Non è così facile parlare di Die lustige Witwe…
Come si diceva a suo tempo per Elisir d’amore non è per niente una passeggiata capire perché Lustige Witwe sia pressoché l’unica delle almeno 20 operette di Lehár a essere rimasta in repertorio… e certamente l’unica ad avere avuto una circolazione, anche discografica, da grande pezzo, davvero da operona più che da operetta
—>DIGRESSIONE
pur considerando certe distinzioni chiare solo e soltanto a chi non ci capisce una mazza: il neofita potrà tranquillamente sbraitare che tra Tristan und Isolde di Wagner e West Side Story di Bernstein c’è una enorme differenza, e sottolineerà evidenze enormi a perorare quella convinzione: la durata, il tipo di canto, anche se non riuscirebbe a definirlo, la presenza di dialoghi parlati e di balletti, in Bernstein, che in Wagner non ci sono, e altre idiozie… ma sono elementi che, a ben vedere, non separano proprio per niente l’opera da tutto il resto: la durata, per esempio, non concorre per nulla a definire un’opera, basti pensare alle tante opere in un atto, composte da Puccini, Ravel, Stravinskij, Rachmaninov, Massenet, Bartók ecc. ecc. che non raggiungono neanche i 60 minuti di durata: non sono opere?; i balletti: forse Guillaume Tell di Rossini o le opere di Gluck non sono opere perché hanno i balletti? forse perché, in Bernstein, lo stesso performer che canta dovrebbe essere quello che balla? mmm, ok… ma allora roba come Les Noces di Stravinskij che è?; e il parlato? il Fidelio di Beethoven o i Singspiele di Mozart non sono opere perché parlano?: e parlano proprio coloro che poi cantano lirico? mah… se per definire opera, operetta e musical dovessimo usare solo e soltanto argomenti musicali intrinseci non riusciremo per niente a distinguerle così non si riuscirebbe davvero a separare Spleen da Ennui o zuppa da pan bagnato
FINE DIGRESSIONE<—
Lehár era un viennese doc di allora, un austroungarico absburgico da manuale: si riteneva un viennese purissimo anche se era nato in Ungheria in un paesetto, per giunta, oggi amministrato dalla Slovacchia!
quello che oggi, per le coglionate nazionaliste del sangue e terra, è visto come atroce aporia (tanto da considerare italiani Al Pacino, Lady Gaga, Madonna e Robert De Niro, mentre Miriam Sylla la si pensa ivoriana e Paola Egonu nigeriana: che risate), per Lehár era la normalità sovranazionale della sua patria, che era Vienna, che era l’Austria grossa, che era anche e soprattutto, Repubblica cèca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia, Bosnia, Croazia, Transilvania, Bucovina, Galizia, Tirolo, Trieste e Venezia!
Il Pontevedro della Lustige Witwe era l’archetipo di queste regioni felici, piccole, carine, tutte, nella testa dei notabili, ancora nel 1905, entusiaste di vivere insieme, con concessioni qua e là di amministrazione locale, ma tutte parte di uno stesso tutto…
Le danze pontevedrine della Lustige Witwe, nel secondo atto, sono scritte da uno che ha ben sentito gli spettacoli che Rimskij-Korsakov faceva dello Knjaz’ Igor’ di Borodin (opera che, nella sistemazione di Rimskij-Korsakov e Glazunov, era arrivata nella absburgica Praga nel 1899), ma aveva altresì scarsa sensibilità nell’accorgersi di aver riempito la sua operetta più famosa di prese in giro del Montenegro, che nel 1905 si stava dando una seconda Costituzione dopo aver conquistato a caro prezzo l’indipendenza dagli Ottomani, e non vedeva per niente di buon occhio i confinanti austro-ungarici, effettivamente assai invadenti (Njegus era la famiglia reale montenegrina, Danilo si chiamava l’erede al trono nel ’05 e Zeta era una storica amministrazione del sud dello stato)… per ragioni diplomatiche, la prima londinese di Lustige Witwe, nel 1907, dovette cambiare tutte quelle denigranti allusioni…
Lehár non si era accorto delle offese, oppure le aveva fatte scientemente, sicuro, come Joseph Roth, che il sistema di vita di austroungarico dovesse appartenere anche al Montenegro!
Ma un’operetta leggermente razzistella e di sicuro misogina (il testo di Wie die Weiber man behandelt fa veramente accapponare la pelle), di un autore così radicato nel suo tempo da considerate quello Austro-Ungarico il più bello stato possibile, come ha fatto a sopravvivere così tanto?
c’entra, effettivamente, la bellezza della musica…?
eh…
forse…
Tutta la musica di Lehár è affetta da uno sconcertante strabismo stilistico: nel bel mezzo di canzonacce ingorde e danze pesanti e volgari si trovano estatici sottotesti di tristezza, interi universi strumentali malinconicissimi, quasi piangenti, e un senso quasi di elegiaco distacco dalla felicità che la musica stessa sta esprimendo, e in quello stesso esatto momento!…
è come se Lehár, leopardianamente (o alla Matthew Barrie, la cui commedia di Peter Pan esordisce esattamente un anno prima della Lustige Witwe, anche se il personaggio era già in un capitolo di un romanzo di Barrie del 1902), assistesse alla fine della gioia proprio nel momento in cui la gioia la si trova: il momento in cui la serenità inizia, per Lehár, è l’esatto momento in cui la serenità comincia a finire: fine e inizio sono la stessa cosa: così come gioia e dolore…
Per questa sua particolarità, Lehár fu adorato da Puccini e detestato da Strauss, e fece faville nella Belle Époque di Stefan Zweig quando quell’Austria grossa e lisergicamente felice era in essere, ma, soprattutto, spopolò quando quella Belle Époque finì, drammaticamente, nella Prima guerra mondiale: allora quel connubio tra gioia e dolore si ammantò di nostalgia, e sembrava fatto apposta per ammantarcisi!
Lo sconcerto della Finis Austriae, il dolore che quella bella Austria così felice fosse perduta per sempre (il trauma proprio del Mondo di ieri e della Cripta dei cappuccini), dette alla musica di Lehár una fortuna immensa, che, universalizzata, perdura ancora oggi…
Il sentore della gioia inafferrabile, della marcescenza umorale consustanziale ai momenti più belli della vita, fecero adorare Lustige Witwe durante tutto il Terzo Reich… in Fatherland, Robert Harris si immagina un Hitler vincitore che avrebbe imposto, in ogni carillion, la musichetta agrodolce di Lippen schweigen!
Danilo e Hanna che sì, si ritrovano, ma quando il tempo è ormai perduto, con un Danilo che affoga le pene d’amore in un bordello d’alto bordo, con l’unico duetto veramente amoroso, tra Valenciennes e Rossillon, ammantato da oscurità arabescate di Jugendstil (vedi le Musiche per San Valentino), hanno spopolato anche dopo il 1945…
…ma in tempi in cui afferrare quella malinconia era più difficile è stata dura veicolare l’operetta “per bene”…
La caratteristica strabica di Lehár venne un po’ meno negli anni del boom economico, quando Lustige Witwe è stata spesso rappresentata nel versante della canzonaccia più che dell’elegia nostalgica…
e sentirla in tedesco, dal vivo, è stato impossibile… e già lo era prima…
in Italia, pare che il testo l’abbia adattato niente meno che Ferdinando Fontana (il primo librettista di Puccini) nel 1907… ed è rimasto quello…
mmm
davvero?
magari sì, ma al momento di una certa attenzione, in ambiente viennese, a fissare una Lustige Witwe più nostalgica, almeno in studio di registrazione, la cose si complicarono…
Otto Ackermann incise Lustige Witwe alla Kingsway Hall di Londra con Walter Legge, con Elisabeth Schwarzkopf, nel 1953, ma ha omesso alcuni pezzetti…
Nel 1958, invece, Robert Stolz la registrò proprio alla Staatsoper di Vienna, con Hilde Güden, così come Lehár l’aveva scritta e quindi SENZA le arie che il compositore aveva scritto in inglese per la prima londinese del ’07 (quella di Njegus, Quiet Parisien, e quella delle Grisetten, Butterflies)…
da allora, le incisioni in studio non sono state poi così tante:
- la seconda impresa di Walter Legge ed Elisabeth Schwarzkopf, con la Philharmonia condotta da Lovro von Matačić tra Kingsway Hall ed Abbey Road nel luglio del 1962
- la seconda impresa di Robert Stolz, stavolta con i Berliner Symphoniker e Margit Schramm, del 1965
- la versione in francese di Yvon Leenart e l’Orchestre de la Société du Concerts du Conservatoire del 1966
- e l’edizione in russo del Teatro Nazionale d’Operetta di Mosca, incisa da Melodija intorno al ’65 ma che fuori dalla Russia non ha ascoltato nessuno…
Infine arrivò il pezzo da novanta, Herbert von Karajan, che fissò l’operetta nella Jesus-Christus-Kirche di Dahlem a Berlino nel 1972…
da allora, in studio di registrazione, Lustige Witwe è stata materia dei pezzi da novanta: un po’ più giocattolosi: Bonynge nel ’77, ma in una versione rimaneggiata, la vedremo, e lo specialista Wallberg nel ’79 [è forse l’unico a mettercela tutta per evitare l’insopportabile Weiber acuto sullo sfondo di Wie die Weiber man behandelt]; leggermente più nostalgici: Welser-Möst nel ’93, a dire il vero live collected, e Gardiner nel ’94… solo per dirne qualcuno…
…mentre dal vivo, la componente caciarona ha spopolato… anche con un’altra idea che ha attecchito assai…
vedendo che Lustige Witwe, girala come ti pare, non dura davvero più di 90 minuti (Stolz nel ’58 la fece durare 95, ma Matačić e Gardiner vanno addirittura sugli 80!), ben presto s’è scoperto l’andazzo di aggiungerci roba a caso… soprattutto nel tanto breve terzo atto…
e nelle aggiunte, che sono state dialogiche e poi enormemente musicali, ha spesso strabordato l’adattamento al luogo di esecuzione, con un profluvio di dialetti e di allusioni regionali che hanno assai stravolto il testo tedesco: in Italia è stato un profluvio di Njegus siciliani, toscani e napoletani, ma all’estero non è andata meglio…
alcuni esempi: negli anni ’70, Richard Bonynge e Joan Sutherland hanno spesso eseguito la loro versione accorciata da loro approntata soprattutto per il mercato anglofono, tanto da riesumare l’aria Quiet Parisian che Lehár scrisse per Londra nel 1907: la loro versione, l’abbiamo visto, è finita nel disco del ’77; il live collected di Welser-Möst del ’93 taglia le parti recitate in favore di una narrazione letta al leggio da Tom Stoppard zeppa di pun britannici; almeno dal 2015, il Metropolitan di New York ha in cartellone un adattamento di Susan Stroman che aggiunge per lo meno due scene americaniste e anticomuniste…
per quel che riguarda le aggiunte musicali c’è da citare le idee di Mauro Bolognini, forse uno dei primi, in Italia (per il San Carlo di Napoli negli anni ’80, e poi per l’Opera di Roma nel ’91: quella produzione venne ripresa da Bolognini stesso per la RAI con un impagabile profluvio di zoom significanti e di goduriose riprese anche dal palco, quasi alla Pierre Jourdan: il direttore era Daniel Oren) che, per allungare un po’ il brodo, accostò Lustige Witwe alle operette di Offenbach, al Can-Can e compagnia, complice l’ambientazione parigina… a Roma, per la TV, Bolognini poteva contare sul ballerino Raffaele Paganini e su Elio Pandolfi, un Njegus in grado di riesumare l’aria Quiet Parisian… dopo il finale, Paganini sfiamma piroettando sul Can-Can offenbachiano…
ancora più radicale l’allestimento che Beni Montresor e Brian Bullard (quello di Brian & Garrison) approntarono per l’Arena di Verona nel 1999 (il direttore d’orchestra era Anton Guadango e il regista TV, per la RAI, era niente meno che il povero Ugo Gregoretti): subito dopo l’aria di Vilija, nel secondo atto, la protagonista Cecilia Gasdia presenta agli ospiti l’astro nascente Andrea Bocelli, nella diegesi chiamato «il tenore Andrea», che si mette a cantare due o tre arie famose d’opera italiana a caso, per almeno mezz’ora…
queste interpolazioni sono sempre involontariamente divertenti, poiché, per lo meno, assurde, visto che chi le usa poi è quello che taglia ciò che Lehár aveva scritto proprio per i cambi scena, cioè l’intermezzino con la ripresa della Vilija tra secondo e terzo atto… [e alla fine va dato atto a Damiano Micheletto e Constantin Trinks di averla fatta senza alcun intervento a Roma nel 2019: cosa rarissima per uno show dal vivo: ne esiste una ripresa televisiva della RAI effettuata dall’ottima Claudia De Toma]
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Probabilmente per la prima volta allo Sferisterio, Lustige Witwe arriva, bene o male, nella versione di Ferdinando Fontana, La vedova allegra, riadattata da Gianni Santucci…
la regia è di Arnaud Bernard, spesso attivo anche all’Arena di Verona…
Bernard si limita al décors, certo con eleganza, ma anche con una certa “economia”, preferendo puntare sulla quantità di gente in scena, davvero tanta, coreografata proprio dal Dramaturg Santucci, invece che sul costruito, sul dipinto o sul proiettato…
aggiunge una piccola sottotrama di Olga, moglie allegra di un diplomatico; monta una scena prima del preludio del funerale del marito di Glawari con una pesante orchestrazione della Marcia funebre di Chopin (ovvero il terzo tempo della sonata op. 35, la seconda sonata per pianoforte di Chopin); e, soprattutto, punta su un grande corpo di ballo…
sulla scia di Bolognini, il terzo atto è inondato non solo di Quiet Parisian e del Can-Can, ma anche da almeno tre scene (quelle conclusive) del balletto Gaîté parisienne che Manuel Rosenthal compose su musiche di Offenbach nel 1938 per Léonid Massine, tutte ballate bene dal corpo di ballo, ma assolutamente interminabili, anche perché non c’incastrano niente e spappolano la drammaturgia di Lehár, molto attenta a mantenere un terzo atto minuscolo proprio per striminzire la gioia finale in ambito di filosofia malinconia (i.e. sì, si ride, ma un attimo: nella memoria deve restare la nostalgia di Lippen schweigen)
ok, i divani sono molti…
le silhouette tante…
i costumi (di Maria Carla Ricotti) sfarzosi…
e alla fine sono esplosi anche i fuochi d’artificio…
sicché lo spettacolo è, per certi versi, lussuso…
ed è una regia classica, che ha puntato molto sulla componente volgare e grave del testo, oziando anche sul regionalismo che tanto ha imbrattato l’operetta: le battute sessiste, anche quelle aggiunte, erano tantissime, e Njegus parlava napoletano…
tutto sommato, però, niente né di nuovo né di particolarmente sgradevole… una sorta di mediocritas, forse aurea, piacevole ma con grande rischio di far calare la palpebra qua e là…
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L’orchestra era diretta da Marco Alibrando che, pur acconsentendo sia alle interpolazioni sia al taglio dell’intermezzo, ha condotto una performance musicalmente eccezionale…
a dispetto dei dialoghi squallidi, ha mantenuto la musica dalle parti tristi e nostalgiche, tagliando tempi lenti e strappacuore, amministrando gli ottoni con le oscurità che servivano, riuscendo a far squillare i violini Jugendstil e a sparare con fragore i cori e i concertati…
veramente da 10 e lode!
meno centrata, invece, l’idea di far suonare ossessivamente l’orchestra anche durante gli applausi finali: il risultato è stato inquinamento acustico che non ha fatto godere ai cantanti il successo meritato…
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Mihaela Marcu (Glawari) era avvenente e dal suono ideale… non ha sbagliato un colpo…
Alessandro Scotto di Luzio (Danilo) sembrava registrato da quanto era perfetto…
Cristin Arsenova (Valenciennes) è stata ottima ballerina e cantante con buone basse…
Valerio Borgioni (Rossillon) è stato bravo, ma nel momento dell’acutone del Rosenknospe ha controllato poco…
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le parti dialogiche erano microfonate con cattura panoramica e diffuse con vistose casse sul terrapieno, adiacenti al palco…
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Il primo Macerata Opera Festival sotto la direzione artistica di Marco Vinco (nipote del grande Ivo) comincia non benissimo per il cambio d’entrata del loggione (da porta 1 a porta 2: cosa deleteria, poiché il pubblico del loggione a posto unico non numerato deve sudarsi l’arrivo al centro del loggione se non vuole rimanere nell’inferno laterale a non vedere e sentire niente, e quindi fargli fare l’ingresso insieme ai numerati di gradinata, che vanno comodi comodi, vuol dire condannarlo al rischio) e per il deterioramento tecnologico dei lettori di codice a barre, moltissime volte impossibilitati a leggere i codici di biglietto dal telefonino: siamo stati obbligati a perdere la fila per andare a farci stampare i biglietti in biglietteria: nel 2025 è completamente atroce!
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