Non credo di aver mai letto un libro più noioso e antipatico…
Mi ha perfino causato un giramento di zebedei diffuso e fastidioso mentre lo leggevo…
Ma siccome è un bestseller di quelli grossi, scritto da un super della letteratura, occorre che mi interroghi profondamente sul perché mi ha provocato diarrea invece di ammirazione…
Inutile dire che nell’interrogarmi farò degli spoiler… che spero siano innocui, visto che il libro è ormai di qualche annetto fa…
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Come nota preliminare c’è subito da dire che la traduzione di Cristiana Mennella (Auster ha predisposto un’uscita ampia nel 2017, in USA presso Henry Holt, in Inghilterra presso Faber and Faber [lo stesso editore di Golding], in Germania presso Rowohlt, in Catalogna presso Edicions 62, in Italia presso Einaudi, il suo più importante interlocutore italiano [solo pochissime volte è passato da gente come Rizzoli e Guanda]; nel 2018 sono arrivate le edizioni francese [Actes Sud], portoghese [Compañia das Letras], olandese [Bezige Bij] e spagnola [Planeta Pub]; nel 2019 quella rumena [Art]) contribuisce all’estraniamento: usa termini e modi che si potrebbero definire doppiaggesi…
…traduce tutto quanto, anche canzoni e poesie… perfino canzoni e poesie che non sarebbero in inglese… traduce le traduzioni che il protagonista fa di testi francesi (cioè è una roba francese, tradotta da un americano che viene tradotta in italiano)… alla fine sembra di essere in uno di quei film doppiati in cui tutti quanti parlano italiano in tutte le parti del mondo (vedi, per esempio, quello che succede in Cafarnao e Cold War)…
inoltre, l’italiano usato è proprio quello dei film doppiati, zeppo di «piantala», «chiudi il becco», «fottuto» e altre cacchiate…
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E nel doppiaggese della traduzione, le quasi 1000 pagine di 4 3 2 1 ti piombano addosso con l’idea, che vorrebbe essere geniale, delle ormai classiche Sliding Doors…
Sliding Doors era un carino ma non davvero sublime film di Peter Howitt del 1998, ispirato dichiaratamente a varie suggestioni di Krzysztof Kieślowski (Przypadek, 1987; La Double Vie de Véronique, 1991), che negli anni successivi portò a diversi epigoni (per esempio Passion of Mind di Alain Berliner, 2000) che, nel tempo, come una valanga, sono “montati” (come la panna), tracimando sapori simili nei fumetti (la Crisis on Infinite Earths della DC, 1985-’86), fino ad arrivare alla coglionate del Multiverso della Marvel (nei fumetti presente dal 1962, con applicazioni serie a partire dal 1977; nei film viene “annunciato” nel 2019 e realizzato dal 2021) e di Everything Everywhere All at Once…
Auster, nel 2017, due anni prima di Endgame, ma quasi 20 dopo Sliding Doors e 30 dopo Przypadek, dà la sua versione del mito del multiverso raccontandoci per ben 4 volte la vita della stessa persona: Archibald ‘Archie’ Ferguson, ebreo newyorkese che Auster, dopo un episodio 0 preliminare, segue dalla nascita fino a quando ha circa 25 anni in quelli che sono 7 episodi di ognuna delle 4 vite…
mi spiego:
c’è il capitolo zero, con raccontate le vicende di come Archie nasce…
poi si concretizzano 4 vite, ognuna raccontata in 7 episodi ciascuna secondo lo schema:
episodio 1 di vita 1
episodio 1 di vita 2
episodio 1 di vita 3
episodio 1 di vita 4
episodio 2 di vita 1
episodio 2 di vita 2
episodio 2 di vita 3
episodio 2 di vita 4
e così via…
fino all’episodio 7 di tutte e quattro le vite…
le vite si differenziano per via delle Sliding Doors:
tra le contingenze che “originano” vita 2 c’è la caduta dell’Archie bambino da una quercia, per esempio, che lo costringe a letto per diversi mesi…
vita 3 si “origina” perché il padre di Archie muore in un incendio…
vita 4 si innerva quando il padre di Archie incoccia un investimento che lo rende venale e riccone…
si sente che Auster è sicuro di aver reso i suoi 4 Archie diversissimi tra loro… ne è proprio convinto…
tanto che si sente obbligato a creare particolarini di collegamento tra i 4, per sottolineare che sono 4 ma sono in realtà un’unica persona:
per esempio tutti hanno, chi prima e chi dopo, a che fare con la città di Parigi, hanno folgorazioni personali grazie a Dostoevskij, Dickens e al libro 16 dell’Odissea, tutti si innamorano della stessa ragazza, Amy Schneiderman (vera deuteragonista di 4 3 2 1), tutti hanno gli stessi parenti di zoccolo duro (la zia Mildred, sorella della mamma, i nonni materni ecc.) a cui si sommano altri parenti differenziati (i parenti acquisiti qua e là nelle contingenze “mutabili” delle 4 vite), e quasi tutti, nella vita, hanno amici che si intravedono uguali nelle 4 vite…
Auster, dicevo, mette questi particolari sicuro di rendere unica una persona che è sicuro di aver moltiplicato in 4 con veemenza…
…ma invece le 4 vite sono mattonescamente similari…
prima di tutto perché il Tempo “maiuscolo” è sempre identico in tutte e 4 le vite, e anche i Luoghi “maiuscoli” sono gli stessi: le 4 vite di 4 3 2 1 occorrono tutte tra New York e il New Jersey (solo brevi puntatine a Parigi, il Vermont, la California, la Florida, il Canada) dal 1952 al 1972 (o giù di lì: ci sono anche i prodromi dei genitori e dei trisavoli di Archie nell’episodio zero) senza che si verifichi un’ucronia vera e propria (tranne alle fine della quarta vita, quando Auster dice che Nelson Rockefeller riesce a diventare presidente USA dopo le tante sconfitte elettorali nel Partito Repubblicano), e questo significa che i Kennedy, Malcom X e Martin Luther King muoiono 4 volte, che la guerra del Vietnam e la Contestazione sessantottina sono vissute 4 volte (pressoché ugualmente), che la Marcia di Selma si “fa” 4 volte, e compagnia bella…
e sentire 4 volte quella che, mutatis mutandis, è la stessa storia, ahi, per forza ti fa sbadigliare!
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vediamo di andare nel dettaglio: ed ecco gli SPOILER
Archie 1 ha padre e madre abbastanza squattrinati per investimenti sbagliati (la faccio corta, Auster descrive lungamente tutti i particolari: c’entrano i fratelli cattivi del padre di Archie).
L’amata fin dai primi giorni Amy Schneiderman (più grande di Archie un paio di mesi, però Amy è nata il 29 dicembre ’46, lui il 3 marzo ’47 sicché fanno le scuole separati e lei è sempre un anno avanti) lo ama a mille ma ha spesso bisogno di spazio (a causa dei traumi con la mamma chioccia: per diversi mesi ogni volta hanno ognuno altre storie, lui con una nera che alla fine lo lascia perché bianco). Fa basket e baseball ma perde due dita in un incidente con la macchina. Fa il giornalista (all’inizio sportivo). Vive un’estate a Parigi con Amy, e lì comincia a tradurre poesie dal francese. Con Amy convive. Riesce a essere ammesso alla Columbia University. Scrive nel giornale dell’università anche la cronaca. Una sera rimane chiuso in un ascensore del campus durante un Blackout e la cosa lo spinge ancora di più verso Amy, l’unica che vuole rivedere dopo l’esperienza. Poi nel ’68 Amy si estremizza nella militanza politica di sinistra e occupa le scuole (soprattutto dopo che ha passato un’estate in California dalla zia di Archie, la zia Mildred, professoressa a Berkeley). Archie simpatizza con lei, ma non ha la stessa carica sinistrorsa e allora si lasciano. Intanto, nelle rivolte razziali, il padre si mette a odiare i neri e va a stare in Florida quando Archie ha 18 anni, e ci va anche la mamma.
Dopo la laurea trova lavoro in un giornaletto nel settentrione dello stato di New York e quasi ci marcisce tra varie donnette frequentate a caso e la stanca rendicontazione, nei suoi articoli, delle vergogne degli USA dei 1950s-1960s venuti fuori dai Pentagon Papers. Disgustato dal radicalismo di sinistra (anche quando sa essere stato, quel radicalismo, provocato da infiltrati governativi apposta per screditare la Contestazione), alla fine si innamora di una studentessa dell’ultimo anno, stagista al giornale. Decide di sposarla, ma dopo un’estate d’amore, un giorno non riesce a trovarla al telefono e si deprime. L’inquilino del piano sotto al suo, reduce della WW2, fumatore pieno di incubi notturni, che ha visto Archie e la studentessa vivere la loro estate d’amore, forse provoca l’incendio della palazzina (con una sigaretta rimasta accesa) che sembra uccidere tutti, anche Archie…
Archie 2 a 6 anni si arrampica sulla quercia in giardino e cade: sta molto tempo a rimuginare a letto. Tornato a scuola, verso i 12-13 anni realizza un giornalino domestico che distribuisce a sue spese anche a scuola. Attratto dalla “simpatia” del primo numero, un altro studente vuole partecipare col lui al secondo, ma tra quello e quell’altro, in primis per voler far restare il giornalino tutto suo, non ce lo fa scrivere, e si fa convincere da un parente a buttare giù un articolino critico nei confronti del governo, in pieno maccartismo. Una volta uscito il secondo numero, il preside minaccia di sospenderlo per “antiamericanismo” e l’altro studente comincia a picchiarlo per non averlo incluso. A un campo estivo è attratto “stranamente” dalla natura in subbuglio durante un temporale e muore sotto una quercia caduta a causa di un fulmine…
Questo Archie 2 anima solo un episodio, il primo: gli altri ci saranno ma saranno vuoti: cioè i capitoli 3.2, 4.2, 5.2, 5.2 e 7.2 esistono tipograficamente ma presentano solo una pagina bianca…
Ad Archie 3 muore il padre durante un incendio appiccato per fregare un’assicurazione (sono stati i soliti fratelli cattivi). C’è tutto un periodo di lutto, ma alla fine la mamma si risposa con lo zio di Amy, sicché, dopo qualche pomiciamento in pubertà, lui ed Amy diventano cugini. Scopacchiano anche da cugini finché lei non si stufa e allora lui, adolescente infoiato, accetta le attenzioni di un ragazzo, scoprendosi bisessuale. Ha pensieri sessuali sia per Amy sia per il di lei fratello (ugualmente suo cugino). Adora il basket e i film, con una predilezione per Stanlio e Ollio. Con sconcerto di tutti non va al College, e si fa pizzicare a rubare dei libri… evita la coscrizione per la leva militare (c’è la guerra del Vietnam) perché confessa all’ufficio di arruolamento di essere bisessuale. Va a puttane (soprattutto con una certa Julie che non si sa che fine faccia), beve come una spugna, e i genitori (cioè soprattutto il padre adottivo, critico musicale del New York Herald) lo portano a giro per il mondo, anche a Parigi, dove fa amicizia con una vecchia amica del padre e va a stare da lei per diversi mesi, innamorandosene e confessandole la sua bisessualità (anche zia Mildred, in questa vita, è bisessuale e sta con una in California: anche qui insegna in California)… A Parigi scrive una sorta di autobiografia e comincia un saggio sulla teoria dei film. Un ospite in casa della vecchia amica lo paga per fare sesso, la cosa sembra sconvolgerlo ma invece passa presto perché la sua autobiografia viene pubblicata da un editore di Londra, non solo sotto viva raccomandazione della vecchia amica parigina (scrittrice anche lei pubblicata dallo stesso editore), ma anche perché l’editore è bisessuale e se lo trastulla in albergo. Mentre il libro è in promozione, vive per 8 mesi con un tale canadese profondo e problematico (di quei personaggi delle storie americane che assomma in sé tutto quanto: è nero, è drogato e gay, tutto insieme!), ma quando va a Londra a presentare effettivamente il libro, cade nello stereotipo di non guardare dalla parte giusta durante l’attraversamento pedonale londinese (la vecchia beffa della guida a sinistra), e viene investito da una macchina (arriva all’episodio 6, il capitolo 7.3 è vuoto).
È la vita meno facile da leggere perché contiene luoghi comuni odiosi sui gay (descritti come incapaci di mantenere relazioni monogame), sui francesi e sugli inglesi…
Archie 4 si scopre riccone perché l’investimento sbagliato occorso al padre di Archie 1, al padre di Archie 4 è invece andato bene! Inoltre, in questa vita Amy cade da cavallo da bambina e perde un anno di scuola, sicché lui ed Amy vanno a scuola insieme. A causa dei soldi, però, il padre diventa un riccone tirchio e venale e si separa dalla mamma, che stavolta si risposa con il padre di Amy (a sua volta vedovo dalla moglie, anche qui chioccia con i figli). I soldi, quindi, tornano pochini per Archie, quindi fa tanti lavoretti estivi: il principale è il facchino traslocatore. Anche se è sua sorellastra, lui sbava comunque per Amy e gode come un riccio quando la vede nuda durante la normale convivenza tra fratellastri. Gioca a baseball e basket. Fa molta amicizia con il figlio del primo marito della zia Mildred (stavolta professoressa a Chicago e poi al Brooklyn College). A 14 anni, gioca a basket nelle giovanili scolastiche e in una partita si trova contro una squadra di neri, che sconfigge, ma la vittoria fomenta la folla di neri nelle tribune, e la folla quasi aggredisce i vincitori e lui si becca un pugno. Sempre a 14 anni, nel solito campo estivo, fa amicizia con uno che gli muore davanti di aneurisma. Un trauma che lo ispira nello scrivere un romanzino, disprezzato dalla prof vecchia ma amato da quella giovane. Per il trauma smette di giocare ma fa il giornalista sportivo. Rimane in buoni contatti con i genitori del morto. Esce con una che però è una snob di destra e punta gli occhi niente meno che sulla piccola sorella del morto, Celia! Con una borsa di studio letteraria entra a Princeton, ma lo ritiene un posto destrorso. Là comincia a scrivere diversi romanzini. Tra quello e quell’altro finisce per scoparsi la sua prof giovane dell’High School che tanto lo aveva apprezzato (è una donna più grande di lui, come la parigina di Archie 3). Lei lo tiene con sé soprattutto per restare incinta, ma si scopre che lui è sterile: preso dal “rimorso” di non essere “sano”, Archie lascia la prof per telefono, senza neanche guardarla in faccia… Amy si fidanza col tale che aveva dato ad Archie il pugno dopo la partita contro i neri a 14 anni…
Archie riesce a fidanzarsi ufficialmente Celia, la sorella del morto, e con lei riesce di nuovo a giocare a basket, anche se, di fondo, gli amici di lui la disprezzano perché non è “artista” ma biologa. Una sera un tale insulta il ragazzo nero di Amy e Archie gli dà un cazzotto: in tribunale viene assolto ma la destrorsa Princeton gli revoca la borsa di studio per cattiva condotta e la leva militare per il Vietnam si avvicina… interviene zia Mildred, che fa iscrivere Archie al Brooklyn College… Riesce a pubblicare i suoi libri con case editrici underground e poi con aziende serie, ma le amicizie strambe (della controcultura sessantottina newyorkese) e lo snobismo da capiscione letterato-umanista di Archie (che non riesce a non sentirsi superiore rispetto a chi fa studi scientifici) rendono la convivenza con Celia difficile. Difatti, Celia lo tradisce con uno studente in medicina, proprio mentre anche Amy si lascia col ragazzo nero: Amy però si riaccasa subito con un ex compagno di corso di Archie (quello che gli disegna le copertine dei libri)… Quando il padre riccone muore lascia ad Archie una cifra ragguardevole. Ha diverse altre ragazze newyorkesi ma coi soldi del padre decide di passare un po’ di tempo a Parigi (guarda caso)…
In questa vita abbondano gli estratti dei libri scritti da Archie: inutili…
e alla fine Archie 4 si rivela essere effettivamente Auster: 4 3 2 1 è ovviamente il romanzo che Archie 4 scrive a Parigi…
Archie 1 e Archie 4 sono gli unici che arrivano ai 1970s, ma se Archie 1 ha avuto la disillusione per il suo lavoro da giornalista, Archie 4 ce l’ha avuta meno, e allora forse per questo Auster mette l’ucronia di Nelson Rockefeller presidente nel mondo di Archie 4, per sottolineare che la politica c’è anche in Archie 4…
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Archie è sempre di “sinistra ma non troppo” in tutte e 4 le vite, un vero Democratico americano con tutti i crismi, tutte e 4 le volte spaventato dagli estremismi di sinistra e tutte e 4 le volte sconcertato che quegli estremismi li provocassero infiltrati destrorsi del governo USA…
è quindi tutte e 4 le volte un coglionazzo what’s american boys che casca dal pero quando vede le atrocità del proprio governo, anche se le ha sempre constatate davanti a lui…
è come noi altri italiani che si vota sempre il nuovo e poi ci si scandalizza quando quel nuovo ci si rivela vecchissimo quando ci ricordiamo improvvisamente che quel nuovo è stato invece al governo da 30 anni senza mai fare un cacchio di quanto necessario (vedi Giorgia Meloni)… e il constatare che si voti sempre la stessa gente autoingannadoci di stare votando gente nuova è simile alla maledizione di Archie, americano modestamente moderato, che sa benissimo di vivere in un paese corrotto e razzista ma si autoinganna che andare nel radicale sia sbagliato…
come provare empatia per un personaggio del genere…?
e come provare simpatia per uno che si lamenta tanto ma che, nella maggior parte dei casi, ha tutto quello che uno potrebbe desiderare: amici, donne, creatività…
sì, un paio di Archie muoiono, e forse si potrebbe faticare a definire “felice” l’Archie 3, ma il più delle volte, ad Archie gli va bene: scopa, scrive, pubblica… i suoi drammi si rivelano spesso drammi assai falsi… quando si lascia con Amy trova subito un’altra, e quando gli capitano delle disavventure subito queste si “emendano” con trionfi personali e/o professionali…
anche Archie 3, tra quello e quell’altro, ha una vita da mantenuto a Parigi per mesi e mesi, e vive una passionale storia d’amore: molto di più di quanto tocca in sorte alla maggior parte della gente (ricordiamoci la massima di Mystic River: «I loved her so much. I’m never gonna feel that again. It doesn’t happen twice», «Doesn’t happen once most times»)… [tra l’altro è anche fastidioso che in Archie 3 si accorpino tutte le cose che “spaventano” l’americano medio: la bisessualità, il velato alcolismo, il maledettismo vario ed eventuale]
e dopo tanti film hollywoodiani, è abbastanza seccante rivedere le prese di coscienza di Archie 1 e 4 sulla guerra del Vietman e sulla fine del sogno kennediano…
probabilmente, alla lunga, suscita noia anche l’ennesimo romanzo italiano sul fascismo, ok, ma non è che il trimilionesimo romanzo sugli Stati Uniti ’50s-’70s sia molto più fresco da leggere…
e dopo tante riflessioni sull’America razzista è quasi irritante vedere “la morale della favola” di un librone di 1000 pagine nel motto: «Migliorate pure la società se vi riesce, ma intanto le persone soffrono e io ho un lavoro da fare» (lo dice la studentessa che si mette insieme ad Archie 1)…
sembra uno di quei romanzi italiani, alla Sandro Veronesi, in cui all’intellettualone cadono le braccia nel vedere la società caotica, e capisce che può solo e soltanto «raccattare i cocci»… gli USA sono razzisti e l’Italia è di destra, ed entrambi producono narrazioni di rassegnazione, di piccole cose, di trivialità e di vita di tutti i giorni per evadere dalla triste realtà di vivere in un paese (e in un mondo?) di merda…
La morale del «raccattare i cocci» non è malvagia quando è esibita con nichilismo (vedi Juggernaut di Dick Lester: vero cinismo), ma quando è presentata con bonarietà e sufficienza da uno che di cocci da raccattare, a livello personale, ce ne ha pochi (Archie 1 e 4 hanno davvero avuto tutto quello che molti manco vedono da lontano) suona peggio, perché, in effetti, in uno come Archie, quel «raccattare i cocci» fa presto a diventare «fatti i cazzi tuoi», lemme lemme e liscio liscio: diventa la morale del «chi striscia non inciampa» in una narrazione che è quella di una vita, anzi 4 vite (vabbé 3, visto che Archie 2 muore a 14 anni), così risapute, così ritrite e così triviali da non poter non risultare stancanti… o del tutto inutili…
Quelle dei 4 Archie (sì, eccettuiamo Archie 2 e 3) sono vite così uguali a tutte le vite di coloro che hanno vissuto a New York negli stessi anni che quasi le abbiamo già vissute anche noi lettori in tanti anni…
E se il narrato è così risaputo, è avvilente vedere che Auster cerca di insaporirlo con un opprimente senso del fato e della predestinazione che nemmanco in Barrie, Fielding, Tolkien e Thackeray: tutte le svolte biografiche e le disgrazie sono annunciate da Auster con lo stratagemma dell’anticipo, roba del tipo «fu l’ultima decisione che prese», «non sapeva che gli rimanevano solo 3 ore da vivere» e altri dozzinali mezzucci per fare suspence…
Mezzucci che dimostrano quanto 4 3 2 1 sia scritto con un mortale stile da Sette-Ottocento: davvero da Dickens e Dostoevskij: tutto positivo, descritto, proposto e articolato senza mai dubbi, senza mai scossoni, senza mai deragliamenti né di punto di vista né di montaggio…
la logica del multiverso, in uno stile così, diventa quasi un pretesto, perché le vite non si mescolano (là dove molte volte l’unico motivo di interesse nel multiverso è la confusione “meticcia” tra una vita e l’altra che si sovrappongono), ma sfilano paratattiche, una dopo l’altra, tanto che alla fine 4 3 2 1 sembra un elenco invece che un romanzo… alla fine di Archie 1 c’è un piccolo cambio di punto di vista, con l’inquilino del piano di sotto che per un attimo sostituisce la permanente falsa soggettiva di Archie, ma per il resto tutto è sfoggiato al lettore con una sdilinquente e noiosissima focalizzazione onnisciente e onnipresente, che ti parla di tutto quanto, che ti legge nelle menti e nei pensieri di tutti come per farti un servizio invece che per farti riflettere, e ti fa questo servizio sempre e solo con l’ottica di un cazzo di maschio etero basic cis (rimane così anche l’Archie 3 bisessuale) che guarda le donne e gli uomini con la sicumera di chi riuscirà a portaseli a letto: un maschio etero basic cis che tutto vede e tutto sa, sicurissimo di sé, che però ti ammorba con la logica della piccola vita risaputa e rivista del «raccattare i cocci», in un mondo che sembra grande ma è piccolissimo (New York) e in un’ipertrofia di 1000 pagine che però non fanno altro che raccontare la stessa storia 4 volte…
Cioè Archie o si sente fenomeno vivente, tanto da considerare la sua noiosissima vita come colossale, tanto da poterla considerare sineddoche della storia americana (un procedimento simile a quello che appronta ogni volta lo sceneggiatore Eric Roth, vedi Forrest Gump e Benjamin Button), o crede che la sua vita in effetti non conti un cazzo in mezzo al fato (che tanto lo opprime, visti i mezzucci di suspence e predestinazione abusati), ma si “consola” immaginandosi quella vita come simulacro della vita di tutti gli americani… ma tu, lettore che hai avuto molte meno fortune di Archie, sei lì a chiederti «ma cosa ti devi consolare a fare della tua vita? È stata comunque una vita migliore di quella di tanti altri!»
ma se la vita di “consolazione”, moltiplicata in 4 ma sempre e solo la spiattellata vita rimasticata milioni di volte dell’americano medio, è così normale, perché raccontarla? e raccontarla 4 volte?
Un’operazione di rimpicciolimento del mondo a una vita sola, o di moltiplicazione di una vita banale in una vita colossale moltiplicata in 4 volte e in 1000 pagine, di cui io non so cosa capire…
che mi fa capire l’ennesima storia americana sui democratici che non ci levano le gambe sul razzismo?
che mi fanno capire i successi e gli insuccessi di Archie con le donne e le altre persone, così uguali ai successi e agli insuccessi di tutti (o, perfino, così migliore, in quanto a successi, di tanti altri, tanto da far risultare Archie un deficiente che si lamenta quando non ha nulla di cui lamentarsi, causando invidia a mille a chi è andata peggio di lui)?
che mi fa capire l’anonimo e incolore “indistinto” della vita di un Archie sempre bravo ragazzo che però fa i suoi erroretti?
chi se ne frega di un personaggio normale, ovvio, uguale a tutti gli altri?
chi se ne frega di una vita che ti sembra di aver già letto mille volte?
il racconto della media delle persone americane è interessante?
il racconto del mezzo, cioè quello che vivono, identico, milioni di persone, è arricchente?
la vita di tutti quanti, sempre simile, è davvero utile a qualcosa?
Se tutto questo fosse stato narrato con titanismo folle, cioè con l’ingigantimento della propria vita visto come patologia (vedi la Heldenleben di Richard Strauss), o con poetico senso di impermanenza (vedi Tree of Life di Malick), o con piglio etnologico o addirittura etologico (tipo La scimmia nuda di Desmond Morris: sì, quello della canzone di Gabbani), allora, vabbé, la cosa sarebbe rientrata nel mio gusto…
invece la narrazione dostoevskiana-dickensiana, tutta onnisciente, di Auster, appare quasi una constatazione simile alla cornice del Decameron, o, peggio, una indifferenza inconcludente simile alla macchina da presa smorta di Roma di Cuarón: una osservazione che finisce per essere artistocratica, ma altezzosa e non quindi una aristocrazia empatica (alla Sterne o alla Tolstoj): una aristocrazia di chi vede tutto e ti dice tutto dall’alto, dagli intermundia lontani della narrazione, senza che quegli intermundia rappresentino atarassia (come effettivamente capita alla congrega del Decameron, o all’auriga/Krishna del Bhagavadgītā), ma significhino davvero altezzosità, snobismo, appunto sicumera di chi osserva il mondo dall’alto quasi commentando «maramao perché sei morto»… ma proprio mentre ti dice «maramao», ti si lamenta davanti quando due o tre cose gli vanno male!
È andata a finire che io, questi 4 Archie, li ho tutti indistintamente detestati…
Ho detestato l’andamento a capitoli lunghissimi degli episodi…
Ho detestato il crogiolarsi autocompiaciuto nella oggi tanto amata vanagloria del world building (vedi numero 3 del Il papiro del 2021/2022) con descritti i 5000 parenti, i 3000 particolari degli amici, della quotidianità esibita dei 4 Archie, della descrizione pleonasticissima e dettagliatissima dei loro viaggi sui mezzi pubblici tra New Jersey e New York, dei loro appartamenti, delle loro situazioni finanziarie, delle partite che giocano a Baseball e Basket…
Ho detestato la massa di informazioni completamente inutile sulle risapute contingenze del Sessantotto americano…
Ho detestato *completamente* la tecnica della suspence della predestinazione…
Ho detestato l’atteggiamento di Archie di lamentarsi che non trova l’amore proprio mentre scopacchia con chiunque gli capiti a tiro!
Ho detestato la riflessione inconcludente e superficiale sul marciume degli USA…
Ho detestato il suo essersi fissato con una sweetheart dell’infanzia così tanto da non riuscire mai più a levarsela dalla testa…
Ho detestato che tutto quanto fosse narrato con la consequenzialità banalissima di un sussidiario…
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Alla fine, quindi, il perché della mia diarrea con 4 3 2 1 è la mia incomprensione sulla massa di informazioni dettagliate e paratattiche sbattutami in faccia con tanto tragico oggettivismo Ottocentesco riguardanti un tale che non ha in sé nulla che meritasse quella massa: non ho capito il senso dell’operazione…
e la mia incomprensione è dovuta ovviamente al gusto personale…
non ho ammirazione per il world building…
non ho ammirazione per l’ennesima e vuota rendicontazione delle nefandezze razziste americane…
non ho ammirazione per la biografia di una persona (o di 4 persone) qualsiasi di cui non capisco né la “specialità” né la “straordinarietà”… e quindi non capisco la spettacolarizzazione o la rappresentazione del banale e del quotidiano, là dove invece tanto ammiro la sua trasfigurazione nell’arte contemporanea…
Per capirsi: ho trovato le 4 vite di Archie inutili, un decotto di fatti risaputi che rendicontano una vita lamentosa di qualcuno che manco avrebbe da lamentarsi…
il tutto in ben 1000 pagine
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Quindi, veramente, uno strazio…
Hai iniziato criticando la traduzione… sarà stato quello il problema? Auster riesco a leggerlo in originale e 4 3 2 1 l’ho amato, il finale mi ha emozionato. Non riuscirei a leggerlo in italiano. Di lui ho parlato descrivendolo come lo scrittore perfetto (per me), lunga vita ad Auster, per questa volta ti perdono 🤣
Per curiosità, avevi letto altro di suo?
Sì, la traduzione mi ha pesato tanto!
Non ho mai letto niente di lui, e ho avuto la sensazione credo che il problema sia solo di gusto: se la stessa cosa la faceva in Bhutan invece che in USA allora magari mi piaceva!
Sí, in effetti è una questione di gusti alla fine. E ti capisco quando parli della noia che ti ha provocato, ma io sono un po’ di parte con Auster. Ti consiglio di dargliela un’altra possibilità, secondo me Follie di Brooklyng e Il libro delle illusioni sono tra i migliori, meglio se puoi leggerlo originale.
L’hai stroncato ben bene! Io invece apprezzo molto Paul Auster e 4321 mi è piaciuto, mi sono piaciute proprio le cose che tu hai detestato di più, e cioè che alla fin fine le vite dei vari Archie si somiglino, a parte quello che muore da ragazzino colpito dal fulmine, come a voler dire che nonostante le varie sliding doors la nostra vita ha delle costanti che torneranno comunque; la seconda ragione che tu hai odiato e io invece ho apprezzato è proprio il fatto che si tratti di una vita normale, comune, perché questa è una cosa in cui io credo fortemente, cioè che la letteratura possa raccontare, certo, vite e persone straordinarie, ma anche vite e persone comuni, se lo sa fare, ovviamente (penso che sia più difficile).
Sì, c’è proprio una diversità di filosofia della letteratura… io, in 4 3 2 1 mi sono sempre detto “ok, Auster, adesso dimmi qualcosa che non so, oppure qualcosa che so ma in un modo interessante”… e non mi ha accontentato mai…