28 Years Later

Dopo la sminchiatella che fu Yesterday, Danny Boyle torna alla grande con un film passionalissimo di sentimento (la morale «Memento amari» è da lacrime) e nutrientissimo per immaginazione cinematografica…

Dopo anni in cui tocca sentire che Challengers (in cui, vi ricordo, ci sono le soggettive delle racchette, e, per mera sboronaggine, si mostra il pavimento trasparente, inquadrato da sotto, per mostrare un rimbalzo di una pallina che non ha motivo di esistere se non la mostrazione della coglionaggine del regista) sarebbe il non plus ultra del cinema, Danny Boyle arriva a farci vedere davvero l’amore per le immagini, la goduria di plasmarle e di giustapporle le une con le altre per produrre senso, diegesi, morale, emozione, angoscia, terrore, compassione, catarsi…

porco

boja

Ancora dopo i capolavori di 25 anni fa (appunto 28 Days Later, Millions, Sunshine, o anche Slumdog Millionaire), Boyle è lì (col fido Anthony Dod Mantle) a impastare i frame con divertimento, efficacia, sapienza e immensa consapevolezza di sguardo, narrazione e metanarrazione

ogni pezzetto minuscolo di fotogramma è connesso con l’altro sia in termini di mera grammatica sia alludendo a parentele motiviche, iconografiche o anche funzionalistiche (in senso strutturalista) rispetto alla dispositio della trama, della sua idea, e dei pensieri dei personaggi che sottintendono a quell’idea…

l’allitterare delle immagini crea azione, sogno d’azione, e progetto d’azione, e riesce a creare shots che sono, insieme, sia flashback sia flashforword, sia mente sia materiale di costruzione…

come se le immagini fossero mattoni, o vetro da modellare, o davvero pezzi di stoffa da cucire insieme mediante parentele cromatiche, spaziali (di durata o punto macchina), di forma o contenuto…

un film che è come un cubo di Rubik non ultimato fatto a sua volta di cubi di Rubik non ultimati che, insieme, però, producono senso… come quelle foto, una accanto all’altra, che viste dall’alto producono loro stesse una foto più grande…
oppure, meglio ancora, è un film che è fatto di segmenti frattali di cellulette (materiali o allusioni di materiali) che producono meravigliose sezioni auree sinusoidali perfettamente sensate…

un miracolo scientifico del cinema che è l’unico possibile per rendere il miracolo emotivo della vita (è coinvolta anche una nascita miracolosa), della morte e dell’esistenza stramboide ma inintelligibilmente ordinata (alla Escher) che esprime la trama: un misto tra le idee del George Miller più etnografico e Stalker di Tarkovskij (vero correlativo oggettivo per lo sceneggiatore Alex Garland, vedi anche i commenti ad Annihilation) che non può non commuovere, anche passando sopra le diverse lungaggini (tipo il personaggio di Erik o la prolissa catabasi con Jodie Comer)…

Trucco, parrucco e stucco meravigliosi…

Ralph Fiennes in partissima

e una musica degli Young Fathers tutta da ascoltare (la corsa all’alba verso il portone, inseguiti dall’infetto Alfa, è ritmata da una rielaborazione del Vorspiel del Rheingold di Wagner, nelle Musiche per l’alba, già usato da Malick in The New World: Wagner è colui che ha inventato il senso di materiale da plasmare in temi ricorrenti che sono l’architettura dell’opera: modo che usa Boyle con le immagini)

Non so per quali ragioni contrattuali, forse connessi all’acquisto d Fox da parte di Disney, il film è distribuito dalla Columbia di Sony invece che dalle sussidiarie Fox come sono stati i primi due (passaggio di proprietà che evinco aver coinvolto, soprattutto, il produttore Andrew Macdonald)…

Evidente, tra ragazzini alle prese col il rito di passaggio della violenza proprio con un arco, l’influsso del vecchio John Boorman (Deliverance ed Emerald Forest)

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