Il «Superman» di Gunn

—>c’è gli spoiler<—

Non so se per calcolo o per miracolo, ma James Gunn riesce ad annusare lo spirito del tempo quando si tratta di far uscire i suoi reboot fumettari…

Per la Suicide Squad azzeccò la ritirata dall’Afghanistan e per questo Superman centra il clima di Trump e dell’invasione Ucraina…

Certamente ‘sto Superman è l’ennesima americanata che promuove lo stile di vita WhatsAmericanBoy, tra grattacieli, barbecue, esercito dirompente, governo imperante, sicurezza nazionale prima di tutto, animali domestici, vacche al pascolo, babbi e mamme orgoglioni, pop culture come divinità, la sweetheart che ricambia il tuo amore, e tutto il resto…

…ma ce la fa a essere molto politico…

ok, spesso sale sulle spalle di altri: l’iconografia (e, in modo davvero entrante, la musica) è ancora quella del Superman di Donner (la magia che i vecchi Donner e Williams riuscirono a scovare perdura dopo 50 anni: non è da tutti), e il logos dell’esistenza etico-amministrativa dei supereroi è quella classica di Alan Moore (non parlatemi, vi prego, degli Incredibili!), e anche, perfino, del Man of Steel di Snyder (e Gunn era quello che diceva di schifare Snyder, e aveva parecchia ragione, ma certe cose “buone” quando sono “buone”, sono “buone”), ma va più al sodo e meno al teologico, e più al contemporaneo e meno allo speculativo…

Trump e Putin, con i loro affari, sono rappresentati alla perfezione:
c’è tutto: l’imprigionamento degli oppositori, le torture ai dissidenti, il fregarsene del mondo (anche “quantistico”) pur di avere un tornaconto, il dividere le famiglie, l’asservire l’informazione, lo sfruttare la pecoronaggine della gente, e, soprattutto, l’invidia del menomato nei confronti di chi è più umano di lui (e ci rientrano tutti: dai razzisti invidiosi della maggiore prestanza dei neri, ai nazisti rosiconi per la maggiore intelligenza degli ebrei: cosa che si sente parecchio in inglese, dove il termine alien è quello su cui più di altro punta la propaganda, ed è più forte dell’italiano alieno o immigrato: non voglio davvero essere nei panni di Marco Mete)…

e c’è anche, velato, il sentore del pericolo che è nella dose più che nella cosa (alla fine, i militari si rendono conto di allearsi, eternamente, con gente che non li spazza via solo per bontà personale, e quindi tutto il mondo è basato, appunto, su gentilezza e fiducia nel prossimo)…

il tutto inquadrato con la macchina da presa di James Gunn, che sa di essere macchina da presa, tanto da essere perfino in scena, come non accadeva dagli anni ’80 e come il povero Matt Reeves non è riuscito a fare (in confronto a Gunn, quelli di Reeves sembrano orrendi tentativi abortiti):
Luthor manovra quasi come un regista televisivo le sue telecamerine: vede le loro immagini in una vera e propria sala di regia
la gente guarda i combattimenti dalle vetrate dei grattacieli come si guarda un film e, nello stesso tempo, riprende tutto col telefonino: e Gunn usa anche le immagini del telefonino come film!
il selfie panottico è perfino nodo diegetico di risoluzione salvifica!

Gunn riprende tutto e usa qualsiasi immagine palesando di stare inquadrando, in un film che, davvero, sembra girarsi da solo grazie allo sfruttamento di tutti i punti di vista, che non producono un film happening, perché, nella sua configurazione, la presenza dello stesso film e dello stesso regista è parte in causa…

è come se Gunn e la troupe si palesassero (in special modo la seconda unità delle scene d’azione animate, che si basano, spesso, su un punto centrale di sguardo che osserva meravigliato le coreografie dei combattimenti: vedi Lois, nella bolla di Mr. Terrific, che è come sballottata in un IMAX 4D) e partecipassero, primi inter pares, allo showing del loro stesso cinema, che scherza tantissimo con gli occhi (perfino quelli dei mostrilli casuali) e con gli schermi offline, a canzonare la fine della visione che è salvezza (quando Luthor NON VEDE allora ci si salva)…

Gunn scherza con tutto questo, quasi ammonendo a non prendere sul serio il film che sta girando, e che rende evidentemente un film, e magari ammonisce a non prendere sul serio nulla di quanto sta mostrando, come a suggerire che, forse, la sguardo sarcastico, scettico, e consapevole della fintezza, è la sola chiave per sconfiggere l’eterna bugia del potere invidioso e assetato di denaro…

…oppure che le immagini, forse, non si leggono né si capiscono e quindi è solo il come noi intenzionalmente inferiamo, da loro e su di loro, la questione del tutto… cioè la vecchia (vedi anche l’Anatomie d’une chute) beffa che è come *ti racconti* che determina quello che sei…
il film di Jor-El, sempre frainteso da Superman per tutta la vita, affermava A invece di B, ma se io ho capito B e ho agito sempre come B, e quel B rappresenta il mio essere, allora è B che conta (vedi anche Park Place): è B la verità, al di là di qualsiasi fatto: un insegnamento scivoloso se rapportato alla scientificità, ma enormemente nutriente quando si parla di autodeterminazione e autolegittimazione…
…e se ne parla, perché Gunn non rinuncia a una spruzzata di sano psicologismo (carinissimo, anche se scontato, il doppio negativo Superman)…

parliamoci chiaro, si sta parlando dell’ennesimo Superman, che è anche orrendamente prevedibile (che il babbo gli dica «I’m proud of you» e che Lois finisca per dire «I love you too» è più che ovvio), ma se i DC d’ora in poi saranno tutti così, cacchio, io sono disposto, se non a essere contento, almeno a sorridere…

Nicholas Hoult giganteggia…
Rachel Brosnahan sa quello che fa…
Nathan Fillion è la maniera di se stesso, ma riesce ancora a far ridere…
Corensweth non ha il carisma di Henry Cavill, ma partecipa all’ironia in maniera non brutta…

4 pensieri riguardo “Il «Superman» di Gunn

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