Nel bel mezzo della serie Hammer (l’ultimo film della serie, diretto da Terence Fisher, esce nel ’74), e per altri 20 anni, cioè quando esce il Frankenstein di Branagh nel ’94, è stato pressoché impossibile vedere un Frankenstein *simile* al romanzo di Mary Shelley, con il prologo di Walton e tutto il resto… anche perché nello stesso ’74 della conclusione della Hammer esce Young Frankenstein di Mel Brooks, che, pur nella parodia, eternizza l’immaginario dello scienziato nel castello che costruisce un mostro con la faccia quadrata…
fa eccezione questo piccolo film fatto in casa da Calvin Floyd, che arruolò alcune stelline britanniche (la deliziosa Stacy Dorning, vera anteprima della Helena Bonham Carter del ’94, e Nicholas Clay) guidate dal protagonista assoluto Leon Vitali, che dopo Barry Lyndon (’75) si sapeva essere diventato amico personale e assistente di Kubrick e quindi aveva il potere di trovare denaro e attirare pubblico…
Terror of Frankenstein o Victor Frankenstein è girato tra Barry Lyndon e Shining (’80) di Kubrick, e si vede essere una velleitaria operazione di ossequio ai metodi visivi e adattatativi di Barry Lyndon…
Calvin Floyd lavorava in Gran Bretagna ma era svedese (il film stesso si è prodotto in Irlanda e Svezia), cosa che ha portato molte maestranze svedesi nel film, tra cui il grandissimo professionista Tony Forsberg, che ha girato questo Frankenstein con John Wilcox, serissimo cinematographer, collaboratore di Freddie Francis e Freddie Young…
Il loro intento di replicare Barry Lyndon è evidente: ci sono scene a lume di candela, o illuminate solo dal fuoco, oppure inquadrature impostate sul buio, con poche fonti luminose, come lampade e torce, con l’intento di replicare se non di imitare le luci naturali di Kubrick, pur non avendo le sue componenti tecniche (di certo Floyd non disponeva né delle cineprese adeguate né delle lenti Zeiss capaci di impressionare la pellicola con pochissima luce)…
Un intento però aggiornato al tempo, il primo Ottocento invece del Settecento, che cerca più Constable che Gainsborough negli esterni (i colori sono evidentemente debitori di Richard Parkes Bonington), e più Goya che Hogarth negli interni…
Floyd ha adattato il romanzo di Shelley con la moglie, Yvonne Floyd, e, a mia conoscenza, è forse il primo che fa vedere al cinema Walton e la storia del Polo Nord…
e nella gestione della trama, puntare su un Frankenstein assolutamente solitario, pressoché totalmente silenzioso (sono pochissime le battute di dialogo), che fa tutto senza assistenti, con mezzi di fortuna, in ambienti sdruciti, e che si logora nel tempo, denota ulteriormente una voglia di rifare Barry Lyndon nel senso di seguire un’autodistruzione di un personaggio…
Questo tipo di adattamento, scarno e asciutto (neanche 90 minuti), segue bene Mary Shelley, e, con la particolare gestione visiva, mostra benissimo la grana oscura e primo-romantica della trama: gli interni goyeschi sono eccellenti nel suggerire l’aberrazione della creazione, quasi come i paesaggi sereni ma sporcati dal nervosismo di Bonington, e Vitali, passionale e psicologico, teatralissimo nella disperazione (ripeto, quasi senza ausilio di battute e verbalizzazioni), dà un corpo assai efficace al senso di colpa del romanzo…
Il mostro, interpretato da Per Oscarsson, è solo leggermente mostruoso: è una persona standard con uno sguardo più infelice…
e Floyd non taglia la crudeltà assassina e vendicativa del mostro, così come non tace del tentativo, doppiamente aberrante, di fargli una sposa: il tutto proprio mentre costringe a provare pietà per la creatura…
invece di fare un mostro da subito buono e figo (come Elordi), buono solo per il marketing, Floyd mantiene il concetto di monstrum, di senso di colpa inestinguibile che tormenta, e mantiere il buio filosofico della vita non come dono ma come maledizione, sancito dalla morte naturale di Frankenstein che non lascia al mostro neanche la soddisfazione malata della vendetta… un mostro che diventa, quindi, perfettamente la metafora dell’umanità tout court, insoddisfatta e costretta a vivere un’esistenza non voluta, solitaria (con la sposa che, come nel romanzo, non viene creata), con pulsioni di violenza innate e incomprensibili, e con una squalificazione estetica casuale ma tremendamente dolorante…
Vitali, Floyd e Oscarsson, con pochissimi mezzi, ma con argomenti artistici degnissimi, hanno, forse per primi, adattato per il cinema il capolavoro di Shelley (purtroppo rimasta Shelly nei titoli iniziali ricchi di refusi anche nei nomi dello stesso cast) quasi alla lettera (benché manchi tantissimo, tipo tutta la parte di Justine), illustrandone le sue connessioni artistiche con il Settecento e lo Sturm und Drang (le musiche, di Gerard Victory, per andare dietro a Stamitz, Gluck, Kraus o Vanhall, risultano purtroppo un pochino invadenti: sono eseguite in pompa magna da quella che oggi è l’orchestra nazionale irlandese, quella di Vaughan Williams), ed esemplificando l’angoscia tribolante del senso di colpa, del dolore del non poter mai rimediare, dello strazio della vendetta e dello strazio odioso della stessa esistenza…
Non c’è dubbio che un adattamento simile comunica molto di più delle atrocità di Shelley della ricchissima e traviante operazione di del Toro, che rendendo il mostro totalmente positivo, squalifica qualsiasi argomento…
L’ho visto e ammetto di averlo apprezzato molto. Sì, si vede che il regista ha amato profondamente Barry Lindon e questa peculiarità arricchisce la storia di Frankenstein. E ho apprezzato in generale la messa in scena e la fedeltà alla storia di Shelley. Per me è stata una bellissima sorpresa.