PT Anderson…
…invece di Trinità, lo chiamavano Discontinuità…
svariona dalle spocchie e le pretenziosità predicatorie alla Lanthimos e alla Östlund, che ha anche un po’ svezzato, data l’anzianità anagrafica e lavorativa (There Will Be Blood, Magnolia, Phantom Thread, Inherent Vice ecc. ecc.), alle cose un po’ più carine (Punch-Drunk Love, The Master [che però potrebbe rientrare tra le spocchie], Licorice Pizza)…
e stavolta centra il primo capolavoro della stagione
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Parliamoci chiaro: è un film americano…
quindi i rivoluzionari sinistrorsi radicali, pur simpaticoni, sono da condannare:
- Perfidia Beverly Hills è il classico personaggiaccio irrisolto, topos dei deficienti fondamentalisti dal grilletto facile che si vedono dai tempi di John Wayne… un cliché oRendo…
- la cellula terroristica evapora nei meandri della sedicente pièce bien faite, così bien faite da eludere, deliberatamente e con profonda crudeltà, il destino dei rivoltosi… perché, si sa, manzonianamente parlando, «il sale della storia» è che la Rivoluzione va fatta in un altro modo…
- la *famiglia* è concetto centrale, nonostante la pretesa condanna della piccolo-borghesia…
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ma per il resto, se un film americano deve essere, è bene che sia così…
tensivo, serrato (gustosissimi i riferimenti alla Battaglia di Algeri di Pontecorvo), con la macchina da presa che adotta un punto di vista basso, dagli occhi dei personaggi, e scivola via, come legata a un filo che la trascina, tra gli snodi della trama mozzafiato, tra le stanze con i militari all’assalto, o sull’asfalto con le automobili, senza essere nervosa né veramente a mano, ma impegnata in quelli che sono una sorta di carrelli che non sono guardinghi, che non si guardano in giro, ma si voltano a farti vedere i dettagli quando devono farteli vedere…
è davvero una macchina che è una spia in incognito: una macchina da presa che è un latitante che si nasconde e dà ad altri latitanti, nascosti come lei, e cioè noi pubblico, gli indizi per cavarsela, per orientarsi nella trama oppure per salvarsi dalle minacce…
la macchina da presa è un personaggio insieme agli altri ma che sa un’anticchia più degli altri giusto per farli scappare, per farli respirare in una trama oppressiva che tracima in ritmo e serra la gola dall’ansia…
una macchina che è metonimia del film stesso: è lei braccata ma è lei che sa, tramite indizi, codici e parole d’ordine, come scappare senza farsi vedere… anche se l’ansia di essere acchiappata ce l’ha tutta… come ce l’hanno i personaggi e come ce l’ha lo spettatore!
bellissimissimo!
gli inseguimenti con le prospettive che sfiorano l’asfalto anche prima che l’azione inizi sono da infarto!
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e nonostante le premesse sborghesucce puritane, PT Anderson è lampante nel dirci le cose come stanno, adesso e sempre:
- i suprematisti bianchi razzisti usano il potere militare per creare sofferenza, da veri sadici;
- i suprematisti hanno le camere a gas in ufficio;
- i suprematisti buttano la gente nei forni crematori…
questo fanno, e questo hanno sempre fatto…
e i rivoltosi?
quelli stigmatizzati dal puritanesimo iniziale?
ci sono, e non hanno un bel destino…
poiché, secondo quel puritanesimo, la rivoluzione vera non si fa con proclami e ideologie (ecco l’anima Democratic Party di PT Anderson, non radicale ma umanistica), ma con le piccole cose, le gentilezze, le quotidianità fraternizzanti e la famiglia accogliente…
per cui, contro i suprematisti razzisti del cazzo, vecchi come il mondo, non c’è che da intraprendere le soluzioni vecchie come il mondo
- una rete di persone empatiche, grande come una città, che agisce per difesa, per generosità, apposta per far semplicemente vivere persone più sfortunate a causa dei gangli capitalistici del potere…
- nascondigli nei tramezzi…
- false pareti…
- stanze di rifugio…
- tappeti a coprire tunnel di fuga…
- volto pieno di buonafede da mostrare a un cacchio di potere oppressivo…
perché i rivoluzionari veri sono quelli che salvano le vite tutti i giorni rischiando in prima persona, senza andare a buttare le molotov chissà dove…
poiché le molotov, poi, sono usate come scusanti per rappresaglie (e si vede chiaramente il black block mascherato che esce dall’auto militare per lanciare il lacrimogeno adatto a far sì che parta l’ordine di contrattacco dell’antisommossa: è un frame inequivoco)
e rivoluzionari radicali, ideologicamente stitici, scalcagnati, drogati, freddi, dal grilletto facile, inadeguati perfino per i loro standard irraggiungibili di utopia realizzabile solo con la violenza (DiCaprio è *esilarante* a dare corpo alla simpatica inadeguatezza del benintenzionato inquadrato ideologicamente), un po’, ok, cadono nell’oblio, ma, alla fine, anche se difettosi, sono comunque più giusti, degni, sicuramente più buoni dei suprematisti razziali della fava!
e meritano un abbraccio finale, al di là delle password e dei codici segreti!
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Lo chiamavano Discontinuità monta comunque un film troppo lungo (e sono 2h e 40′ eh…), molte volte esagerato e caricaturale (Sean Penn è marmoreo di stolidezza quasi fumettara), che ha un sentore da Fratelli Coen senza l’adeguata stralunatezza (un pochino da confrontare con BlacKkKlansman), ma la tensione della trama, allacciata con tali tematiche e mostrata con una macchina da presa così consona, è da gioia immensa!
e American Girl di Tom Petty, riferita alla ragazzina mulatta che andrà a fare le manifestazioni contro Trump sotto la pioggia, perché così è giusto, perché il bene si fa una battaglia dopo l’altra per ribadire il diritto a esistere di tutti, perché *così* è essere America, con tutto il portato di sognato socialismo mondiale nell’assurdità della visione statunitense (visto che non viene pronunciata una parola contro l’imperialismo sfacciato anche dei Democratici) è da pianto di gioia!
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Benicio del Toro, misurato e asciutto, in pochissimi minuti fa forse la sua migliore performance dai tempi di The Hunted di Friedkin!
Bravissimo Tony Goldwyn a fare il compassato suprematista!
Jonny Greenwood si conferma essere un Bernard Herrmann in un panorama desolato di decotti seguaci delle sferragliate alla Hans Zimmer: rispetto alle brodaglie senza costrutto dei quaquaraquà come Justin Hurwitz e Jerskin Fendrix, Greenwod è dalle parti di Ludwig Göransson, Volker Bertelmann e soprattutto di Hildur Guðnadóttir nell’intento di voler costruire musica cólta adatta alle immagini, e dalle immagini ansiosa di ricevere input ritmico-motivici, invece di stare lì a masturbarsi da solo con le proprie melodiette sofisticate de ‘stocazzo costruite col computer secondo standard algoritmici…
la sua musica è un paradiso di richiami tematici ma soprattutto ritmici, e usa stili diversi (molti della grande tradizione del novecentismo) per accompagnare la macchina da presa nella sua opera di spionaggio: godurioso!
anche a me è piaciuto ^^
mi è piaciuta soprattutto la regia, non guardando molto il genere di appartenenza forse non ho molti riferimenti ma quello che ho visto mi è piaciuto :) poi mi è piaciuto molto il montaggio e il ritmo, più che i personaggi in sé