Indiana Jones and the Dial of Destiny

Io sono troppo proppiano per affezionarmi ai personaggi…

E sono troppo anti-stanislavskiano per interessarmi alle circostanze date e alle backstories che per gli attori stanislavskiani (che sono tanti, quasi tutti quelli di Hollywood a causa dell’Actor’s Studio di Lee Strasberg, colui che adottò il metodo di Stanislavskij dopo aver visto il Teatro d’Arte di Mosca durante un tour americano nel 1923-’24) sono il pane quotidiano: a me, proppiano, di sapere cosa fa Amleto tutte le volte che non è in scena non me ne può fregare di meno, mentre per Stanislavskij l’attore doveva inventarsi tutta la vita del personaggio, soprattutto le cose che l’autore non ha scritto, e doveva inventarsele sulla base delle informazioni che l’autore aveva scritto nelle battute… e doveva immaginarsi la vita anche di gente minuscola, tipo Voltimando dell’Amleto (di lì la frase «non esistono piccole parti, solo piccoli attori»)…
per me è assurdo…

per me, proppiano, il personaggio è la funzione in una storia…

per capirsi: per dare all’eroe un elisir qualsiasi, un tale può chiamarsi Beppe, Anna o Pasquale e può essere turco, nepalese o tanzano, può avere il padre abusante o la mamma puttana: non fa alcuna differenza: non me ne frega niente: basta che sia lì a dare l’elisir all’eroe al momento giusto!
cosa fa prima e dopo aver dato l’elisir, a me non me ne fotte un cacchio!

ma sono in minoranza…

per tutti quelli che conosco, il personaggio è un amico, che si ha piacere a rivedere sempre, per tutta la vita, anche in visite distanti anni…

per tanti, vedere ancora una volta Riggs e Martaugh di Arma Letale dopo 30 anni è come vedere nonno Pino di Vercelli visto solo da piccoli, o il Bomba compagno di banco del liceo dopo 30 anni!

e tanto del cinema odierno si basa su questa convinzione…

Una convinzione che aveva già prodotto Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull, nel 2008…

come immaginarsi Indiana Jones dopo Last Crusade?
vecchio e imborghesito?

ma no: lo facciamo arzillo e buontempone come al solito, così il pubblico lo rivedrà volentieri…

e questo era l’unico scopo di Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull: fare vedere un amico non rincoglionito alla gente…

poi, vabbé, si commetteva l’errore di non fargli passare il testimone, cosa che inficia la sua filosofia (vedi anche quanto si dice in Top Gun: Maverick), ma a nessuno è fregato davvero niente… anche perché Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull era davvero brutto…

Rivedere l’amico, dopo altri 15 anni (per la prima volta in casa Disney, come Guerre stellari lì approdato quando Lucas ha venduto Lucasfilm a “zio Walt”), mah, non serve davvero a niente…

serve, come Flash, alla nostalgia e al fanservice

Il ritorno all’antinazismo, dopo il “revisionismo” del Kingdom of the Skull (con Indiana Jones che combatteva i comunisti invece dei nazisti: una cosa che era leggermente estraniante: non che non fosse meritoria eh, ma un Indiana Jones “maccartista” si faticava a immaginare), è ben gradito, ma James Mangold è troppo perbenino per rendere le sue lunghe sequenze qualcosa di più del semplice compitino pulitino, bravino e cristallino…

James Mangold, allievo di Miloš Forman (ancora ringraziato nei titoli finali, nonostante sia morto da quasi 5 anni: per Mangold deve essere davvero stato una figura paterna), non deve essere una persona malvagia..
è stato uno dei più chiari a testimoniare il sistema lurido degli Weinstein per accaparrarsi gli Oscars (con Weinstein che invitava i critici in sala di montaggio, critici che promettevano recensioni generose in cambio di “menzioni” a film uscito: tipo «l’unico critico che l’ha capito è stato Asdrubale!», quell’Asdrubale con cui sei d’accordo per farti fare le recensioni favorevoli anche se il film è una merda… poi ci si stupisce che quei film di merda vincevano gli Oscar! era esattamente come la Calciopoli di Moggi: l’arbitro era un amico di Moggi e quindi era generoso con Moggi!)…
ha fatto Walk the Line, con tutti i suoi meriti e i suoi difetti…

ma tra i difetti belli grossi di Walk the Line c’è il rivelare una voglia di «professionismo» che Mangold, dopo alcuni passi falsi, ha messo a servizio del miglior offerente, anche dei remake più assurdi (3:10 to Yuma) e dei cinefumetti più ghiozzi (Wolverine e Logan)…

Indiana Jones and the Dial of Destiny è un prodotto di fanservice che non ha sbavature, risultando molto più sopportabile del Kingdom of the Skull, ma in cui si percepisce tutto il lavoro di collazione e scelta di quale elemento fan sia più impellente dell’altro…

è un film quasi da Hollywood anni ’50: ci si sente la sceneggiatura di ferro, ci si sente la programmazione sicura, e tutta la debolezza che una sceneggiatura di ferro provoca in una narrazione… una narrazione che è un copia/incolla di elementi del passato arronzati su una nuova tela, che finisce per assomigliare più a un bel menabò pieno di post-it e di frecce di pennarello invece che a un film fluido…

  • la sequenza iniziale, con Harrison Ford giovane, apposta per innescare il MacGuffin dell’ennesimo amico da salvare, è lunghissima ed è costruita per doppiare quella di Last Crusade, con l’idiozia del ringiovanimento che non ha mai funzionato (ve li ricordate Carrie Fisher e Peter Cushing in Rogue One? e Jeff Bridges in Tron: Legacy? e Robert De Niro e Joe Pesci in The Irishman?)
  • Phoebe Waller-Bridge, fatta apposta per doppiare la Marion dei Raiders, finisce per non convincere affatto (e si sono tanto lamentati della povera Daisy Ridley in Guerre stellari, che al confronto è Ingrid Bergman!);
  • John Rhys-Davies, lì per due pose, senza che abbia niente da dire, è lì a provare che questo succede quando ti affezioni ai personaggi invece che alle funzioni che svolgono: finisce che hai un Sallah che non fa niente: c’è e basta: per fare contento qualche poveraccio che invece di confidarsi con gli amici veri si confida con Sallah!
  • Shaunette Renée Wilson, senza alcun appiglio al fandom, non ha alcun motivo di esistere…
  • Toby Jones, uno dei tanti amici di Indy che nessuno ha mai sentito nominare, e che si tirano fuori dal cilindro alla bisogna (vedi anche Ray Winston nel Kingdom of the Crystal Skull), almeno ha il coraggio di essere solo, soltanto e dichiaratamente strumentale…
  • Antonio Banderas, anche lui presente per massimo 5 pose, quasi antico ricordo del vecchio Katanga dei Raiders, ha la stessa onestà strumentale…
  • Ethann Isidore, un novello Short Round, è puro copia/incolla che non serve a una minchia (Ke Huy Quan non è presente, nonostante le tante voglie di rivederlo dei fan, boh: Dial of Destiny è stato girato prima della sua rinascita attorica con Everything Everywhere All at Once)…
  • il pilota italiano sull’aereo di Isidore, alla fine, non ha senso…

sono tutti post-it nel menabò, uniti da frecce e linee di pennarello: perfetti sulla carta, sussiegosi dell’arbitrio del fandom, sempre afflitto dalla memoria selettiva (tutti sono sempre attentissimi a citare il meno possibile Temple of Doom perché, non si sa perché, i fan lo amano meno!), ma non sono funzioni in una storia: sono figurine in un album…

Tra tutti i lavoranti (tanti: la sceneggiatura è, come al solito, passata da mille mani, anche se le fila pare averle tirate Mangold in persona, con Jez e John-Henry Butterworth) almeno qualcuno ha trovato un paio di momenti seri: quelli secondo cui Indy cerca il meccanismo di Antikythera per tornare indietro e non lasciar morire Shia La Beuf, cioè il figlio Mutt, così da ritrovare la sua Marion (Karen Allen), allontanatasi per il lutto (sono solo due frammenti della sceneggiatura), sono carini e commoventi…

ma lo stesso numero di gente non ce l’ha fatta a trovare un finale decente: il cazzotto di Helena, e lo stacco in nero susseguente, arrivano de abrupto e non hanno neanche l’innuendo di sogno che hanno i falsi happy ending di Frank Capra o North by Northwest o Body Double…: sembrano esprimere solo fretta…

fretta di concludere un film ingiustificatamente lungo…

Mangold gira e rigira (col solito Papamichael) quelli che sono interminabili inseguimenti, nei quali cerca in tutti i modi di replicare l’ironia dei Raiders e della Last Crusade, ma la sua natura di shooter bravo e preciso lo disvela privo di vero senso dell’umorismo: i momentini sciocchi durante l’action, capaci di strappare qualche risata ci sono, ma Mangold li guarda senza ridere: la sua macchina da presa c’è, ma impegnata nel millimetrare (sempre male) gli effetti speciali per far tornare il fisicamente impossibile (cosa che Spielberg, fino al 1989, doveva arrabattarsi a risolvere col fisico e non con il digitale che smortizza tutto in inverosimile: per capirsi: fino al 1989 potevi vedere qualche cavo e qualche stuntmen, ma succedevano molte cose che il digitale, semplicemente, non fa accadere ma disegna, risultando, come si diceva anche in The Flash, animato invece che effettivo: sembra un cartone animato invece che un film con attori), non partecipa allo humor: guarda e basta…

e anche gli attori, scelti evidentemente tra gli scarti (anche Mikkelsen viaggia per inerzia e i suoi scagnozzi sono la panacea dell’ovvietà macchiettistica), non hanno quella capacità di condurre l’umorismo… Connery e Ford, un tempo, con le loro facce tra Tex Avery e Chuck Jones, sottolineavano le inverosimiglianze divertentose nei loro inseguimenti, mentre Ford vecchio, Waller-Bridge e Toby Jones sono smorti…
…o forse è proprio Mangold che non riesce, né con gli attori, né col montaggio, a dare la carica risaiola là dove serve… e senza attori ironici e senza montaggio giusto, la trovata ridanciana, trovata con un cartone animato digitale che fa un volo che nessun essere umano farebbe, rimane sguarnita di effetto… [oppure cade su un deplorevole misoneismo da si stava meglio quando si stava peggio: Indy che aggiusta le cose dicendo continuamente «ai miei tempi era meglio», oppure «sono meglio io a 80 anni che tutti quanti voi a 20», è davvero patetico]

perché questo succede quando assumi uno sì in gamba ma troppo professionista: il film ti viene un compitino bellino ma senza vero sapore…

Mangold si rivela essere uno di quelli della Hollywood di un tempo: un Joshua Logan, un John Guillermin, un Ronald Neame, un Gene Saks: quelli che ti girano di tutto, anche velocemente, ma che trovano pochi risultati veri ed efficaci, e quindi quasi spariscono in confronto a un Richard Donner o a un Blake Edwards, cioè a gente che gira ugualmente di tutto e con professionalità, ma è anche capace di rispondere al committente per creare un prodotto efficace invece di limitarsi a non sforare il budget…

Raiders of the Lost Ark, Temple of Doom e Last Crusade avevano lampanti metafore cinematografiche, e spesso ammonivano alla rinuncia e alla modestia per far rimanere il loro cinema sincero…
erano seriamente antinazisti e facevano ironia sul loro stesso statuto di film d’avventura…

Dial of Destiny è solo antinazista…
l’ironia la tramortisce…
…e non riesce a scovare motivi attanziali per nessuna apparizione di fanservice che presenta (e qui Muschietti forse è stato più bravo in Flash)…

Mangold ha quindi solo fatto un suo personale meccanismo di Antikythera: una cosina bellina che gira e rigira, ma è come un mappamondo: tanto carino, ma come soprammobile, non proprio utile da usare per orientarsi davvero se finisci impantanato negli snodi autostradali!

e le due battute di dolore per Mutt, cioè in tutto 140 secondi di film su 140 minuti, non sono davvero abbastanza…

Già in Tenet perculavo l’avvicinarsi di Hollywood alle puntate di Roberto Giacobbo…

e la smaronata di Antikythera presente in questo Indiana Jones mi conferma la tendenza…
aspetto qundi davvero un film sull’Astronauta di Palenque (considerando Prometheus di Scott e Stargate di Emmerich già ampie concessioni ai Biglino odierni)

9 pensieri riguardo “Indiana Jones and the Dial of Destiny

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  1. A me la saga è sempre apparsa un po’ sopravvalutata, benché iconica. Il quarto film era proprio un orrore. Sono curioso di vedere questo, ma non così curioso da vedermelo subito al cinema, ecco.

  2. L’operazione Nostalgia con Nick non ha funzionato… X–D

    Quando sei così implacabile, con tanti argomenti a supporto della tua tesi, sei una forza della natura! :–)

    Io vedrò se riuscirò ad andare al cinema a vederlo questo quarto film di Indy, e poi deciderò se esiste o meno.

    1. Capisco: i seguiti di Indiana Jones non si sa mai quanto sono. Ieri Ila mi ha chiesto: “ma i film di Indiana Jones sono solo 5? Io credevo fossero tantissimi!”
      E io le ho risposto: “non sono 5, sono solo 3!”
      Ahahaha!

  3. c’è Antonio sexy Banderas??? non l’ avevo capito dal trailer!
    se riesco a convincere mio cugino ad accompagnarmi ci vado sennò salta senza troppe remore

    sono l’unico a cui è piaciuto il 4? a me quelle formiche giganti han sempre fatto ansia 😂

      1. Io lo guardo se lo guardo in italiano

        Già non so molto di storia e di indiana, poi se i paroloni sono pure in inglese non capisco na fava

      2. E mi immagino che risate ad adattate la dicotomia tra i personaggi britannici e Indiana… ma vedrò anch’io e farò un’addenda…

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