Megalopolis

Non so se vale davvero la pena di fare il pistolotto su Coppola, dato che non solo se n’è parlato un po’ in One from the Heart, ma anche perché chiunque si sia approcciato al cinema in una misura leggermente maggiore della semplice fruizione da topo di streaming (quello che 25 anni fa era lo squinternato topo di videoteca, cioè l’espertone del “cinema” del direct-to-video che mai aveva visto una sala), in Coppola si è imbattuto per forza…

perché con il trionfo del Godfather nel 1972 (preso anche in giro da Truffaut in una battuta della Nuit américaine), Coppola ha tenuto la vetusta Vecchia Hollywood per le palle e ha plasmato, a livello di mercato, quasi completamente quella Nuova Hollywood degli Scorsese e degli Spielberg, imponendo i film di George Lucas, John Milius e Peter Bogdanovich alla martoriata industria del lustro 1972-1977, dopo che la stagione del Sessantotto e del post-Sessantotto (la stagione dei Nichols, dei Polanski, degli Hopper, degli Ashby, dei Penn, degli Schlesinger, dei Peckinpah ecc. ecc.) aveva fatto tanto di creativo, tanto di culturale, ma non così tanto a livello di denaro sonante (a parte le dovute eccezioni, vedi The Graduate di Nichols o anche In the Heat of the Night di Jewison [brevi cenni in If…., Godspell e Spielberg I])…
…e queste sono storie che chiunque abbia masticato un manuale di storia del cinema conosce a menadito…

quello che forse è bene ribadire per avvicinarci alle impressioni su Megalopolis è che Coppola, oltre che megalomane (tratto dovuto appunto al suo aver avuto «il mondo hollywoodiano in mano» per un lustro), è stato utopista da sempre…

spieghiamoci:

La potenza commerciale del Godfather fu la prima tessera di un domino che, cadendo cadendo, è poi arrivato a decretare lo strapotere di Guerre stellari e di George Lucas, cioè ha decretato la rinascita completa dell’industria, cosa che, per gli stessi Coppola e Lucas, è stata un disastro…
perché Coppola e Lucas erano, e sono rimasti negli anni, convinti che quelli che facevano fossero film artistici e non business fatto per vendere giocattoli come invece ben presto sono stati recepiti e sfruttati…

La loro era appunto un’utopia, l’utopia di un cinema che fosse, sì, narrativo e anche infantile, ma non industriale

e difatti hanno posizionato la loro base produttiva a San Francisco e non a Los Angeles, e hanno propugnato l’idea che prodotti artistici fossero anche filmetti iper-narrativi e mainstream
cioè, spianavano mari e monti non per fare Arte né Sacralità, ma per fare Guerre stellari, One from the Heart o addirittura Howard the Duck, cioè filmetti classici e facili (a dire la verità, Coppola ha avuto anche le voglie intellettuali e intellettualoidi di Apocalypse Now): ma non li volevano fare come prodotti merceologici!

e di qui, per tutta la vita, Coppola e Lucas hanno creato utopie, cioè luoghi “immaginari” in cui gli artisti (magari anche sull’onda del ricordo della prima United Artists di Chaplin, Fairbanks, Pickford e Griffith, quella del 1919) potessero incontrarsi, fare squadra, produrre da soli, senza quel cacchio di intermediario bancario che era la major, la distribuzione…

Lucas aveva la Lucasfilm, che ha svezzato gente da Ron Howard a Jim Henson (che, per altro, aveva già il suo Creature Shop)…
Coppola ha creato la Directors Company, con Bogdanovich e William Friedkin, che però è campata due anni (dal ’72 al ’74) e ha prodotto solo tre film (The Conversation di Coppola e Paper Moon e Daisy Miller di Bogdanovich), ma poi ha costruito la American Zoetrope, che ha dato linfa non solo a Coppola e alla sua famiglia (i figli Sofia e Roman, la nipote Gia e la moglie Eleanor), ma anche a Lucas, Milius, Hans-Jürgen Syberberg, Akira Kurosawa, Jean-Luc Godard, Godfrey Reggio e tanti altri…

In questi luoghi, Coppola e Lucas hanno prodotto la loro roba in maniera sempre più leonardesca, con i film che non erano mai finiti, ma si aggiornavano continuamente a seconda dell’avanzare della tecnologia… una tecnologia che loro sentivano e interpretavano sempre come liberatrice e mai come merceologica…

come Herbert von Karajan, che riregistrava pezzi già incisi mille volte appena veniva a conoscenza di un nuovo sistema di fissaggio sonoro;
o come appunto Leonardo che interveniva con pennellate varie ed eventuali su quadri già finiti da un pezzo; o come semplici restauratori che ritoccano e riaggiornano i classici;
o come i registi del teatro d’opera, che riinterpretano mostri sacri del passato…
…come questa gente, Coppola e Lucas hanno riplasmato i loro film ogni qual volta veniva fuori un balocco tecnico diverso… [è un “rifare” molto diverso, quindi, da quello dell’indecisione tassiana di Ridley Scott, per esempio, che non è anagraficamente lontano da Coppola: Scott è circa 17 mesi più vecchio di Coppola]

e un balocco bello grosso è stato il digitale

tra 1997 e 2015, nel lento passaggio che si è rivelato definitivo dalla pellicola al digitale, Coppola ha restaurato e quasi completamente rimontato Apocalypse Now (’79, di cui esistono almeno 6 versioni), Cotton Club (che era dell”84), One from the Heart (che era dell”81) e ha rimaneggiato anche Twixt (che era del 2012), proprio mentre Lucas inondava di una pletora di enhanced e di special editions ogni singolo fotogramma dei tre film di Guerre stellari

e col digitale non si beavano soltanto col restauro e il rimontaggio, ma producevano roba nuova (tutti i film di Coppola successivi al 2007 sono in digitale; e non parliamo della seconda trilogia di Guerre stellari del 1999-2005), convintissimi che il digitale *davvero* e *finalmente* avrebbe spazzato via la zavorra del distributore hollywoodiano…
Lucas e Coppola, tra il 1997 e il 2002, andavano in giro a dire di una diffusione del film completamente dal produttore al consumatore, con gli esercenti delle sale cinematografiche che ricevevano via satellite o via wi-fi il film direttamente dalle loro mani, senza intermediari, senza banche: solo privati cittadini che fruivano dell’arte che cadeva dal cielo, dai pixel del linguaggio binario, in una trasmissione incontaminata e continua dal creatore dell’arte al godente dell’arte
secondo loro sarebbe stata la liberazione totale del cinema

gli stessi discorsi, un decennio dopo, li hanno fatti anche alcuni gruppi musicali indipendenti quando c’è stato l’avvento di Spotify, secondo loro piattaforma libera di far ascoltare a tutti roba che nessuna major distribuiva…

bei sogni

Megalopolis, a parte i prodromi nella fucina della Zoetrope negli anni ’70 e a parte la sua crasi con la voglia di fare un film sulla Congiura di Catilina negli anni ’80 (tutti spunti aleggianti, come traccia, in alcune tessere coppoliane: ricordiamo che c’è un personaggio che si chiama Cicero, cioè Vera Cicero, già in Cotton Club nell”84; e che Tucker, del 1988, ha una trama, mutatis mutandis, pressoché identica allo zoccolo duro dell’odierno Megalopolis), nasce in questo clima: il clima dell’alba del 2000, l’alba del digitale

io ricordo le interviste di allora, in cui un Coppola sì zavorrato dal successo commerciale e culturale del Dracula del ’92, ma un po’ annoiato dai vari Jack (’96) e Rainmaker (’97), fatti solo per un denaro che manco arrivava, andava in giro emozionato ed estasiato di avere Megalopolis quasi già pronto, ed era in brodo di giuggiole perché grazie al neonato digitale non doveva stoccarlo in una pesante pellicola da conservare e sviluppare, ma in un agile harddisk…
si venne a sapere ben presto che nell’harddisk c’erano solo e soltanto ore e ore di girato aereo, appunto digitale, di città e di periferie di città… e si venne anche a sapere che l’harddisk si era rotto, rendendo inutilizzabile tutto quanto!

quel Megalopolis (che Coppola avrebbe voluto girare a Cinecittà per rispettare la tradizione dei sandaloni hollywoodiani anni ’50, del tutto “antichi romani” in salsa finta da industria [esce dopo, ma si sentiva nell’aria il Gladiator di Ridley Scott], e che tra ’98 e ’99 pubblicizzava dicendo che avrebbe cambiato il cinema come Le Sacre du Printemps di Stravinskij aveva cambiato la musica [tanto per controprovare i deliri di onnipotenza di Coppola sempiterni]) è morto, oltre che con la botta di realtà della fragilità dei supporti, soprattutto con la caduta delle Twin Towers nel 2001, quando qualsiasi sogno di utopia (e soprattutto utopia newyorkese) sembrava infranto…

da allora Coppola ha ripiegato con tre film completamente autoprodotti, girati in Romania (Youth without Youth, Tetro e Twixt), presentati anche loro come Arte pura, lontani dalla logica americana, pieni di riprese fisse e non dei movimenti di macchina che, diceva Coppola, gli studios gli imponevano…

Oggi, con l’eterno scontro tra progressismo e barbarie, tra conservatorismo e apertura, col pericolo Trump e con il collasso del sistema capitalistico producente un nord del mondo ricco solo perché un sud del mondo muore di fame per arricchirlo (un sud del mondo che, per difesa, si trincera di nuovo, dopo gli anni ’70 e ’80, nei peggiori dittatori populisti), Megalopolis torna in auge, con le tematiche della Congiura di Catilina al centro della scena!

Non sono in grado di parlare a modo della Congiura di Catilina, ma non è un mistero che, nonostante i suoi propugnatori fossero tutti ampiamente benestanti se non addirittura patrizi, l’animo della congiura, completamente contro l’establishment ottimate senatoriale e a favore del popolo più debole, è stato interpretato come utopistico, in senso popolare se non addirittura “libertario-comunistico”, da pressoché tutti i commentatori del Novecento… o, almeno, così io evinco dalla corposa esegesi che di quei commentatori fa Luciano Canfora in Catilina. Una rivoluzione mancata (Laterza, 2023) e in tutti i video su YouTube in cui parla dell’argomento…

Questo soggetto, nell’utopista Coppola, porta a un film, il Megalopolis odierno, che cerca in tutti i modi di essere positivo e sognante

…e che per certi versi ci riesce!

Come tutti gli utopisti che si rispettino, Coppola fa coincidere il sogno della liberazione con il cinema, con l’immaginazione e il sol dell’avvenire socialista, con toni che riescono a non essere troppo retorici né troppo stupidi ma ben ancorati alla tradizione appunto «socialistica», nata dopo il 1789, cavalcata dall’humus del Manifesto del Partito Comunista (1848) e cementata soprattutto dopo la Comune di Parigi del 1871 (vedi anche Miss Marx), di unione tra il concetto politico della libertà con l’entità filosofica dello Streben romantico, secondo cui l’avvenire coincide con il tendere a quell’avvenire, il futuro coincide con il tendere al futuro già in essere nel presente…

Coppola non fa un lavoro molto diverso da altri analoghi capolavori di Victor Hugo, naturalmente Quatrevingt-treize ma anche Les Misérables, nell’identificare il solo sognare come reale (la vecchia beffa dello scontro tra razionale e reale di Hegel), la sola lotta con il raggiungimento della vittoria (anche se poi questa è mancata), il solo provarci come istanza di esistenza del possibile…

Come il lottare per la libertà e non il mero raggiungimento della libertà, sentita come concetto idealmente (ed eternamente ispirante) irraggiungibile, è il paradiso del morente Jean Valjean nei Misérables, così per Coppola è la semplice fantasia della libertà, la semplice illusione, il semplice progetto della libertà a costituire la libertà stessa, essendo la libertà una roba che, nelle foschie dell’entropia, non si può raggiungere…

Il Catilina di Coppola, semplicemente sognando la sua città ideale di liberazione completa, rende quella liberazione completa vera, anche se solo nella sua testa e in quella di chi decide di crederci, perché anche il sognato fa parte del vero, anche il pensato fa parte del reale (chissà se Coppola era al corrente delle tesi simili esposte da Italo Calvino sia nel Conte di Montecristo di Ti con Zero, ’67, sia nel classico Barone rampante, ’57, dove Viola propone a Cosimo un eguale tendere di immaginato coincidente con la realtà: un tendere che Cosimo però non riesce tragicamente a cogliere)…
…e in quel sogno, la marcescenza immanente dell’entropia si annulla, poiché, con simbolo stranamente efficace, Catilina realizza l’utopia fermando il tempo…

Con questi sistemi, Coppola appaga tutta la sua voglia di socialismo, usando le armi del sogno e dell’immaginario invece di quelle del possibile e del realismo, che altri grandi politicanti hollywoodiani hanno tentato (vedi Warren Beatty in Reds, ’81, e Bulworth, ’98: Beatty è nato quasi esattamente due anni prima di Coppola)…

e il suo non è un brutto “socialismo”, perché ribadisce davvero una effettiva essenza della storia contemporanea, cioè quella del pensare che vale quanto il fare in politica e in sociologia…
Coppola rende plasticamente evidente come sia stato possibile che la sola presenza dell’Unione Sovietica, col suo portato di idee (certamente irrealizzate e irrealizzabili, e sicuramente tradite nella pratica quotidiana, ma concentrate tutte insieme in un’entità visibile e concreta come uno stato che esisteva davvero!) fosse di per sé sufficiente a far riflettere, per catarsi allopatica, tutte le mancanze dell’Occidente in fatto di razzismo, di welfare e di egualitarismo (vedi anche White Nights)… la città del suo Catilina non è perfetta, né realizzabile (anche perché, il più delle volte, la vediamo solo nei sogni suoi e della sua seconda moglie!), ma la sua sola esistenza in potenza, in possibile, smaschera tutti i disastri della gestione della New Rome di Cicero…

e, ovviamente, tutta ‘sta storia produce metacinema, essendo il cinema il sistema catartico di risoluzione tra sogno e realtà per eccellenza (il Megalon che ferma il tempo apposta per realizzare i sogni è ovviamente il cinema, non è il caso di ribadirlo)

Con questi ingredienti di ucronia e fantasiosa fantascienza neo-romana, con la Congiura di Catilina citata e argomentata quasi pienamente, con tutti quanti i protagonisti desumibili dai vari Cicerone, Sallustio e Svetonio (e con tanto di citazioni verbatim delle Catilinarie di Cicerone, che col cacchio ho riconosciuto io ma me le ha fatte notare la prof di latino e greco che ha visto il film con me; da non sottovalutare anche l’influenza dell’elaborazione fiction di Brecht, Die Geschäfte des Herrn Julius Cäsar, uscito postumo nel 1956), e con sprezzo del pericolo di qualsiasi ridicolo involontario che sopraggiunge nel sentir parlare di Antica Roma gente vestita fetish come un cosplay di un film erotico parodia di Ben Hur che in alcuni sprazzi somiglia perfino al Caligola di Tinto Brass [e i costumi sono splendidi eh, badiamo bene: di Milena Canonero, alla quarta collaborazione con Coppola!], Coppola giunge a un testo di liberazione carino e per certi versi fascinoso, che ha qualche argomento in comune con Zabriskie Point (di Antonioni, 1970) e, soprattutto, con i capolavori di Alan Moore, Watchmen (’86-’87) e V for Vendetta (’82-’85: è in Libri e librini), soprattutto per quel che riguarda la ricerca di un sogno capace di tenere insieme una massa umana arzigogolata e irrazionale che è sempre sull’orlo del burrone dell’autodistruzione (del nazismo e dello sterminio razzista)…

un testo che appunto come i capolavori di Moore, e come altri pet projects di tanti registi (vedi il Don Chisciotte di Gilliam), ha tutte le caratteristiche di una roba ricompattata in fretta, con evidenti tutte le vestigia e i cascami di gangli che si erano abbozzati 30 anni prima e che si sono lasciati nel calderone solo per nostalgia, per voglia di grandeur, per non tralasciare questa o quella citazione di lusso, delle tantissime coinvolte: Cinefacts ha giustamente parlato di Megalopolis come di un sussidiario da consultare più che da vedere, e la cosa ha i suoi pro e i suoi contro, perché anche se è sempre bello sentire Shakespeare (e Driver fa tutto e dico tutto il monologo di Hamlet del To be or not to be) o Marco Aurelio verbatim, il gusto del citato scade spesso nell’esibizione del «lo so solo io» di Concita De Gregorio o di Gianrico Carofiglio
e molti meandri della trama rimangono davvero lì come rovine di un passato che non si conosce più, roba che si evince essere stata scritta chissà quanto, nel 1979 o nel 1989 o nel 1999, ma che nel film che vediamo oggi sfugge: non solo i personaggi di Dustin Hoffman e Laurence Fishburne (quest’ultimo non esente, però, almeno, da un certo magnetismo stiloso, e forse figura che si riferisce, magari, a Sallustio) ma anche tutto il centro del film con la Corsa delle Bighe di Ben Hur e la sottotrama di Vesta non ha davvero alcuna connessione con tutto il resto [evidentemente, l’unico pet project che non ha sofferto di crisi della riscrittura è stato il Mad Max: Fury Road di George Miller]

tali cascami producono, è vero, un po’ un marasma che per la maggior parte delle volte lascia il tempo che trova e che non si salva da diverse risacche di noia… ma questa è caratteristica che avevano anche altri lavori di Coppola… per esempio, in Megalopolis, tutto il blocco narrativo di Shia LaBeouf e Aubrey Plaza (Clodio e Wow), che servono solo come satelliti ancillari, ricalca la medesima funzione di riempitivo che avevano Nicolas Cage e Gregory Hines in Cotton Club… quella del meandro un po’ inutile di rinforzo è quindi un vizio connaturato a Coppola…

ma nel caos generale (e non entro nei dettagli della complicata lavorazione, che ha visto anche l’abbandono in corso d’opera di tutta una squadra di scenografi che si è licenziata perché Coppola non garantiva le adeguate indennità sindacali) la storia d’amore, agita da una coinvolgentissima Nathalie Emmanuel (che Coppola tira fuori dalla melma dei suoi esordi seriali e che rende bellissimissima quasi come aveva reso stupenda Diane Lane [mai più così sfolgorante come nei tre film con Coppola]) e dal suo personaggio intelligente e intraprendente, è fantasticamente spacca-cuore, e da sola varrebbe la visione del film…
I due innamorati, uniti insieme e forza l’uno dell’altro, producono in sinergia la magia dell’utopia e del cinema amandosi e supportandosi (quasi come Colwyn e Lyssa nel classico Krull di Yates, ’83): una figata!

e vale la candela anche la tematica del senso di colpa, che in Coppola è assolutamente autobiografico, per via della perdita del figlio Giancarlo (morto in una gita al mare che il padre gli aveva concesso pur avendo dubbi sulla sicurezza delle imbarcazioni): come Twixt rifletteva che qualsiasi utopia (in quel caso letteraria) deve fare i conti con le colpe vere o presunte della mente che l’ha ideata (e Twixt inscenava proprio l’incidente di Giancarlo), Megalopolis afferma che le fondamenta del benessere del futuro poggiano sui dolori, sugli errori, che sublimando creando futuro: il pianto è l’innesco della risata e la sofferenza è grado di riflessione per reagire per il meglio (la morte della moglie di Catilina è specchio, ancora una volta, della morte di Giancarlo)…
…non male!

un film, quindi, che non rimane antipatico, tutto sommato, perché nel caleidoscopio inutile riesce a sistemare alcuni colpi giusti, e la cui morale positiva e sognante, di digestione dei sensi di colpa personale e universale in un’utopia dello Streben verso le liberazione di chiunque voglia essere partecipe al tendere verso una irraggiungibile ma per questo possibile e ispirante felicità, con un cuore di pensiero sociale del tutto sognoso, è una morale in cui è bello perdersi [e somiglia assai all’eguale utopia sognata nei titoli finali Down to Earth dello Wall-E della Pixar]…
…anche se non ci si crede!

ed è un film che non rimane antipatico perché Coppola, anche nello strazio del low budget o nello sfacelo del development hell, porta sempre a casa un risultato degno…
nonostante il suo tanto ciarlare, tra 2007 e 2009, dei produttori cattivi che gli imponevano macchine da presa mobili a lui che avrebbe amato tanto la macchina fissa (tutte minchiate che si è raccontato per autoingannarsi), Megalopolis (la sua quarta collaborazione di fila con Mihai Malaimare Jr., trovato proprio in Romania nei suoi film a basso budget del 2007-2009 e con cui si baloccava di finte macchine fisse) è un tripudio di cambi di fuoco e di cambi emotivi della luce cromata (quasi quanto One from the Heart!) oltre che di inventiva dell’immagine, di creazione del taglio luminoso, e di commistione tra split screen (con evidenti suture della divisione dello schermo, quasi a riecheggiare la tela tripartita di un Cinerama, il formato prediletto dei sandaloni anni ’50 proprio “antichi romani” de noantri) e transizione digitale (e non si sa quanto del merito vada dato al figlio Roman, assistente di Coppola almeno da quanto è maggiorenne: è nato nel ’65): un godurioso lavoro di cinema art pour l’art spesso del tutto inutile, come i meandri di trama che rappresenta, ma alcune volte (proprio nelle scene della storia d’amore, o in quelle che illuminano il senso di colpa con citazioni dirette da classici di Lang, Griffith o Jean Vigo) fonte di vera libidine!

Tra gli attori, oltre ad aver stravisto per Emmanuel, non posso che apprezzare, nonostante tutto, gli sforzi di LaBeouf, Plaza (che mostra anche un po’ di epidermide) e Jon Voight…
un pochino più manierati Esposito e Fishburne…
Remar, Schwartzman (nipote di Coppola) e Hoffman si vedono sì e no quattro secondi…
molto enigmatica Talia Shire (che ricordo essere la sorella di Coppola e mamma di Schwartzman), in un ruolo (la madre hitchcokiana di Catilina) che, come Hoffman, è rimasto un po’ nell’abbozzo delle trentennali riscritture…

sospendo il giudizio su Adam Driver…
c’è chi lo ama…
io devo ancora capirlo…

Menzione speciale per la musica di Osvaldo Golijov, come Malaimare Jr. con Coppola fin dai film rumeni post-2007: un tripudio di calchi dal preludio del Boris Godunov di Musorgskij e da Miklos Rosza (o dell’archetipo Respighi, chissà) per le opportune atmosfere sandalone, con l’immancabile cenno all’Allegretto della Settima di Beethoven che, dallo Zardoz di Boorman in poi (’74), è quasi un must per chi vuole esprimere lo scorrere del tempo al cinema!

3 pensieri riguardo “Megalopolis

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  1. Che articolo impressionante. Oltre che a parlare del film, sei riuscito a parlare molto bene della storia di Coppola, della Nuova Hollywood e soprattutto della sua idea di cinema che però negli anni ’80 è andata del tutto distrutta. Inoltre apprezzo le idee sul socialismo, sul pensare, sul tentare e anche il pensiero utopistico di Coppola e non posso fare a meno che tifare per lui e per il suo Megalopolis. Purtroppo non l’ho ancora visto, ma a breve mi fionderò al cinema per vederlo. Parliamo di Coppola e di un progetto che porta avanti da anni e solo per questo merita di essere visto.

  2. I tuoi non sono articoli, ma trattati sulla storia del cinema che tutti dovrebbero conoscere.
    Ti ringrazio perché leggerti è sempre illuminante.
    Jon Voight sì e sono contenta per il mio Leo Drummond.
    Adam Driver per me potrebbe essere non amore ma comprensione, per ora.
    La tematica dei sensi di colpa è forse quella che intercetto più nell’immediato … pantani in cui io rimesto perennemente, ma la morale positiva e sognante è ciò di cui io credo di aver bisogno, forse tutti, non lo so.

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