Il «Riccardo III» di Latella con Marchioni alla Pergola

Comprare un’edizione moderna, anche economica, di qualsiasi testo di Shakespeare (tranne, forse, per le 18 plays che ci sono pervenute solo attraverso l’in folio: e cioè All’s Well That Ends Well, Antony and Cleopatra, As You Like It, The Comedy of Errors, Coriolanus, Cymbeline, Henry VIII, Julius Caesar, King John, Macbeth, Measure for Measure, The Taming of the Shrew, The Tempest, Twelfth Night, The Two Gentlemen of Verona, The Winter’s Tale, Henry VI, Part 1, Henry VI, Parts 2 & 3) è sempre un dramma…
Le edizioni composte prima degli anni ’80 e ’90 (e cioè quasi tutte quelle commercializzate oggi a prezzi accessibili) sono edizioni che fondono diversi testi circolati, bene o male, durante la vita di Shakespeare (e il più delle volte anche dopo), che però non ci ha lasciato né alcun autografo né nessuna indicazione…

Nel 1623, 7 anni dopo la morte di Shakespeare, alcuni suoi soci, per mere ragioni economiche che esplicitano in prefazione, stampano un volumone enorme (appunto in folio) evidentemente per un pubblico di studiosi: studiosi che, fino all’Ottocento, considereranno tale volume un idiografo di Shakespeare, nonostante Shakespeare non ci avesse per nulla messo mano, e nonostante, già dalla metà del Seicento, Shakespeare venisse assurto a genio britannico importantissimo, così importante da non poterne perdere neanche un testo, a costo di rischiare di assumere come veri testi anche solo presumibilmente di Shakespeare…

Già dal Seicento, infatti, gli editori di quei testi, già sacri, misero insieme al fantomatico idiografo dell’in folio, diversi altri libri *forse* di Shakespeare, usciti anch’essi, a stampa, durante la vita di Shakespeare… non si sono preoccupati di controllare quale battuta era più o meno funzionale alla trama, o più o meno riconducibile a testi “riferibili” all’entourage di Shakespeare: hanno messo insieme tutto, inventandosi, spesso di sana pianta, una divisione in atti e in scene del tutto arbitraria, e spesso opinabile…

Dall’Ottocento si è spesso ripristinata l’autorevolezza dell’in folio, ma senza abbandonare la pratica del condirlo con roba proveniente da libri diversi e *forse* di Shakespeare, anche se, per certi versi, un po’ più a fondo sono andati…

hanno, per prima cosa, constatato che i libri diversi dall’in folio sono quasi tutte stampe in quarto, e hanno cominciato a distinguere bad quartos da probabili good quartos: i bad che erano ritenuti operazioni piratesche, e i good ritenuti testi magari riferibili allo stesso Shakespeare, circolati prima del tardo in folio
ma erano ancora convinti (ed è la cosa che affligge anche tantissimi spettatori di oggi) che Shakespeare avesse scritto una sola volta e per sempre le sue opere, senza nessuna variante, senza nessun adattamento dopo anni di scena, senza nessun intervento successivo a una mitica stesura primgenia, da ricercare col lanternino in mezzo ai quartos (bad o good) e all’in folio

Piano piano si è recepito che forse non tutti i bad quartos erano operazioni di pirateria, o, se lo erano, magari restituivano un testo effettivamente andato in scena, e non quell’accozzaglia aulica e poetica, di 4 ore a botta, che spesso veicolano sia i good quartos (quello di Richard III, il Q1, è l’opera teatrale più lunga che sia mai stata scritta in lingua inglese) sia l’in folio

e poi ci sono state le analisi sistematiche, anche archeologiche, che hanno evidenziato anche per Shakespeare quello che era già evidente per il professionismo attorico cinque-seicentesco fuori dalla Gran Bretagna: cioè un sistema di bagaglio, fatto di parti, scene, o interi monologhi, che potevano essere ripescati, ricombinati e riscritti a seconda delle esigenze delle diverse piazze: perché alludere a questo o quel personaggio vivente in una città in cui costui è sconosciuto? perché continuare a parlarne quanto costui è morto e non lo conosce più nessuno? perché ostinarsi a mantenere un lungo monologo se un nuovo attore, o un sostituto, non era capace di sostenerlo? in un edificio teatrale all’aperto che non permetteva quasi mai una rappresentazione più lunga di 2 ore (e gli stessi prologhi di Shakespeare, nello stesso in folio, confermano tale tagliola di durata)…

Il dramma è che, dal Seicento fino alla valorizzazione di queste scoperte, Shakespeare ha circolato, bene o male, con edizioni pressoché identiche a quelle del Seicento, o del primo Ottocento, che mettevano insieme il testo dell’in folio con tutto il resto…

…sono le edizioni conflated

In Italia solo dal 2000 sono apparse edizioni che, per lo meno, hanno fatto riferimento al solo in folio (le Revised editions di Oxford, per esempio, oggi alla base dei costosi testi cartonati Bompiani curati da Franco Marenco, del 2014 e successivi), relegando in appendice le lezioni dei quartos (bad o good che fossero): un comportamento che comunque restituisce le aporie dell’in folio, un libro che, probabilmente, rappresenta solo e soltanto quel bagaglio di roba da tagliare e cucire alla bisogna, e perciò un testo che era di lettura, di controllo, invece che di uso teatrale, e, meno che mai, era un testo scenico

solo rare sono state le edizioni dei testi pirata dei bad quartos, spesso più corti, o anche più lunghi ma scenicamente più scorrevoli, pieni di errori, letterariamente atroci, ricchi di anacoluti, probabilmente ricomposti dalle memorie zoppicanti di attori poco remunerati che, stampando o trafugando tali testi, pensavano di poter guadagnare qualcosa rivendendo il plays di Shakespeare (o il play anonimo, visto che sono tutto sommato pochi i titoli delle stampe pre-1616 che dichiarano apertamente l’autore come Shakespeare) al miglior offerente, anche se era un mercato spesso inutile perché, se non qualche appassionato, o qualche compagnia concorrente, o qualche attore viandante, nessuno davvero comprava davvero un testo teatrale a quei tempi (ancora oggi diversissimi testi teatrali NON vengono pubblicati)…
e sono rare le edizioni dei bad quartos anche se, molte volte (tipo per il Q1 di Richard III) manco erano edizioni pirata, ma testi composti manoscritti dalla compagnia stessa di attori, e finiti in stampe piratesche per caso, per trafugamenti fortuiti (o magari stampati proprio per esigenza scenica, perché no, dato che nessuno davvero comprava i copioni: la stampa poteva uniformare nomi e grafie come il manoscritto non poteva, ed era meno predisposto alle involontarie cancellature), ma forse *veramente* riferiti a ciò che gli attori stessi avevano effettivamente recitato !
bad quartos che forse proprio per tutti i loro atroci difetti, e magari involontariamente, sono la prova fotografica di quanto andato *davvero* in scena…
anche perché, a differenza dei good quartos, o dell’in folio, i bad quartos sono anche pieni di didascalie precise, di divisioni in atti e scene molto più funzionali rispetto alle farloccate seicentesche (e dell’in folio, che, spesso, inizia a ripartimentare, ma poi sbaglia il conteggio delle scene, visto che si hanno spesso scene seconde non precedute da scene prime), e hanno un linguaggio diretto e sanguigno, alieno dai giochi di parole dei good quartos e dell’in folio, molto spesso intuibili solo alla lettura (evidenza della loro natura eminentemente libraria invece che teatrale)… e la loro diffusione è spesso discontinua a seconda della diffusione della piéce e di quanto gli attori praticassero quella forma specifica veicolata dal quarto: del Q1 di Hamlet, per esempio, sono sopravvissute solo 2 copie, ma molte ristampe hanno avuto i good quartos di Richard III, Much ado about nothing e Romeo & Juliet: ma anche la scarsa diffusione, spesso, cristallizza un effimero probabilmente autentico, prima di qualsivoglia rispulizzimento letterario…

in Italia, io credo di aver visto l’edizione di un bad quarto solo nel Primo Amleto di Alessandro Serpieri (Marsilio, 1997, poi riedito con commento ampliato nel 2001), un traduttore che poi (dopo aver dato a Gabriele Lavia una traduzione scenica, pubblicata da Feltrinelli nell”80) ha anche tradotto l’Hamlet di Q2, cioè il good quarto più lungo, di 4h, due in più delle 2h che i testi stessi dicono di durare…

Per il resto, tra le collezioni più diffuse in libreria:

  • le edizioni Rizzoli derivano molto spesso dalle traduzioni e sistemazioni conflated operate dal povero Gabriele Baldini negli anni ’50 per la BUR, con, perfino, didascalie «a sé» aggiunte da Baldini (non lo dichiarava, ma Tonino Accolla, nei suoi doppiaggi dei film shakespeariani degli anni ’90 e ’00, che non furono pochi, si rifaceva molto spesso alle traduzioni di Baldini, ecco perché Beatrice, Emma Thompson in Much ado about nothing di Branagh del ’93, doppiato da Accolla, non impazzirà, sottinteso d’amore, «a meno che non nevichi in agosto», invece che «a meno finché non arriverà un gennaio caldo», come è in inglese [cioè nel good quarto e nell’in folio], e come leggono quasi tutti gli altri traduttori [Nemi D’Agostino legge «finché il mondo non andrà a rovescio»])…
  • la diffusissima impresa Tutto Shakespeare condotta da Garzanti, diretta da Nemi D’Agostino in tanti anni (almeno dal 1984, dal 1994 passata a Sergio Perosa), è raro che non presenti un’edizione conflated, anche se ha spesso più che buoni saggi introduttivi che informano almeno sulla forma dei quartos (il dramma è che, a parte qualche aggiornamento bibliografico, le introduzioni attestano uno stato degli studi fermo a 30 anni fa)…
  • dal 1976 in poi, e sempre aggiornando finché è campato (cioè fino al 2009), Giorgio Melchiori ha curato i Meridiani Mondadori di Shakespeare, e Melchiori era un grande sostenitore dei quartos quanto un severo denigratore delle traduzioni conflated: certamente sono edizioni che sanno quello che traducono…
  • il Mammuttone NewtonCompton del 1990 e poi 2009 mette insieme traduzioni sapienti a letture del tutto tradizionali (molte volte simili a quelle che Baldini aveva edito per Rizzoli negli anni ’50 per la BUR), e non specifica quasi mai cosa traduce: ma si evince che la maggioranza delle traduzioni è ipersonicamente conflated
  • le imprese di Agostino Lombardo per Feltrinelli e NewtonCompton (che però nel Mammuttone conserva solo il suo King John), degli anni ’90, hanno quasi sempre rifuggito l’approccio conflated ma hanno altresì privilegiato i testi più lunghi disponibili (molte volte seguendo il medesimo metodo delle edizioni Oxford), e cioè, molto spesso, l’in folio (o i Q2 di Hamlet e Romeo and Juliet, per esempio: non mi risulta che il povero Q1 di Romeo & Juliet, l’unico che davvero duri le 2h che lo stesso Romeo & Juliet comunica di durare in Q2, sia mai stato tradotto in italiano: si è tacciato di non idoneità autoriale solo perché si conoscono coloro che lo piratarono)… il dramma di queste edizioni è che quasi mai presentano introduzioni o note al testo puntuali: certe volte dichiarano cosa traducono solo per accidente…
  • nel 2014, Franco Marenco traduce (anche se aggiorna pressoché tutte le introduzioni) per Bompiani le Revised editions di Oxford, quasi sempre, come Lombardo, prediligendo o l’in folio o i quartos più lunghi: rispetto alle Feltrinelli di Lombardo, tale colossale e costosa edizione presenta un sacco di testo alternativo in appendice, poiché la spesso oltranzista adesione all’in folio fa perdere monologhi spesso molto ghiotti per l’attore e letterariamente sommi per il lettore, per esempio l’ultimo monologo di Hamlet (presente solo in Q2)… tutto sommato, però, per avere un’idea, in italiano, di ciò che Shakespeare “è”, è una ottimerrima edizione…
  • dal 2024, Guido Paduano, Sergio Perosa e altri ripropongono nuove traduzioni shakespeariane per la Quodlibet di Macerata: benché il taglio delle traduzioni possa dirsi diverso da quelli passati perché si attesta su una pretesa adesione fonica al testo (cioè si industria per rendere in italiano gli effetti sonori che Shakespeare usa in inglese), e nonostante l’ammontare dei saggi introduttivi sia super all’avanguardia, il comportamento filologico di Quodlibet è però sempre lo stesso, cioè il privilegiare le versioni più lunghe, cioè di nuovo l’in folio o i quartos monumentali… anche qui, però, la puntualità delle note al testo, e l’onnicomprensività di approcci dei saggi introduttivi, destano meraviglia…

Per cui, andare a vedere uno Shakespeare, o anche semplicemente leggere Shakespeare, in Italia, vuol dire godere di un testo che è stato reso letterario a partire dall’in folio (composto 7 anni dopo la morte di Shakespeare), e che per esigenze di sacralità filologica, disperata di acciuffare una autorevolezza a tutti i costi, ha optato per testi ritenuti più testi, cioè quelli lunghi e ampollosi dei good quartos e dell’in folio

Antonio Latella, per il suo Riccardo III dichiara una traduzione di Federico Bellini, con adattamento di Bellini e Latella…

proprio quel Riccardo III il cui bad quarto, il Q1, è il testo teatrale più lungo mai scritto in lingua inglese…
ma Latella e Bellini non dicono cosa hanno tradotto, se si sono affidati all’immenso Q1 o se hanno optato per il letterarissimo in folio, che è quasi 1/6 del Q1, ma che mantiene un sistema di versi coerente (a differenza di Q1), e un lessico molto più aulico rispetto a Q1 (tanto da far pensare al testo dell’in folio come, addirittura, a una “prima bozza”, rimasta nei bauli della compagnia e tirata fuori nel 1623 giusto per motivi economici)…

non si sa…

fatto sta che il loro è un Richard III di 2h 40′, che fa a botte con l’azione e con il significato da dare a quell’azione…

Gli attori si infiorettano di gigioneggiare con i monologhi gorgheggianti e sublimi, molte volte declamando sapendo di declamare, sì manifestando attimi di mimesi emozionale (nel dolore e nella disperazione), ma sempre mantenendo l’idea di stare recitando, senza quasi nessuna immedesimazione gestica del corpo…
come in Wonder Woman, il più delle volte gli attori stanno uno accanto all’altro, paratattici, in linea col proscenio… o sono tutti in scena, con taluni, ogni tanto, in piedi sul fondo per non partecipare, o seduti a bella vista ai lati del palco, visibili per l’assenza di quinte…
sono vestiti soprattutto come figurine cavalleresche, forse cinque- o settecentesche, carini, colorati di coloretti pastello (i costumi sono di Simona D’Amico)…

un giardino di fiori finti, dominato da un albero finto, nella cui apertura nel tronco si può entrare, fa da scena immobile (di Annelisa Zaccheria)

sul fondo un plateale sistema traslucido di proiezione: un sipario apparentemente trasparente, che copre un altro sipario, pastello, di sfondo (quando gli attori sono sul fondo si posizionano tra il drappo pastello e il trasparente)…

tutti in scena e tutti a declamare un Riccardo III che fa pianti e rabbie artefatte, di cartone, completamente intellettualistiche…
non c’è azione teatrale, c’è riflessione smorta di un testo declamato, quasi preso in giro…

i girotondi di morte, iperbolici nel testo, vengono quasi canzonati…

le incongruenze di trama vengono individuate ed enfatizzate, con risate di chi si palesa essere attore

un teatro che è meta teatro, molto radicale…

…che alla fine pare additare la banalità del male rappresentato come inutile pagliuzza di un’esistenza finta e presa in giro, e che fa del servetto-sicrario di Riccardo, l’unico che sopravvive, ridendo, in mezzo ai cadaveri di tutti gli altri, la metafora di una morte che è anche la morte stessa di stare, per l’ennesima volta, riproponendo un testo inutile, fintissimo, cartepestoso come la scenografia di fiori finti, e palesato come ninnolo di modellismo dalla macchina del fumo che dall’alto scende a farsi visibile al pubblico (ancora sottolineando la falsità di quanto stiamo vedendo), e dall’audio di uccellini fastidiosi fatti tacere e cantare a comando…

un testo che invece di comunicarti, anche fumettisticamente, l’inutilità della sete di potere, l’atrocità gratuita della violenza (vedi gli esempi del passato con i Riccardo III nazisti, i Riccardo III come Gheddafi, i Riccardo III incattiviti dalla presa in giro del bodyshaming: i riferimenti alla gobba e alla zoppia del personaggio permangono nel testo, ma il protagonista Vinicio Marchioni ne denuncia la vacuità rimanendo sempre dritto e muscoloso, con solo un indeterminato “dolore alle spalle” ad affliggerlo), sembra comunicarti l’assurdità stessa di mettere in scena un testo simile, così aulico e facilmente metaforico, nel 2025…
…sembra uno spettacolo che denuncia i benpensanti tentativi di fare Riccardo III come qualcosa di attuale come inconsistenti, perché ne palesa la intrinseca falsità, evidente in tutto, dalla impostazione scenica all’affettazione della recitazione…
…una fintezza che si prende in giro rivelandosi priva di senso, con la pazza risata del sicario, anche lui probabilmente un automa scenico che ride a comando, come gli uccelli cantano registrati e come la macchina del fumo scende per fintezza

cosa vuol dire?
che siccome la violenza c’è per davvero, e sempre ci sarà nell’esistenza fallace, allora denunciarla con uno spettacolo finto è una cacchiata?
che perdere 2h e 40′ a vedere un testo aulico è da idioti automi?
che noi tutti, vittime della violenza, altro non siamo che automi scenici in un teatro della vita, vanesio, vanitoso e vacuo?

ognuno potrà vederci quello che vuole

a me l’impostazione intellettualistica e di sfoggio di fintezza, senza che si accompagni a una riflessione sulla natura stessa della fiction nell’esistenza (che sono d’accordo anch’io essere inutile), mi ha fatto sentire un po’ preso in giro…

la gestica frontalistica, anti-mimetica, paratattica, anti-narrativa, da pannello artistico cinquecentesco, da pala d’altare immobile e allegorica invece che scenico-attiva, mi ha molto annoiato…

le risate antifrastiche sulle morti, i girotondi sui discorsi di ipocrisia, i tentativi di essere meta-testo, con la consapevolezza recitativa degli attori, non mi hanno coinvolto, né brechtianamente svegliato: mi hanno solo dato l’idea di assistere quasi a una involontaria parodia del teatro contemporaneo…
oppure al teatro contemporaneo come è descritto dai detrattori: un ammasso di battute poetiche, cadenzate, da libro stampato, con la dizione puntualissima, che allontana il testo nell’altrove del fonico, del broadcast, che ti dice che la vita è una mmerda perché tutto è finto e ti prende quasi in giro per aver pagato qualcuno che ti dicesse che la vita è una mmerda tramite il finto
ed è anche come se ti dicesse «istruirsi è inutile, tanto si muore e tutto è finto, ma intanto te lo dico con un sistema di battute allegoriche che posso capire soltanto io che sono cólto, e tu che non le capisci sei un imbecille… e lo penso profondamente proprio mentre ti dico che istruirsi è follia perché tutto è finto…»

uno spettacolo odioso

però tutti bravi a farlo eh: non sia mai che manchi di rispetto a dei poveri attori (Silvia Ajelli, Anna Coppola, Flavio Capuzzo Dolcetta, Sebastian Luque Herrera, Luca Ingravalle, Giulia Mazzarino, Candida Nieri, Stefano Patti, Annibale Pavone, Andrea Sorrentino) e tecnici che lavorano!

Anche se il loro sforzo non ha invogliato tanti ad andare a teatro: la Pergola ha chiuso la galleria per i pochi biglietti venuti…

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