Sibyl era una cacchiatellina, ma questo è forte, e non ha per niente immeritato la sua Palma d’Oro a Cannes…
Justine Triet, meglio di Scorsese, e un po’ ispirandosi “di sbieco” a Midnight in the Garden of Good and Evil di Eastwood (1997), riesce a reggere alla grande due ore e mezzo di filmone densissimo e dalle tematiche grosse, come forse nessuna Rohrwacher riuscirà mai…
I minuti, pur tanti, scorrono lesti, veloci, con un carico continuo di tensione che fa a pezzetti qualsiasi incertezza e qualunque tempo morto, grazie a una sceneggiatura mirabilissima (scritta col marito Arthur Harari, candidata ai Golden Globes e spero che vada automaticamente anche tra gli Oscar), e a un uso del cinema smagliante di istanze teoriche che si sposano a mille con le esigenze diegetiche…
In un 1,85:1 grosso come una casa e panoramicissimo (la fotografia è ancora, dopo Sibyl, di Simon Beaufils) si impastano grane cromatiche e “pellicolari” cangianti – che fanno assomigliare lo shot ogni tanto a un fotografico quadro a olio (vedi quelli iperreali di Gerhard Richter) e altre volte a una foto domestica amatoriale [un modo che riesce a reggere sia nel Kammerspiel dell’ambientazione chiusa del tribunale sia nel paesaggismo delle montagne, che fa impallidire il risicato 1,33:1, tanto idolatrato, di Otto montagne] -, e si gestisce il frame come in Mug, tenendo a fuoco quasi sempre solo il centro dell’immagine lasciando i contorni e le cornici allo sfocato, così che l’inquadratura sembra quasi una pittura certe volte (ancora Richter), “sporcata” agli estremi: questo dà al significato del frame una qualità ambigua, sfuggente ed effimera: ogni cosa è incerta e interpretabile, come si comunica nelle battute della sceneggiatura e come si esprime nella stringenza serratissima della diegesi dai contorni mystery…
Il classico genere processuale viene usato da Trier (come lo aveva usato Eastwood) come pretesto per indagare i rapporti interpersonali tra i “solari” e i “cupi”, tra chi è più bravo ad adattarsi e chi si chiude nei fallimenti, tra chi imbriglia quello che capita e chi cerca di “fuggire” dai problemi impantanandosi in altri, tra chi, vitalisticamente, reagisce e chi, depressivamente, si fa ingoiare dal senso di colpa…
una anatomia che, dal caso specifico del mystery si ingigantisce all’universale della conduzione dell’esistenza tout court, tra chi fluisce bene nel contemporaneo e chi non riesce…
e in più si distilla tutto questo nella eterna esigenza di trascendere quel che si è in creazione, in scrittura, in immaginazione e, infine, in formula sì autoingannante ma necessaria per andare avanti: il film osserva l’importanza di aggrapparsi a supposizioni, a storie e narrazioni, anche “private”, magari di sicuro finte, ma senza dubbio dirimenti e indispensabili per riuscire a condurre in porto la vita…
la vittima è qualcuno che non riusciva a scrivere e narrare la propria vita e quindi soccombe alla crudele esistenza inconcludente del divenire sempre deludente, mentre la protagonista, scrittrice di professione, riusciva a stare proprio grazie alla creazione di storie capaci di supportare la sua vita; e il figlio della protagonista e della vittima trova la quadra, del processo e del rapporto con la madre, proprio inventandosi una storia relativa ai frammenti sparsi della sua vista fallace (il figlio è un ipovedente), una volta compreso che quei frammenti, senza intervento narrante e creatore di un osservante che diventa agente, non possono avere senso, come ben dimostrano le conduzioni processuali degli avvocati, in eterna contraddizione tra loro proprio perché non c’è verità, ma interpretazione dei fatti che *significa*, quasi *implica*, narrazione dei fatti…
Trier riesce a esprimere tutto questo in sceneggiatura e dialoghi e riesce alla grande a concepirlo a livello visivo, con una macchina da presa che scrive i suoi frame con un estro sempre geniale, che sfolgora sopraffino
- dai micro-movimenti agli stacchi improvvisi,
- dalla motilità degli stacchi capaci di ritmare e ravvivare il processo all’immobilità degli shots di paesaggio e di ricordo (stupendo il montaggio di Laurent Sénéchal),
- dall’andamento insinuante, che scopre piano piano il tutto di un ambiente al principio non visto (davvero speciali i punti macchina che rivelano la presenza di testimoni alla sbarra solo dopo che è cominciata la scena), alla presentazione nuda e cruda di certi eventi,
- dai frame di lineare comprensione tramesca a quelli storti e sghembi di una composizione visiva iperrealistica e anti-cinematografica che negano proprio quella linearità…
E che tutta questa carne al fuoco non trabocchi, o non faccia implodere ogni cosa, è segno che si sta assistendo a un capolavoro dei nostri tempi, che ce la fa, perfino, a parlare di coppie nuove e di condizione della donna rispetto al maschio in termini proprio degni…
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Straordinario il cast, non solo Sandra Hüller (candidata ai Golden Globes), effettivamente gigantesca, ma anche Swann Arlaud, Milo Machado-Graner, Samuel Theis (fantastico a spiccare con, praticamente, due sole scene) e Antoine Reinartz…
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Non so come abbiano avuto l’ardire di doppiarlo (arduo compito di Marzia Dal Fabbro) vista la sua vita di bilinguismo: i personaggi passano continuamente dal francese all’inglese (un inglese, per altro, parlato da una protagonista che è madrelingua tedesca), con tanto di domande in francese e risposte in inglese e con problemi legali che si pongono proprio perché il processo rappresentato deve essere condotto in francese anche se l’imputata parla inglese, cosa che comporta un suo quasi forzoso uso di una lingua non sua per difendersi…
tutto il giochino della giustizia francese sarà stato quasi sgonfiato dall’immissione di un italiano che non c’entra veramente niente…
Mi sembra un po’ complicato… ;-)
I film che fanno crescere!
Mi sembra assolutamente da vedere
Proprio a mille!
Grazie