«Baron Prášil» [The Fabulous Baron Munchausen] di Karel Zeman, 1962

Zeman è davvero una sorta di Méliès cèco… anche se ha lavorato almeno 50 anni dopo di lui…

sebbene il suo sia effettivamente cinema istituzionale, con il suono, i dialoghi e un montaggio che lo rende totalmente narrativo e grammaticale (e grammaticato), ancora, ben 50 anni dopo l’istituzione (quando il concetto di sequenza diventa di massa, cioè dopo il 1915), notiamo in lui la risacca del primitivo, appunto di Méliès…

come ancora si vedono i retaggi di un tempo privo della sequenza nei Vampires di Louis Feuillade (’16), e come ancora si vede che la sequenza si sente più che vedere nei Topi grigi di Emilio Ghione (serial distribuito tra il ’16 e il ’18), in cui la sequenza sembra un'”esigenza” che ancora non si padroneggia (come non si padroneggia per nulla, ma si sente essere necessario, il sonoro in certi kolossal del ’25 o del ’27, come quelli di Merian Cooper, tipo Grass e Chang), e come si avverte, tra le Avanguardie, per tutti gli anni ’20 (con Murnau, Dreyer, Ejzenštejn, Vertov, Clair, L’Herbier e tanti altri), il sogno di un cinema che potesse essere qualcos’altro invece che una macchina narratrice, qualcosa più connesso con l’arte teatrale, con la pittura e la musica, invece che con la letteratura, in cui un narrato forse c’è, ma non è l’elemento portante, così nei film di Karel Zeman si avverte un sentimento liminale, di confine, tra un mezzo espertissimo di più 30 anni di suono e di visione e un desiderio di negare quei 30 anni, non per senso reazionario o retrogrado, ma per esplorazione di altri mezzi espressivi, considerati sorpassati, fuori dal tempo, ma che si prestano perfettamente a stupire e a fare spettacolo, con un senso della magia e dell’incantesimo forse anche più potente dei sistemi state of the art

così come Paul Hindemith, dal 1920, si mise a fare contrappunto polifonico proprio nel momento in cui tutti quanti davano per morta l’armonia tonale, perché esaurita e superata da decenni (almeno dal 1865, dal Tristan-Akkord, secondo i retori dell’avanguardia), costruendo magie solo per certi versi retro
così come Igor Stravinskij, ancora nel 1920, si divertiva a far squillare come nuovi gli stilemi settecenteschi, in un mondo che lo derideva di scherzo (proprio lui che aveva di molto contribuito, dal 1907 al 1913, a scardinare proprio quell’esattezza settecentesca con l’atonalismo più bruto)…
e, per restare al cinema, così come Federico Fellini o, più organicamente, Jacques Tati, reagiranno a quello che diventa un obbligo del colore, iniziato dal 1950 (da quando Kodak inventa l’Eastmancolor, la prima pellicola 35 mm capace di costruire colori da negativo a positivo con costi ridottissimi, distribuita a livello super-economico), rifiutandosi fino all’ultimo di aderire a quella che, lentamente ma inesorabilmente, diventava prassi (Le tentazioni del dottor Antonio, in Boccaccio ’70, girato con Otello Martelli, del ’62, precede di 3 anni Giulietta degli spiriti con Gianni Di Venanzo: dai 10 ai 13 anni dopo il Totò a colori di Steno: tanto è durata la resistenza di Fellini; Tati lotterà più a lungo, tanto che Playtime, del ’67, è sì a colori, ma è tutto costruito sul nero e sul grigio!)…

…in queste stesse maniere, Karel Zeman resiste facendo un film che guarda al primitivo, senza davvero esserlo…

perché, esattamente come Hindemith e Stravinskij, Fellini o Tati, Zeman non è che reagisce, anteponendo il vecchio alle novità… è solo convinto che certe storie si possano raccontare solo a livello teatrale, di spettacolo… come se la fiaba e la peripezia iperbolica di Munchausen si potessero realizzare solo con la fintezza esibita invece che negata, con il macchinario in vista invece che nascosto, con un cinema che è crinolina e cartapesta, che è palcoscenico e diapositiva…

Baron Prášil, però, non è che possa essere visto come un’operazione completamente avulsa dal suo tempo, come è un lavoro per certi versi analogo, come One from the Heart di Coppola (’81): è più come il Dracula dello stesso Coppola (’92): un film che neanche recupera ma volutamente usa scientemente espedienti particolari, considerabili del passato, per adattarsi al raccontato…

…mentre Zeman fa Baron Prášil, nel 1962, né Mario Bava (in contemporanea) né Michael Powell (20 anni prima) facevano cose tanto diverse, a livello di effettistica e di elaborazione dell’inquadratura fantastica: usavano gli stessi mascherini, le stesse sovraimpressioni e le stesse luci di Zeman, ma Zeman sa che quello che usa è teatro: non è mezzo per ottenere un verosimile, ma è aggeggio per palesare la finzione!

se paragonato al sapientissimo uso che Powell & Pressburger fanno sia delle sovraimpressioni sia dei mascherini, in modo più “verosimile” in Black Narcissus (’47) e in maniera più “onirica” in Red Shoes (’48), si capisce che l’idea di Powell è comunque stupire per vicinanza col reale (e succede anche nelle operazioni più fantastiche, tipo The Thief of Bagdad, ’40) invece che per ostentazione della scena…

…forse il Powell dei Tales of Hoffmann (’51) si avvicina all’idea di Zeman, ma Zeman ha in più la consapevolezza della frontalità della macchina da presa, il senso dell’inquadratura usato come trucco del prestigiatore, un modo di cinema che è magia, prestidigitazione…

in Powell e Bava non si avverte il fatto che un primo piano possa essere solo e soltanto una testa grande, più grande delle altre che lo contornano…
…in Baron Prášil questa cosa è possibile, con un recupero davvero vertiginoso proprio di Méliès!

e ciò non è né per recupero né per omaggio, ma è, secondo Zeman, il solo modo per parlare di fantasia, di amore e di galanteria guascona, di avventure e di cappa e spada!

il mondo cavalleresco e picaresco di Munchausen ispira a Zeman un teatrino di cartapesta di bambini, un modo piccolo di pesci di legno, di quintatura sovrapposta, di acqua tinta, di puri e semplici viraggi colorati che appaiono come cromature di tempera più che come processi fotografici, in cui i personaggi, quasi ritagli di cartone, si stagliano con una eleganza che anticipa e sorpassa i green screen, o i set virtuali di là da venire ma stranamente congruenti con l’impostazione di Zeman (ancora Tron di Lisberger, ’82, con il suo colore “distinto” dal bianco e nero, ha una somiglianza con Baron Prášil)…

in questo teatrino la macchina da presa sembra solo un occhio per mostrare l’azione, solo un punto di vista su cui però basare ogni cosa: in ossequio al punto di vista della macchina da presa si centrano le quinte e si spazia l’acqua tinta: in ossequio alla macchina da presa si allestisce lo spettacolo, si costruisce il fondale, si proiettano gli ambienti che paiono pregirati

in ossequio alla macchina da presa si ritagliano i cavalli alati di carta e si organizza l’iconografia di Gustave Doré…

un ossequio che fa completamente coincidere la macchina da presa con lo sguardo dello spettatore ideale: una macchina da presa che quindi quasi non è narratrice ma solo spettatrice, con noi, di tutto lo show che le viene imbastito davanti!

sembra una macchina da presa, certo alla Méliès, ma anche, perfino, alla Lumière, completamente dipendente da un punto di vista privilegiato (evidente non solo nelle vedute parigine, con la gente che saluta l’operatore, ma anche, ontologicamente, nelle scenette che dimostrano che il campo visivo della macchina da presa è precipuo e obbligatorio per la scenetta stessa: vedi L’Arroseur Arrosé, del 1895, in cui l’impertinente ragazzino *deve* venire sculacciato *davanti* alla macchina presa, e solo per questo viene inseguito dal giardiniere, riacciuffato e *riportato davanti al punto di vista*)

ma appena la macchina capisce di essere solo spettatrice, solo occhio prospettico per un teatrino per lei apparecchiato, allora subito si arrabbia, e diventa lei l’azione, diventa lei stessa personaggio (i passi vuoti che si vedono all’inizio: agiti solo e soltanto dalla macchina da presa), quasi sfatando tutto, rimescolando teatro e film, primitivo e istituzionale

un po’ riflettendo il fatto che Munchausen, nonostante l’antonomasia del titolo, manco è il protagonista del film: i protagonisti sono Bianca e Tonik: innamorati fin dal primo momento, che con il loro amore sincerissimo e inestinguibile, anche in mezzo alle tante peripezie e pericoli, tornano alla luna, felici di aver sognato un’avventura nello stile guascone di Munchausen, con cui si sono baloccati senza mai cedere davvero alle fumisterie del Barone, che cerca simpaticamente di dividerli (anche se alla loro divisione non ci crede per niente)…

Bianca e Tonik, come Zeman stesso, o come la macchina da presa del film, non ci stanno ad abbandonarsi al nulla dell’inconcludente guasconeria di Munchausen (e del cinema primitivo), ma sanno che la materia della fantasia di Munchausen serve per essere felici, così come un pizzico di follia serve anche nelle più scientifiche delle imprese…
…e Munchausen apprezza tantissimo un Tonik, già cosmonauta, ma altresì vetusto antesignano della macchina a vapore, in un Settecento figurato, che tenta con le invenzioni tecniche quello che Munchausen ottiene solo con la fantasia: sogno e tecnologia sono facce della stessa impresa…
…così come cinema primitivo e cinema istituzionale: modi diversi, ma complementari e forse indistricabili, per parlare all’inconscio, ed esprimere felicità e amore…

Zeman, nel suo uso di stilemi primitivi (Méliès e Lumière, con un andamento epico, con Ringkomposition, che somiglia quasi a quello di Saturnino Farandola di Marcel Fabre, del 1913), ma con perenne consapevolezza della loro natura di trucchi e mise en scene, sembra forse parlare di modi e di ingredienti dell’immaginario, modi e ingredienti del cinema, mezzi per un fine, il fine di dare materia all’amore e ai sentimenti: un fine che giustifica tutti i mezzi, vecchi, nuovi, finti e veri, senza né distinzioni né gerarchie: tutto è autentico se l’emozione è autentica, non importa con quale mezzo è ottenuta!

Bellissima la musica novecentista di Zdeněk Liška, con bellissime reminiscenze, quasi calchi autentici, di Stravinskij come di Prokof’ev e di Mozart: anche Liška partecipa all’uso della materia, vecchia e nuova, per produrre divertimento ed emozione…

Non so se tali modalità di Zeman, negli anni ’60, possano già dirsi postmoderni (Séméiôtiké di Julia Kristeva arriva solo nel 1969), ma il neoclassicismo di Stravinskij era attivo già da 40 anni, e nel ’62 già esaurito (Stravinskij era passato alla dodecafonia nel 1952), anche se in un certo senso è rimasto permanente (nella stessa dodecafonia, e nello stesso post-serialismo, sentito come ritorno alla pre-tonalità cinque-seicentesca, per non parlare dell’eterno romanticismo musicale, ancora attivissimo nella musica per film, per esempio): Zeman è quasi uno Stravinskij del cinema (così come Franco La Polla considera Woody Allen un Gershwin della Settima arte): un giocoliere gioioso ma forse beffardo, che esprime amore e felicità di rappresentazione, ben sapendo, però, di stare fingendo…
ma se Stravinskij poi piange per tale consapevolezza, Zeman, forse è di quelli che quando sono consapevoli di stare sognando sognano anche meglio!

Purtroppo la digitalizzazione oggi disponibile (probabilmente risalente al 2017) non include circa 6 minuti di girato, come ben spiega questo sito

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