero quasi la stessa cosa…
Mystic River (’03), Million Dollar Baby (’04), Gran Torino (’08), Sully (’16), The Mule (’18) sono tutti, bene o male, film sul senso di colpa che affligge una persona che insieme teme e anela la giustizia, una giustizia che, se arrivasse, vorrebbe dire la conferma della colpa che già si porta sul groppone, quasi suggerendo che, cattolicamente, il fardello delle colpe è già una pena che una certa giustizia ha già inflitto al colpevole…
anche in questo, la moraletta fascista fa capolino, e lo si può vedere anche in un piccolo passaggio della Rosa di Bagdad (’49) del conclamato mussoliniano Anton Gino Domeneghini: quando la gazza ladra ruba le viene detto che per i ladri c’è la prigione e quindi tutte le volte che ruba è lei stessa, pentita, ad avviarsi alla prigione, senza processi né avvocati né niente: una giustizia autogestita e tutta concentrata nell’individuo che insieme pecca e insieme si corregge, senza nessuna superiorità di concetto…
Eastwood è rimasto un po’ così, per certi versi, ma per altri, nei film migliori, le cose sono per fortuna più complesse, più sfumate, senza certezze, all’apparenza semplici ma dense di implicazioni atroci che nessun individuo singolo riescirebbe a sbrogliarle facilmente e automaticamente… in quei frangenti, Eastwood va molto al di là della moralettina automatica catto-fascistella…
Infatti, dopo l’inizio si diceva comodino, nel prosieguo di Juror #2, la sceneggiatura di Jonathan Abrams si affina, diventando una delle più interessanti del cinema hollywoodiano odierno, e Eastwood, con l’ormai fido Bélanger (solo 4 i cinematographer che hanno davvero avuto a che fare con Eastwood in 55 anni: Bruce Surtees, al lavoro con lui dal 1971 al 1985; Jack N. Green, raccomandato da Surtees, “occhio” dal 1986 al 2001; Tom Stern, ex impiegato di Green, dal 2002 al 2018; e Yves Bélanger, dal 2018 a oggi), pur mantenendo una asettica esattezza, perfino anodina e troppo perfetta, quasi da serie TV, si inventa ottimi modi per rendere la tentazione della dipendenza da alcool con tocchi semplici ma efficaci, ed è capace di gestire la tensione… non più come un tempo, e non più con la cupezza di una volta (è lontano il senso oscuro di tragedia di Mystic River), ma l’efficacia c’è tutta (anche grazie a un gustosissimo uso della musica di Mark Mancina)…
ed è davvero ammirevole vedere l’Eastwood semplicione ai limiti del catto-fascismo centrare, a 95 anni suonati, un altro film senza semplicità, che nega perfino la sicurezza di un finale, e fa davvero una critica al piano fluire della moraletta del senso di colpa automatico del colpevole che non abbisogna di apparato, in una conclusione che viene lasciata alla coscienza dello spettatore, che rimane lì stimolato a riflettere, senza nessuna consequenzialità sillogistica e deterministica a consolarlo o a guidarlo… è solo lui che deve decidere cosa pensare, senza automatismi, e con la sconcertante metafisica relativista che c’era in Midnight of Good and Evil…
fantastico
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Non so perché delle tante figlie d’arte in circolazione oggi (tra cui anche la stessa Dakota Johnson), mi sono trovato a provare lievi sentimenti da fan (oltre che per Blake Lively, che meriterebbe discorso a parte, per la povera Clara Delevingne, e per Margaret Qualley), per la figlia di Lea Thompson e Howard Deutch, come in passato li ho provati per Carrie Fisher e Amber Tamblyn…
Nonostante i tantissimi ruoli già fatti, anche da child actor (è attiva dal 2009), alcuni gratificati da vero successo, questo di Juror #2 è il primo vero filmone importante che fa, e si è comportata stupendamente!
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Moltissime le somiglianze, specie nella parte centrale, con la famosa pièce televisiva di Reginald Rose 12 Angry Men già presentata in molte salse (nel primigenio film TV di Franklin J. Schaffner del ’54, nel film di Sidney Lumet del ’57, nel lavoro televisivo di Bill Friedkin del ’97, nel film di Nikita Michalkov del 2007, oltre che in innumerevoli adattamenti teatrali e perfino in moltissimi film indiani, cinesi, spagnoli, tedeschi e perfino in radiodrammi), che però è priva delle tematiche del senso di colpa…
Avrei voluto tanto vederlo, ma lo hanno tolto dalle sale a una velocità veramente impressionante. In ogni caso ho davvero apprezzato la tua analisi e aspetterò che esca in home video per vederlo.
Gran peccato! A Firenze è durato abbastanza (ma la paura che fosse la solita sbobba mi ha inibito) e adesso ha una buona vita nelle salette di seconda visione anche in lingua originale (dove l’ho acchiappato spinto da un positivo passaparola): siamo stati fortunati!