Ripeto…
s’è detto tanto del dramma che la narrazione seriale impone ogni volta nelle storie cinematografiche e non solo (Anna, Cruella ecc.)
Duse non è esente…
già di suo magmatico e limaccioso, come un precedente film di Pietro Marcello, e molto fiero, come al solito lambente il compiacimento, della grana particellare e anticata delle sue immagini (lo stesso effetto difettoso [cit.] della Chimera di Rohrwacher), Duse affoga in un andamento quasi in tre stagioni…
- Stagione uno:
Eleonora Duse, per non andare fallita a causa della bancarotta del suo istituto di credito berlinese dopo la Prima guerra mondiale, torna sulle scene dopo decenni con Ermete Zacconi a fare Donna del mare… viene rimproverata da Sarah Bernhardt di rifare le stesse cacchiate borghesucce di prima della guerra, e quindi di essere anacronistica…
sicché Duse si mette a vaneggiare di un teatro nuovo, da agire in un edificio teatrale circolare costruito apposta su suo disegno ispirato ai suoi sogni, e si affida a un Cretinetti dei suoi adoranti accoliti, aspirante drammaturgo, per scrivere un nuovo dramma, un po’ futurista un po’ estetizzante…
il dramma fa schifo e fa fiasco…
Duse, però, ne esce pulita perché riesce a dare tutta la colpa al Cretinetti pur continuandolo ad amare come un figlio…
in questa stagione il vero protagonista è il Cretinetti…
e c’è un episodio, durante le prove della Donna del mare, con propinata la solita sbobba che oggi chiameremmo stanislavskiana (il metodo di Stanislavskij è metodo quasi industriale solo dai 1930s, e in tutti i 1890s-1910s era sperimentale e si basò alla grande sui sistemi dei vari Bernhardt, Duse, Tommaso Salvini, Ernesto Rossi, Ermete Zacconi, Adelaide Ristori, Vera Komissarževskaja, Henry Irving, Ellen Terry ecc. ecc., pur incorporando in un certo modo il movimento nei loro modi, per altro tutt’altro che immobili come si crede) sull’incanalare le emozioni proprie nella caratterizzazione del personaggio che si recita…
roba vista, rivista e stravista in tutti i film che parlano di attori…
un episodio da vero mostro della settimana alla Buffy, con una protagonista tutta sua, Gaja Masciale (il personaggio si chiama Cecilia Rinaldi), davvero molto brava, nei panni di un’attricina che si sorbisce il decotto di insegnamento recitatorio…
I due protagonisti della stagione (il Cretinetti e l’attricina) non sono esistiti, sono inventati da Marcello…
un grosso deuteragonista di questa stagione è Memo Benassi, che avverte tutti, inascoltato, dell’inconsistenza della pièce del Cretinetti: Benassi, invece, è esistito… - Stagione due:
durante il fascismo esploso, e con la tubercolosi che galoppa, Duse, ancora per sfuggire ai debiti, decide di tornare da Gabriele D’Annunzio per ottenere i diritti di allestire di nuovo La città morta (che era del 1898, con Duse che l’aveva fatta, per la prima volta in Italia, nel 1901)…
D’Annunzio è ancora sicuro di poter calmierare le spinte da mattatoio delle squadracce fasciste con la sua personalità e il suo estro retorico, e dona a Duse la tragedia pur disprezzando la voglia dell’attrice di renderla più graphic…
La tubercolosi però diventa insostenibile, gli attori si dimettono e il fascismo passa dalle Leggi fascistissime e diventa governo totalitario del paese in grado di dare a Duse un vitalizio che la sollevi definitivamente dai debiti (e forse il Duce potrebbe anche costruire il teatro circolare da lei sognato nella stagione uno)…
Duse è quasi felice finché non lo va a dire a D’Annunzio, che appare sconvolto di non essere stato in grado di piegare le masse fasce ai suoi voleri alti e quasi pentito di essersi fatto comprare dal fascio con il Vittoriale e il denaro: cosa che rimprovera anche a Duse (e D’Annunzio le dà anche quasi della scema per aver creduto che Mussolini potesse davvero mettersi a costruire il suo teatro tondo)…
Il protagonista di questa stagione è D’Annunzio… - Stagione tre:
in realtà è il perno vero del film, i cui elementi aleggiano nelle stagioni precedenti…
Eleonora Duse ebbe una figlia da Teobaldo Marchetti, ossia Teobaldo Checchi, un attore dei suoi degli anni d’oro (1880s): Enrichetta…
per tutto il film Enrichetta dice alla mamma di mettersi a riposo senza preoccuparsi dei debiti e degli attori, e di andare a curarsi in clinica… Duse la rifiuta, alimentando la paura di Enrichetta di essere una figlia non voluta a cui viene preferita un’assistentina pedante e perfettina, tale Désirée, che accompagna Duse in lungo e in largo, anche a pisciare… Enrichetta è super-gelosa di Désirée…
Qui le protagoniste sono due: Enrichetta, che è una fiammeggiante Noémie Merlant (che recita in italiano), e Désirée, che è una torva e ampollosa Fanni Wrochna…
naturalmente si sa tutti che Duse col cacchio che si accaserà con la povera Enrichetta, che potrà tirare fuori tutti i pianti e tutte le facce disperate possibili, ma non riuscirà mai a convincere la mamma, perché Duse dovrà morire recitando, anche se l’unico pubblico rimastole fossero solo i nipotini spaventati e traumatizzati dal suo interpretare assai realisticamente Mangiafuoco durante la lettura serale di Pinocchio…
Queste tre stagioni sono recitate in maniera esposta e manierata, davvero da teatro dell’Ottocento, con tutte le emozioni urlate e buttate fuori, con gli attori che ringhiano, sbavano e artigliano (Bruni Tedeschi e Russo Alesi sono allo stato brado)…
…e sono riprese con immagini goticheggianti, pulsanti, piene di texture rugiadose e pulviscolari, quasi sempre frutto di macchina a mano, molto sbalzellosa, che accenna al cinema (anche troppo: in ben due occasioni si vedono i personaggi riprendersi con una cinepresina che sembra una 8mm; e il finanziatore della pièce della prima stagione è un cinematografaro italiano) e che crea una sorta di vetrata gotica fatta di frammenti, di pezzetti di un film che sembra voler fare un tutto da una miriade di girato, fatto di tanti momenti ricuciti insieme: un film di montaggio, in cui le urla del tutto scenografiche degli attori sono agite in ambienti e scene girate a parte, prive di coesione e unità, poi rimesse insieme con la colla, o fuse appunto come vetro, nell’intento di fare un tutto dalle singole parti, come un costume di Arlecchino, cioè il simbolo dell’attore…
i sogni di Duse, le sue prove, Merlant che si confessa alla mamma guardando in macchina, gli scorci del Veneto (soprattutto) e del Lazio, Wrochna che lancia occhiatacce senza un controcampo…
…è tutta roba frammentaria che Marcello ricompone e rimette insieme in queste sue tre stagioni…
non arriva al pastrocchio alla Guadagnino o di Damien Chazelle perché non commette l’errore di confondere il metodo con il fine… ma il metodo è quello…
ed è un metodo rischioso…
il montaggio che ti butta addosso immagini a caso può essere suggestivo come ridicolo: e infatti certe immagini delle Fondamente Nuove veneziane, così alla bojadungiuda, fanno più pensare a Yuppi Du che a Tarkovskij…
la cosa non è un male, perché sia in Duse sia in Yuppi Du le cose continuano ad avere senso, anche se un certa sensazione di rivisto e di esteriore si respira in Duse, parecchietto…
la sbomballate stanislavskiane, e la scoperta dell’acqua calda che il fascismo era da fuggire e non da cavalcare come ha fatto D’Annunzio, sembrano cose anch’esse disunite, slegate…
la materia del fascismo sembra una camomilla alla Zeffirelli (Duse che si accorge che il fascio è merda richiama totalmente la trama di Un tè con Mussolini) e l’attrice che recita sempre, tanto da non poter provare più emozioni se non quelle finte della propria rappresentazione eterna diventata vita, è una storia che s’è sentita tante volte e che Marcello cerca di rendere con la sua gestione delle immagini frammentarie (e con la musica finta dei Rondò Veneziano: una finzione musicale attorica novecentesca che interpreta il Settecento e che doppia, in colonna sonora, il sovrapporsi dei personaggi alla vita dell’attrice), ma si sente che non la padroneggia (è una materia, per altro, trita e ritrita, vedi quell’ameba che fu La vita che vorrei di Giuseppe Piccioni, una ciofeca già 20 anni fa), e si sente perdersi in essa, senza sapere quale è il suo focus… tanto da aver costruito un film che di focus finisce per averne 3…
un film frammentario, urlato, sbraitato, compiaciuto nelle sue immagini fatte proprio bene e troppo bene (come nel Gloria di Vicario sempre passibili del ridicolo involontario somigliante, tra cappelloni e mantelli al vento, al Paganini di Klaus Kinski, perché chi si loda s’imbroda), che racconta, anche con immagini di repertorio sfumate nella fiction, di quanto il fascio sia sempre pericoloso e di quanto vinca sempre, nonostante i sogni, le buone intenzioni e l’Arte, perché quelle cose, pur bellissime, sono proprio quelle che ti rendono impalpabile, fuori dal mondo, frammentario (come Duse stessa e come il film, che si rifiuta di renderla protagonista, anche per via dell’indugiare così tanto su fatti e personaggi mai accaduti ed esistiti) e la bellezza non salva proprio un cazzo…
difatti la bellezza non salva Duse il film…
…che finisce per fracassare assai i maroni…
anche se te li fracassa con una certa classe
fatto bene a preferirgli al cinema Jane Austen ha stravolto la mia vita
mi incuriosiva il lato estetico, ma nessuna delle recensioni di venezia dai magazine che seguo era entusiasta