Il «Frankenstein» di del Toro

Il suo sacrosanto parlare contro all’Intelligenza artificiale (però assai diverso dall’assertività di Miyazaki, anche metafisica, tale per cui l’IA è contro la vita) non garantisce a del Toro la capacità di usare l’intelligenza umana nei film, visto che li fa quasi tutti uguali e dall’aspetto, come minimo, assurdamente plasticoso e gommoso…

Mi ricordo, 30 anni fa, le critiche alla fintezza del Frankenstein di Branagh, a cui si opponeva lo stesso Coppola che aveva messo i soldi… se là Tim Harvey si instradava in una situa meta-narrativa, garantita anche dai vertiginosi piani sequenza di Roger Pratt, risultando sì esagerato e posticcio, ma con una valenza meta-poietica (il cinema e la narrazione che si mostravano) tutta da leggere, qui, la solita Tamara Deverell, coi soldi che le escono dal culo, costruisce set con il complesso di inferiorità rispetto a non si sa cosa, set che devono essere più grossi, più luminosi e più strani di altri… per nessun apparente motivo, se non, appunto, la fobia, pienamente giustificata, che qualcun altro abbia fatto meglio…

un complesso di inferiorità che avrebbe chiunque fosse consapevole di stare facendo un librino illustrato invece che un film…

lo schema visivo di del Toro e del fido Laustsen è quello di creare bellissime immagini, di una impagabile iconografia gotica, senza che mai, a parte due e o tre cenni di specchi e di lastre fotografiche, o due o tre cenni in sceneggiatura sugli occhi morali dell’anima, si immetta il cinema sul tavolo da gioco, si palesi il cinema in quelle belle immagini…

quel grande narratore per inquadrature, che in The Shape of Water sapeva far affiorare dettagli e particolari diegetici nella danza della macchina da presa, torna al tutto scena e poco arrosto che erano Crimson Peak e Pacific Rim, e le cose che riesce a dire sgocciolano malamente di noia dell’inutile…

quel cinema che, nella scena della creazione, era montaggio vertiginoso, fondante la creatura di Branagh, diventa teatro filmato, con, indigeste e soporifere, allegorie cristologiche e bibliche: naturalmente, il mostro impara dalla Bibbia, non sia mai che impari da qualcos’altro…

nel fare questo, del Toro è anche convinto di fare una genialata: perché fa finire il suo mostro non nell’abiezione pietosa per lui e, uguale e contraria, nell’impossibilità della redenzione per Frankenstein, come hanno fatto tutti, ma decide di far finire ogni cosa nel tarallucci e vino della pietà reciproca, con lo scienziato che quasi si redime (bella cacchiata) e col mostro che perdona e che decide di fare il buono e di vivere nell’infelicità che è esattamente il destino di cristo e dei rincoglioniti dei cattolici, secondo cui più vivi di merda una vita eterna (visto che ti impediscono anche il testamento biologico: e del Toro gratifica il suo mostro della vita eterna alla Wolverine evidentemente solo per questo motivo spregevolmente cattolicoso) e più è meglio… meglio per non si sa chi, anche se sicuramente non per te, a meno che tu non ti autoinganni con la stronzata della fede…

questo in barba ai sentimenti di vero anti-cristianesimo di Shelley, che al mostro fa leggere sì Paradise Lost (come mantiene del Toro) ma non si sogna neanche lontanamente di fargli leggere la Bibbia (nel romanzo, il mostro legge le vite di Plutarco e il Werther di Goethe: un’educazione letteraria Romantica, non cristiana), che nel romanzo viene invece incarnata dal prete confessore rimbecillito che convince la povera Justine a incolparsi di un infanticidio da lei non commesso, con Justine che viene impiccata a causa proprio della Chiesa e della Bibbia…
…diciamo che del Toro ha un po’ rovesciato il nocciolo del romanzo…

ed è un male?

non lo sarebbe se del Toro avesse una coerenza…

ma le cose che del Toro cambia rispetto a Shelley, coerenza non ce l’hanno manco da lontano…

il trasferire la vicenda al secondo Ottocento serve per avere le lastre fotografiche, che però non aggiungono nulla né alla trama né al discorso visivo: mai che il mostro diventi cinema (come era perfino Boris Karloff, nel lontano 1931), o che le comode inquadrature si sognino di creare almeno qualche falsa soggettiva, magari basata proprio sulle lastre fotografiche: sia mai!…

il trasferimento temporale, nel contempo, sconnette la grande idea di Shelley di scorticare la filosofia illuminista con una atroce reazione romantica irrazionale nella pulsione psichica del mostro: cose di cui del Toro non sembra curarsi in nessun modo, non mietendo nessun corrispettivo ottocentesco a queste risorse: non parla mai neanche di Positivimo, per esempio…

è un cambio di data che da una parte non serve a niente e dall’altra quasi rovina il costrutto della trama, che, privata dello scontro tra razionale e irrazionale, perde tanto mordente…

le figure aggiunte di Charles Dance e di Christoph Waltz non hanno alcun senso drammaturgico, e difatti muoiono così come sono nate senza avere alcuna conseguenza: i tarli edipici che Dance avrebbe dovuto portare non vengono linkati in nessun modo alla maniera in cui Frankenstein tratta la sua creatura, e le perorazioni di Waltz sul mito di Prometeo volano gratuite (ennesima prova che certi registi rimangono al titolo e mai alla sostanza delle loro fonti: del Toro legge Modern Prometheus nella copertina e invece di capire che Prometeo è l’azione perpetrata dallo scienziato, che quindi non merita alcuna redenzione ma solo martirio eterno, cita il mito di Prometeo in un personaggio inventato mentre per lo scienziato apparecchia salvezza di perdono)…

nel film di del Toro ci sono le solite stanze riccamente arredate di ammennicoli di cartapesta genericamente gotici, privi di vera conoscenza (mai che si facesse una citazione pittorica davvero dotta: quello di del Toro è il gothic dei disegni infantili e non il travaglio ancestrale e numinoso dell’inconscio dei veri gotici autenticamente romantici, quelli che soffrivano per titanismo egosintonico ed egoisticamente interiore, rovello di mente che si autopunisce eternamente, e non sofferenza agita per trasognata e baciapile redenzione), tutte belle sontuose di fasci di luce, di tramonti spettacolosi, di verdognoli prodigiosi che non servono a un cazzo se non a masturbarsi con la macchina da presa, e le solite bambolone pre-raffaellite che, dopo aver ballato un bel valzerino con un uomo (vedi quanto fanno Mia Wasikowska e Tim Hiddleston in Crimson Peak), si trovano a voler scopare con un mostriciattolino perché quel mostriciattolino è in realtà Jacob Elordi con tre graffi sulle guance…

il personaggio di Victor, malamente incarnato da Oscar Isaac, non vive nessuno dei sensi di colpa inestinguibili che lo scienziato vive nel romanzo e in altri film (e del Toro taglia tutta la delusione per una vita che poteva valere qualcosa, per ricchezza e fortuna, che invece è stata rovinata dalla sete di supremazia mortifera: a Oscar Isaac non gli viene rimproverato quasi nulla, se non un accennetto da parte di un fratello che manco muore per sovrimpressione di colpa, come si converrebbe)…

Mia Goth, oltre a voler scopare con Elordi (come tutte le donne del mondo), non ha alcuna valenza della reiterazione diabolico-patologica della creazione della sposa (un plot di corollario che era interessantissimo in Shelley e che del Toro ha visto bene di tagliare), né incarna la voce della ragione come era la Elizabeth di Shelley (e il renderla NON la sposa di Frankenstein ma una semplice tresca impiastriccia ancora di più l’andazzo), e sta lì a fare l’indossatrice degli inverosimili costumi (della solita Kate Hawley), che il trasferimento all’Ottocento rende la solita sequela di crinoline svolazzanti assolutamente ridicole e di cappelloni circensi che piacciono a del Toro dai tempi di Nightmare Alley… e lasciamo perdere i suggeriti drammi edipici, con Goth a fare anche la mamma defunta dello scienziato, suggerimenti così lasciati andare (la trama non quaglia neanche nel dare corpo vero a questo innunendo) da risultare più che ridanciani…

il tutto con la solita, insopportabile, tendenza di MERDflix a fare un telefilm…

nonostante illustri metà del romanzo di Shelley, questo film di del Toro dura comunque 2h e 30′, e vengono aggiunte pletoriche scene con Walton (tramutato in un olandese: e viene meno anche la stoccata al colonialismo britannico che Shelley tirava alla perfezione: nel Settecento, San Pietroburgo era relativamente “nuova” e Archángel’sk godeva di nuova fama visto che Vitus Bering accertò quanto fosse grosso il culo della Siberia solo nel 1730, smentendo le misurazioni di 80 anni prima e quindi rendendo pressoché suicide le spedizioni di poco successive: quella di Walton nel romanzo è effettivamente una cieca spedizione, forse fatta addirittura prima di Bering: il trasferimento temporale non fa il minimo cenno ai tentativi europei di completamento della navigazione di nord-ovest, effettivamente tentati nell’Ottocento ma effettuati completamente solo da Adolf Erik Nordenskiöld nel 1879-’80), Dance e Waltz che fanno episodi staccati, spesso anche meri pretesti per costruire ancora più plastica (vedi il tupè del sifilitico Waltz, sfoggiato senza alcuna importanza diegetica), in una divisione in due capitoli che non finiscono più, e appaiono anche più lunghi perché inondati da una zuccherosa e stucchevolmente melodiosissima musica di Alexandre Desplat…

quindi, che dire?

a me è sembrato una merda, coi set che sembravano carri del carnevale di Viareggio

e distorce il Frankenstein di Shelley non per raggrumare qualcos’altro di interessante, per riflettere sulla bruttura del mondo moderno, o per ricomporre una vicenda che valga qualcosa, ma lo distorce solo per annoiarci con una sorta di biografia sacrale di quell’imbecille di Madre Teresa di Calcutta (tale sembra il sacrificante ma sorridente mostro nel finale, con un sol dell’avvenire che è sofferenza non titanica ma solo sofferenza, accettata per psicolabili segate di misericordia)… lunga 155 minuti costituiti di cappelloni, di rivoli trameschi inutili e di placido découpage classico, liscio come l’olio, di una raccapricciante comodità televisiva, con le inquadrature che si masturbano da sole della propria ricchezza ostentata, obbrobriosamente priva di significato se non il loro stesso narcisistico onanismo…

non dico che del Toro non abbia la libertà di fare quello che vuole con la materia di partenza, ci mancherebbe… ma siamo davanti all’ennesimo capolavoro iconoclasta e immortalmente inconscio di una donna, assolutamente intrippante ancora dopo 215 anni, che viene annacquato e deturpato di morale cattolica uguale a mille altre da un maschio etero basic che intende il mostro come qualcosa di migliore (in senso cattolico è anche “moralmente” migliore) invece che come pietosa abiezione che tarla l’esistenza dell’umanità per sempre…
…e la fa finire, perfino, con un esergo di Byron (che è come concludere un film su Verdi con Nessun dorma)!

Davvero il colmo!

piacerà solo ai feticisti delle immagini tanto elaborate quanto prive di senso, di quel gotico fasullo che spesso fa breccia nei giovinastri neofiti finché non scoprono Dürer, van Eyck, Bosch, o, semplicemente, Arthur Rackham, Aubrey Beardsley o Edmond Dulac…

e sarò felicissimo di vedere chi lo adorerà… magari proprio quelli che si dicono atei…

oppure a quelli che trovano geniale il fideismo, eguale e contrario al cattolicesimo, dei terrapiattisti di Bugonia

ma deficiente io che mi ostino a vedere gli escrementi di MERDflix

9 pensieri riguardo “Il «Frankenstein» di del Toro

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  1. Continuo a preferire la versione di Gene Wilder con alla regia di Mel Brooks, con un finale parimenti “perdoniero e buono” lì però giustificabile e giusto

  2. Sembra a me o il cinema (in senso largo) sta diventando puro metacinema, ovvero mostrare cosa c’è da fare per fare un film? Un dietro la macchina inquadrato dalla macchina? Quel per forza dovere interagire con un pubblico che dovrebbe pilotare il discorso con l’autore?

    E poi via con attori che piangono e che si mostrano fragili, ma si perdonano… vittoria/ultimo colpo di coda W.A.S.P.?
    Boh.

    1. A me dissero «ma a me piace, l'”estetica del mezzo”!»
      Contenti loro…
      poi, voglio dire, fosse davvero una cosa, al cinema, che traduce in sguardo lo stesso mezzo (come fa Las Meninas con la pittura), allora piacerebbe anche a me…
      ma “estetica del mezzo” riferita a filmetti malamente narrativi come questi mi fa sorgere dubbi… c’è più meta-cinema vero nel Ghostbusters: Frozen Empire che ha fatto schifo a tutti!

      1. C’è una sorta di deformazione di ciò che è meta-qualcosa in giro, ma vabbe’… ce ne faremo una ragione, comunque mi hai convinto a vederlo nonostante tutto, proprio perché voglio vedere i tentativi di fare di ‘sta roba un film… e non un test organizzativo

  3. Non posso in nessun modo darti torto, condivido l’analisi dei difetti del film che hai fatto, eppure a me è piaciuto tanto. Sarà che, come madre, sono sensibile al tema della riconciliazione tra generazioni anche in presenza di errori madornali da parte dei genitori, o sarà perchè ho voluto dare una lettura ambientalista, però l’idea che i film ci diano speranza non mi dispiace, almeno di quando in quando. Però sì, mi resta il dubbio su come Mia Goth potesse passare per le porte con quelle gonne…

    1. Sto litigando con tutte le persone che conosco per questo film…
      e sto concludendo che i feromoni visivi di Elordi fanno piegare chiunque allo spregevole catechismo di sottotesto (cioè “soffri in eterno perché la sofferenza è un bene, e non dare al colpa al tuo creatore, non sia mai, anzi, ringrazialo perché ti ha dato la possibilità di soffrire” — io sono solo un figlio e mai ringrazierò chi mi ha costretto all’esistenza; e ho “creato” spettacoli e testi che sono stati sempre fraintesi, per cui non vado per niente d’accordo col conciliarmi con le “creazioni”: penso che esse debbano ribellarsi, incazzarsi e negarsi invece che essere felici di un inganno)…
      è un periodo cinematografico in cui tutto è un live action Disney: pattume traslucido di lusso visivo privo di senso, che ti ammonisce a sottometterti allo status quo, e anche a esserne contento!
      e ti “addestra” usando proprio quei classici che ti dicevano precipuamente o di ribellarti o, almeno, di non accontentarti…
      Non vedo l’ora di detestare gli imminenti Wuthering Heights di Fennell e Odissea di Nolan…

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