Macbeth in studio

Se n’è già un po’ parlato

Inutile dire che mi riferisco al Macbeth ’65, anche se alcune interpolazioni ci sono, come vedremo…

a mia conoscenza il Macbeth ’47 è stato fissato in studio solo da John Matheson con la BBC nel 1978… ne esistono, però, diverse catture live o live collected, per esempio quella di Marco Guidarini a Martina Franca del ’97, quella di Philip Auguin dal Regio di Parma nel 2018 (video della RAI di Arnalda Canali: è la versione a cui si riferisce il link poco sopra), e quella di Fabio Biondi dall’Opera Podlaska di Białystok in Polonia ancora nel 2018…


Erich Leinsdorf, Metropolitan Opera, 1959
Macbeth – Leonard Warren
Lady Macbeth – Leonie Rysanek
Banco – Jerome Hines
Macduff – Carlo Bergonzi
Malcolm – William Olvis
Dama – Carlotta Ordassy
Medico – Gerhard Pechner

registrato nella Metropolitan Opera House della 39th Street (il Lincoln Center è stato inaugurato 3 anni dopo) nel febbraio 1959 (Marinelli, però, ritiene che l’incisione sia avvenuta al Manhattan Center), è la princeps di un’opera che, fino alla Callas, aveva avuto una frequentazione molto rara all’alba del secondo dopoguerra (si contano, senza alcuna pretesa di completezza visto che si parla delle sole rappresentazioni di cui sia rimasta traccia sonora: Böhm a Vienna nel ’43; Mario Rossi alla RAI di Torino, per radio, nel ’49; Keilberth a Berlino nel ’50; Gui al Maggio fiorentino nel ’51)… Callas, con Victor de Sabata, alla Scala, con la regia di Carl Ebert, non l’aveva propriamente riscoperta ma di certo l’aveva illuminata per un pubblico di massa assente dalle proposte in parentesi… poi, nel 1958, Thomas Schippers e Luchino Visconti, a Spoleto, avevano fatto un allestimento che aveva avuto un’eco abbastanza grossa… e forse sulla loro scia, Leinsdorf incide questa relativamente “nuova” opera in studio…
Warren è bravissimo, e Leinsdorf lo gratifica dell’ultima aria del Macbeth ’47… molto brava anche Rysanek…
Leinsdorf taglia tempi giusti, e alterna bene, in senso drammatico, il lento e il presto… tende a spezzettare molto le frasi melodiche per un senso di musica tagliente, considerato adatto a illustrare uccisioni e crudeltà, ed è questo aspetto, utilizzato forse in maniera oltranzista non sempre opportuna (di certe scene, Leinsdorf non sembra comprendere l’immediatezza, per esempio il Brindisi, ma ci tiene a puntellarle comunque), che dà al suo Macbeth un aspetto anzianotto, più del canto e del suono…
Non registra né il balletto né Ondine e silfidi

Thomas Schippers, Santa Cecilia, 1964
Macbeth – Giuseppe Taddei
Lady Macbeth – Birgit Nilsson
Banco – Giovanni Foiani
Macduff – Bruno Prevedi
Malcolm – Piero De Palma
Dama – Dora Carral
Medico – Giuseppe Morresi

Il ’64 è la data di phonogram: alcuni dicono che fu incisa a giugno… i candidati alla venue formalmente sconosciuta sono l’Auditorio Pio di Via della Conciliazione a Roma e, meno probabile, una sala del Conservatorio di Santa Cecilia…
Schippers aveva fatto faville, con Visconti, a Spoleto, 6 anni prima, ma registra per la Decca un Macbeth molto bucherellato, come si faceva allora…
tra le altre cose, mancano il S’allontanarono delle Streghe dopo le riflessioni di Macbeth e Banquo, il ritornello completo del finale II (un taglio veramente atroce), molti pezzi dell’atto 3 (le streghe vi entrano col secondo numero e cantano quasi la metà delle battute che canterebbero, e si sacrificano, come in Leinsdorf, il balletto e Ondine e silfidi), e un po’ parecchie battute della fuga finale; inoltre, negli acuti del sonnambulismo, tacciono medico e dama…
è un peccato perché il tono è dolente come dovrebbe, e il passo drammatico c’è tutto: Taddei e Nilsson sono ottime scelte, e recitano la loro musica con tragiche pose da immaginario collettivo shakespeariano… forse a Taddei mancano i sussulti che hanno i suoi concorrenti (sussulti che aveva avuto Warren, per esempio, ma Taddei se la cava assai, specie nel terzo atto), ma veramente certi snodi sono fiammeggianti di scavo motivazionale: Schippers intuisce perfettamente il concetto verdiano di musica scenica senza le deformazioni un po’ pesantine di Leinsdorf: capisce che è musica con uno scopo drammatico e ne sbalza le caratteristiche non belle per quello scopo, senza distorcerne le forme (pur tagliato, il finale II è dolentissimo, la scena di uccisione di Duncan acchiappa, con «Sei vano, Macbetto» eccellente, e il finale I è tragico e lento senza però essere inefficace)… e nel 1964 era tanta roba!
per cui i tagli, in mezzo a tali conquiste, disturbano il triplo!
Come successe per il suo coevo Trovatore romano per EMI (fissato ad agosto ’64 al Costanzi: magari in sessions back to back con questo Macbeth e con La forza del destino degli studi RCA di Via Tiburtina iniziata già a fine luglio? la cronologia quadrerebbe: Macbeth a giugno, Forza a luglio-agosto, Trovatore ad agosto: una impegnatissima estate romana), Schippers sfregia le sue più che ottime intuizioni drammatiche, che arrivano prima di quelle degli altri (in questo caso è evidente il Brindisi ancora trattato come semplicemente gioioso da Leinsdorf e per la prima volta inquieto con Schippers), con il trinciapolli di odiosi e incomprensibili tagli, che solo per comodità idolatrante attribuiamo alla casa discografica, poiché è un atteggiamento discontinuo verso le fonti che osserviamo in tutta la carriera di Schippers, fatta sia di radiose integralità (la Lucia di Lammermoor londinese del 1970, addirittura con l’armonica a bicchieri, vedi qui), sia di questi scempi tagliati, sia di vie di mezzo per niente coerenti con gli autografi (L’assedio di Corinto milanese del ’69 e poi londinese del ’74: optò per una sua sistemazione, fatta per Beverly Sills, quasi del tutto inventata basata su un taglia e cuci di Rossini, che però ebbe il merito di far scoprire effettivamente l’opera in un tempo in cui Rossini affogava di solo e soltanto Barbiere)…
Schippers si è trovato, il più delle volte, quanto Tullio Serafin o Vittorio Gui, a intendere l’opera ottocentesca come un qualcosa da riscoprire con processi adattivi più che interpretativi: un modo che spesso ancora oggi viene usato per comunicare certe composizioni lontane, non tanto nel tempo quanto nell’abitudine, come certe operette di Offenbach (che sopravvivono, appunto, quasi soltanto grazie a riscritture e una scelta delle tante versioni d’autore), o alcune opere perfino di Mascagni (con il Ratcliff che, negli anni ’90, è stato eseguito quasi sempre in riscritture)…
Quindi è un Macbeth che non si può davvero raccomandare, ma che ha frammenti che nessun altro ha…
Per il coro dei sicari usa il testo della vulgata canto e pianoforte, e Taddei canta «Pietà, rispetto, amore»: sono cose che Verdi corresse quasi immediatamente (per «amore», Piave capì male la grafia di Verdi che diceva «onore», calco perfetto del corrispondente testo di Shakespeare: nelle prime copie, da cui sono derivate le lastre per il canto e pianoforte, è rimasto «amore», e così è nella vulgata tarda di Ricordi del 1928: sebbene l’edizione critica sia arrivata solo nel 2005, in molti si sono accorti della lezione shakespeariana subito: simile problema anche per il testo del coro dei sicari), ma che per certi melomani dilettanti (che leggono soprattutto il canto e piano, le cui lastre non vennero mai davvero corrette da Ricordi fino al 2005) rimangono perfino oggi!…

Lamberto Gardelli, London Philharmonic, 1971
Macbeth – Dietrich Fischer-Dieskau
Lady Macbeth – Elena Souliotis
Banco – Nikolaj Gjaurov
Macduff – Luciano Pavarotti
Malcolm – Ricardo Cassinelli
Dama – Helen Lawrence
Medico – Raymond Myers

Registrato alla Kingsway Hall di Londra nell’agosto 1971, anche se Marinelli è sicuro di un’incisione sì d’agosto (dal 17 al 22, e dal 24 al 28) ma nel 1970… Decca, però, dichiara apertamente l’agosto del 1971…
Gardelli è il primo a incidere balletto e Ondine e silfidi e sembra effettivamente sapere quello che fa grazie a una expertise a quei tempi effettivamente conclamata: aveva studiato, per registrazioni in studio (tra Decca e Philips) di cui questo Macbeth sembra inaugurare la serie, quasi tutte le opere “dimenticate” degli anni di galera verdiani ed era pronto anche ad approcciare molto primo Ottocento…
Souliotis porta via, gli snodi emotivi di Fischer-Dieskau sono disperatissimi, Pavarotti squilla come solo lui riusciva a quei tempi, e Gjaurov giganteggia (vale la pena ascoltare la registrazione solo per lui!, CLOR suppone che abbia inciso in colonna separata)
È stata obliata dai pezzi da novanta di Abbado e Muti di 5 anni dopo, ma se la si guarda come news, dopo Leinsdorf e Schippers, la scopriamo come un portento di quelli maximi

Claudio Abbado, Teatro alla Scala, 1976
Macbeth – Piero Cappuccilli
Lady Macbeth – Shirley Verrett
Banco – Nikolaj Gjaurov
Macduff – Plácido Domingo
Malcolm – Antonio Savastano
Dama – Stefania Malagù
Medico – Carlo Zardo

Incisa al Centro Telecinematografico Culturale di Milano a gennaio ’76…
Rispetto a Gardelli, Abbado porta tanta stampa comunicativa, dovuta all’apertura della Scala del mese prima, e successiva al Macbeth “filologico” per la prima volta sulla scena allestito da Riccardo Muti a Firenze a giugno ’76: una sfida tra i due direttori che forse originò il loro dualismo giornalistico che perdura ancora oggi con Abbado morto da più di 10 anni e che allora, con la sua eco mediatica, contribuì probabilmente a far rimanere del tutto il Macbeth nel repertorio delle opere frequenti, dopo 20 anni (da de Sabata alla Scala e Schippers a Spoleto) di singhiozzi…
Abbado fece un allestimento d’avanguardia con Giorgio Strehler e provò la ripresa televisiva (di Carlo Battistoni, diffusa però solo nel ’79: Abbado amministrò la prima vera diretta televisiva dalla Scala per l’Otello di Zeffirelli/Kleiber, a dicembre di quel ’76), là dove Muti mantenne una regia classica (di Franco Enriquez), e Abbado se ne fregò abbastanza altamente della filologia: interpolò l’ultima aria del Macbeth ’47, seguì il testo del canto e piano per il coro dei sicari (come Schippers) e fece cantare «Pietà, rispetto, amore» a Cappuccilli…
A livello meramente di disco, questa disinvoltura testuale rappresenta, de facto, un passo indietro rispetto a Gardelli…
Però il Macbeth di Abbado ha del tutto cancellato quello di Gardelli per diversi motivi divistici e forse nazionalisti: Cappuccilli venne salutato come il primo vero cantante della discografia, più caldo e “musicale” rispetto agli stranieri Warren e Fischer-Dieskau (con Taddei messo da parte per via del tagliuzzamento che penalizzò l’accoglienza di Schippers), l’orchestra della Scala era la prima orchestra teatrale italiana che in disco affrontava l’opera e tanti sentirono nel suono un “tono” che tutti descrissero come più verdiano, per via di alcune nuance di smussamento dei colori, e Verrett, nonostante sembrasse fuori dagli schemi interpretativi shakespeariani appariva molto più a suo agio nella prosodia musicale verdiana, con le mezze note prese con più spessore rispetto a Nilsson e Rysanek e con un’emissione meno violenta rispetto a Souliotis…
Non so se tali impressioni siano scientifiche o se rientrino semplicemente nel gusto… in ogni caso, Abbado, rispetto a Gardelli, riesce a inscurire di uno strano squallore rilucente il Macbeth, e lo riempie di echi e richiami sonori folli e insieme lussuosi: la zoppia che accompagna il sonnambulismo, per esempio, sembra arrivare quasi da lontano, e denota una gestione del suono drammatica effettivamente sconosciuta alle incisioni precedenti… Inoltre, la resa melodica, arricchita da questi ispessimenti sonori, è possentissima e molto nobile, e dà alle intenzioni una qualità contemplativa effettivamente desolata e dolorosa: la morte di Duncano ne esce efficacissima di tormento, quasi tra le migliori (con Sinopoli) della discografia, e il finale I, pur se ancora abbastanza trenodistico, sfodera una potenza “strillante” di afflizione che c’era in Schippers o Gardelli, ma che Abbado sottolinea con risultati emotivamente e sonoramente maggiori…
Per questi motivi, oltre che per il battage mediatico e sciovinistico, continua a essere considerato, dai più, il Macbeth meglio cantato e meglio suonato…


Riccardo Muti, Philharmonia, 1976
Macbeth – Sherrill Milnes
Lady Macbeth – Fiorenza Cossotto
Banco – Ruggero Raimondi
Macduff – José Carreras
Malcolm – Giuliano Bernardi
Dama – Maria Borgato
Medico – Carlo Del Bosco

Muti incise a Londra nel ’76: dal 5 al 9 luglio nello Studio 1 di Abbey Road; poi dal 13 al 20 luglio alla Kingsway Hall… 6 mesi dopo l’incisione di Abbado…
Per Traviata e Macbeth, Muti è stato senza esagerazione il numero uno…
Al primo ascolto si sente che quella di Muti è una effettiva rivoluzione nell’interpretazione di Macbeth: non solo la filologia impera esatta, come in Gardelli, ma la concezione del dramma è inedita in discografia: Muti è veloce, repentino, e nonostante tutto è tragicissimo, dolentissimo…
Il suo Macbeth è come quello di Orson Welles: è barbarico e spiccio, e, miracolosamente, riesce a essere anche sofferente e accorato…
Macbeth e Lady Macbeth si muovono nella scena dell’uccisione di Duncan con l’urgenza e col sotterfugio di chi si nasconde e deve fare in fretta: roba mai sentita prima…
Il finale I corre in maniera forsennata con un’energia di sconcerto inusitata, molto più cocente della marcia funebre dei dischi precedenti: sembra che i personaggi piangano insieme di tristezza e di rabbia per la morte del re, mentre la musica esprime il loro pensare all’immanente idea furibonda e concitatissima di stare vivendo un colpo di stato: un finale che non è marcia funebre, ma azione violenta di intenti e pensieri: «pensiero che muove»!
Le streghe agiscono senza alcuno dei tic macchiettistici che ancora c’erano in Gardelli…
È come se Muti riuscisse a scovare nelle note l’essenza horror del testo di Shakespeare, con lampi di paura totalmente musicali, senza nessuno degli effetti sia caricaturali sia postprodotti dei dischi passati, che già Abbado aveva in gran parte attutito anche se non del tutto evitato… è come se Abbado avesse trovato una dimensione puramente musicale e verdiana del testo, senza però andare tanto oltre nell’interpretazione, mentre Muti, mantenendo proprio quel rigore, filologico e di uso dello studio con postproduzione minima, che Abbado in parte rifuggì, scoprisse, nelle stesse note, tutto il portato di terrore!
Il cast venne stroncato, ai tempi, al paragone con Cappuccilli e Verrett, ma oggi si capisce meglio quanto Milnes padroneggi l’intenzione shakepeariana quasi come nessun altro, a parte Bruson (il suo «Sangue a me» un po’ biascicato è da infarto!), e si sente quanto Fiorenza Cossotto raggiunga un’ideale di ossimorica cristallina oscurità, che sembra fatta apposta per la partitura!
Nel 1997, Muti ha aperto la stagione della Scala con un suo Macbeth, allestito con Graham Vick: come fece Abbado, Muti chiamò Carlo Battistoni per la ripresa televisiva della RAI… la sua lettura non cambiò di una virgola!
Macbeth è diventato un cavallo di battaglia bello grosso di Muti: lo ha riproposto in lungo e in largo (nel mio piccolo, io ho visto una sua proposta in forma di concerto al Maggio Musicale Fiorentino nel 2018: eccola)

Giuseppe Sinopoli, Deutsche Oper, 1983
Macbeth – Renato Bruson
Lady Macbeth – Mara Zampieri
Banco – Robert Lloyd
Macduff – Neil Shicoff
Malcolm – Claes H. Ahnsjö
Dama – Lucia Aliberti
Medico – Petteri Salomaa

Sinopoli ha inciso alla Haus des Rundfunks dei tempi, nell’allora Berlino Ovest, dal 30 novembre al 5 dicembre ’83…
Arrivare dopo i colossi di Abbado e Muti è stata dura, e Sinopoli è stato coraggiosissimo a provare ed egregio nell’assemblare un’interpretazione che riuscì a essere veramente alternativa rispetto ai due…
Sinopoli rende Macbeth un dramma di lentezza… invece che il Macbeth di Welles, sembra quello di Polanski… è il Macbeth più decisamente notturno del disco, e quello più mortifero e trenodistico…
Il finale I è scioccante e perfino ridicolo da quanto è lento, ma nell’uccisione di Duncan la lentezza si accompagna a una disperazione sussurrata, di gente che sì agisce nell’ombra ma si nasconde invece di fuggire veloce: e quasi nel silenzio, i personaggi dànno vita alle espressioni musicali dei loro rovelli mentali e dei loro atroci sensi colpa…
Bruson e Zampieri sono i cantanti più scuri di tutta la discografia; Zampieri soprattutto tremola gravissima di cupezza terrea, in una interpretazione tecnicamente straziante e mai precisa, ma di una resa scenica prodigiosa!
Bruson infonde senso arrovellato e meditabondo a ogni sua battuta risultando più che strepitoso: potrebbe concorrere alla palma dei migliori della discografia…
È un Macbeth della riflessione sulla crudeltà immane dell’esistenza più che sulla ferocia e corruzione del potere: un Macbeth privo di luce e quasi liquido per il suo suono esprimente l’insensatezza di tutto, della morte e dello stesso potere tout court, non perché è corruttore e corruttibile, ma giusto perché è inutile e di per sé sanguinario…
Si ride, e forse ci si indigna per la lentezza, ma è un Macbeth che rimane dentro per sempre!
Nel 1987, Sinopoli rese visive le sue idee con Luca Ronconi, stavolta nel teatro della Deutsche Oper: esiste una ripresa video di Brian Large, una delle poche in cui Large ha ammesso inquadrature del direttore, forse per andare dietro alla prassi che, nel Macbeth, aveva stabilito Carlo Battistoni con Abbado nel ’76 (e che si è vista nel ’79): là Abbado si vede in dissolvenza durante il finale I, esattamente come succede a Sinopoli con Large… Battistoni dissolverà anche Muti, alla Scala, nel 1997…

Lamberto Gardelli, Magyar Rádió Szimfonikus Zenekara, 1984
Macbeth – Piero Cappuccilli
Lady Macbeth – Sylvia Sass
Banco – Kolos Kováts
Macduff – Péter Kelen
Malcolm – János Bándi
Dama – Katalin Pitti
Medico – István Gáti
Domestico – János Tóth
Sicaro – Tamás Bátor

Hungaroton non dichiara lo studio: fu forse la sede della radio a Budapest? o l’Istituto Italiano, ancora a Budapest, dove incise altre opere italiane nello stesso periodo?
Boh…
Dopo 8 anni dall’impresa con Abbado, Cappuccilli appare invecchiato e tende a strafare… invece Sass è eloquente…
Gardelli opta per “ondate” sonore molto particolari: alterna piani e forti per dare a tutto un senso di sussurrato nel terrore, o di una speciale rabbia repressa… non si ascolta per niente male, anche se difetta di afflato sia disperato sia narrativo, e rispetto a 14 anni prima si perde un certo rigore (si torna a certe vociaccie sgraziate e fumettistiche per le streghe), anche se si apre ad alcune non brutte fantasie (tipo l’accelerazione immensa del coro dei sicari), e si trova una impagabile verve espressionistica nella conduzione molto passionale della sorprendente orchestra…

Riccardo Chailly, Comunale di Bologna, 1986
Macbeth – Leo Nucci
Lady Macbeth – Shirley Verrett
Banco – Samuel Ramey
Macduff – Veriano Luchetti
Malcolm – Antonio Barasorda
Dama – Anna Caterina Antonacci
Medico – Sergio Fontana

registrato alla Chiesa di San Giorgio Poppiale di Bologna nel maggio ’86 per il film di Claude d’Anna…
10 anni dopo la prova con Abbado, Verrett è senz’altro invecchiata… Nucci e Ramey, invece, propongono un taglio fresco, benché già qui Nucci tenda un attimo a gigioneggiare, indeciso tra la furia, la follia e la depressione…
Chailly è portentoso nel guidare il Comunale di Bologna davvero ai limiti delle proprie possibilità, con una lettura sonora e incisiva, molto serrata, anche per via della destinazione cinematografica… Le sue scelte, genericamente più sul solco di Abbado (benché sia impagabile una ricerca di superamento dell’idea trenodistica del finale I), peccano forse un po’ di genericità, ma se uno fosse tabula rasa con Macbeth e sentisse solo questa incisione, non rimarrebbe scontento…
Purtroppo, non incide il balletto stregoso…
Chailly ha incluso il balletto quando anche lui, dopo Abbado e Muti, ha ripreso Macbeth alla Scala, nel 2021 (Abbado, Muti, Sinopoli e Chailly hanno voluto fare un Macbeth scenico, dopo il disco, che hanno accettato di riprendere in tv: Abbado, in realtà, ha fatto prima il video in teatro e poi il disco), in un pessimo allestimento di Davide Livermore: lo abbiamo visto in tv: stavolta, la regista televisiva Arnalda Canali, pur inventandosi cose egregie, ha disatteso la tradizione di farci vedere il direttore nel finale I (non aveva neanche inquadrato Auguin nel Macbeth ’47 di Parma del 2018)…

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