Nei pessimi tempi che corrono, il constatare quanto il potere “manipoli” l’immagine per ricavarne un’opinione a fini propagandistici è un’operazione quotidiana. E sono centinaia d’anni che il cinema ci avverte nel considerare questa nefasta prerogativa del potere con attenzione. Essendo il cinema stesso un’arte dell’immagine assai consapevole della sua “fintezza”, è adatto a rappresentare la “manipolazione” in maniera quasi naturale, tautologica, perfino. Qualsiasi film è un monito a guardare con attenzione tutte le immagini che lo compongono per trovarci i trucchi e le “impossibilità” [inutile ricordare i tabù individuati da André Bazin, ormai 60 anni fa, come cartine di tornasole per saggiare la “fintezza” del film, e cioè la morte e il sesso: quando li vedi sullo schermo smascheri tutta l’essenza di finzione dell’immagine. Cfr. André Bazin, Qu’est-ce que le cinéma?, 4 voll., Paris, Éditions du Cerf, 1958-1962 e l’interessante Paula Quigley, Realism and Eroticims: Re-Reading Bazin, in «Paragraph», XXXVI/1 (march 2013), Edinburgh, University Press, 2013, pp. 31-49], appunto come aiuto a considerare assai labile la rete di percezioni che chiamiamo “realtà”, così da poter “decifrare” quella “realtà” il meglio possibile; e quando il cinema utilizza questa sua natura intrinseca per illustrare proprio gli inganni del potere escono film tutti da recepire e somatizzare.
Prendiamo, a solo titolo di esempio, due titoli che appaiono adatti a indagare l’oggi: uno è Moloch di Aleksándr Sokúrov, 1999 e l’altro è il classico If…. di Lindsay Anderson, 1968.
Entrambi presentano la loro situazione iniziale in un modo che sembra il più possibile realistico: una situazione iniziale che si affaccia al pubblico come “normale”. Eppure si capisce ben presto che quella situazione è afflitta da problemi, ha qualcosa che non va: è una situazione dittatoriale, una situazione in cui il potere agisce, appunto con manipolazione, con prevaricazione e poi con violenza. E per renderci consapevoli di questo, Sokúrov e Anderson usano le immagini come indizio di malessere: immagini che insinuano sensi nascosti, non immediati, quasi subliminali, in ciò che si vede, in ciò che a prima vista sembra normale.
Moloch racconta di una vacanza di Hitler a Berghof, vicino Berchtesgaden, con Eva Braun, Martin Bormann e i coniugi Goebbels [è il primo film che Sokúrov ha dedicato ai potenti del Novecento, in una sorta di trilogia: all’Hitler di Moloch sono seguiti Teléc (Taurus) su Lénin (2001) e Sólnce (Il sole) su Hirohito (2005). Sokúrov considera anche un quarto capitolo, a concludere la trilogia come un dramma satiresco classico: Faust (2011), Leone d’oro a Venezia]
È subito esplicito nel farci percepire un’atmosfera insana in sottotesto. Si apre con Eva Braun, sola a Berghof, che danza nuda mentre aspetta l’arrivo degli ospiti (Hitler, Bormann e i Goebbels): tutto sembra realistico, ma Sokúrov immediatamente costruisce un’immagine non cristallina già nell’incipit. Le mura di Berghof (riimmaginate con lo scenografo Sergej Kokovkin), sono accarezzate da una luce molto “plastica”, più da quadro che da film, e anche se appaiono solide e fascinosamente austere, si vede subito che sono completamente sghembe, quasi pendenti.


Per di più Sokúrov mette in chiaro che gli ospiti saranno costantemente spiati dai servizi segreti nazisti per garantire la sicurezza del Führer, tanto che il film avrà moltissime soggettive dai mirini delle spie.

Con questi indizi, Sokúrov riesce subito a dirci che le cose non quadrano, che ci sono elementi strani in mezzo alla visione, elementi strani che stigmatizzano quanto la vita che si sta conducendo a Berghof sotto Hitler abbia serie problematiche nascoste.
La costruzione generale dei frame di Sokúrov, così attenti agli effetti pittorici, e con l’uso significante delle linee interne alle inquadrature, richiama subito il cinema anni ‘20, soprattutto Ejzenštejn, il maestro delle geometrie insite nei frame, anche se l’utilizzo degli ambienti deformati ben presto avrà finalità psicologiche, più in linea proprio con il cinema tedesco, con l’Espressionismo di Wiene, Murnau e Pabst, che tanto è stato studiato proprio in relazione al nazismo [ovviamente mi riferisco a Siegfried Kracauer, From Caligari to Hitler: A Psychological History of the German Film, Princeton, University Press, 1947, tradotto in italiano da Leonardo Quaresima: Da Caligari a Hitler: una storia psicologica del cinema tedesco, Torino, Lindau, 2001 poi 2007].
Un’immagine così costruita e così ricca di ipotesti allerta immediatamente che là dove c’è il potere (Hitler), la “realtà” ha una vita assai complicata.
Anderson è più lento nel rendere espliciti i problemi. If…. è uno dei testi cardine del Sessantotto cinematografico [benché segni di “contestazione” ante-litteram siano evidenti già dagli anni della Beat generation, Anderson, in Inghilterra, anche se giunge un anno dopo il Bonnie and Clyde di Arthur Penn e The Graduate di Mike Nichols (entrambi del 1967 ed entrambi americani), anticipa altri classici tematicamente vicini come The Strawberry Statement di Stuart Hagmann (1970)], ed è ambientato in una public school britannica in cui il nonnismo e la prevaricazione personale agita da una élite di allievi alto-borghese ai danni di altri studenti, con la connivenza di insegnanti bacchettoni, è quasi parossistica. Ma all’inizio le cose sembrano filare lisce, in una routine da primo giorno di scuola quasi comune.
Per farci intendere che le cose vanno male, Anderson, rispetto a un Sokúrov più “storico” nei riferimenti culturali (l’Espressionismo anni ‘20), usa elementi quasi surrealisti, in contesti tutt’altro che “storici”, finendo per ottenere quasi sfumature parodiche. Per esempio, If…. è scandito da quelli che apparentemente sono episodi conchiusi, presentati da serie didascalie, didascalie che però non producono un senso preciso, quasi come quelle, volutamente provocatorie, di Un chien andalou di Luis Buñuel (1929) [Anderson ha dichiarato apertamente un’ispirazione da Zéro de conduite di Jean Vigo (1933). Gli episodi di If…. scanditi dalle didascalie sono 8: College House Return, College Once Again Assembled, Term Time, Ritual and Romance (riferimento a Jessie Weston?), Discipline, Resistance, Forth to War, Crusaders (che era il titolo provvisorio di If….)].
E se Sokúrov modella le inquadrature internamente, per renderle intrinsecamente oblique, Anderson, almeno all’inizio, sembra costruire immagini semplici, diegetiche, e preferisce suggerire il senso di oppressione con una sorta di scombinamento del montaggio: gli episodi di If…. proseguono giustapposti in modo che appare lineare, ma invece è molto tortuoso: ben presto risulta difficile seguire una trama: anche se le inquadrature appaiono diegetiche, quella diegesi comunque sfugge per via dell’astruso montaggio, che si “diverte” a non far corrispondere esattamente il prima e il dopo necessario alla narrazione [ancora utile è l’analisi del film fatta da Albert Johnson su «Film Quarterly», XXII/4 (estate 1969), Berkeley, University of California Press, 1969, pp. 48-52].
Andando avanti col film anche Anderson palesa la situazione opprimente del potere nonnista optando per uno scollamento visivo: molti episodi sono lasciati in bianco e nero, senza alcuna logica: cioè le scene in bianco e nero non hanno apparentemente nessuna ragione di esserci se non nell’indirizzare lo sguardo verso la follia della situazione di prevaricazione della scuola.
Dopo aver stabilito il tono, i registi proseguono mettendo il turbo nel rendere i loro film sempre più perturbanti.
Per far capire che il potere hitleriano aleggia su Berghof, Sokúrov punta a rappresentare anche gli scagnozzi nazisti come dei veri “demiurghi” malsani della visione: solo loro stessi a “provocare” il montaggio del film: in almeno due occasioni gli stacchi forieri di un cambiamento di ambientazione sono agiti da Martin Bormann che si avvicina violentemente alla macchina da presa, causando il nero dello stacco.


È quindi Bormann, il potere, che agisce sulla visione, che la organizza e la plasma. Agendo sulla visione, che è realtà rappresentata, allora il potere agisce sulla stessa realtà. E Sokúrov suggerisce che questi interventi del potere non giovano per nulla alla visione e alla realtà, anzi, fanno del mondo (il mondo rappresentato simulacro del mondo reale) un gorgo di purulenza inconscia. Un mondo plasmato dalla mentalità mefitica del potere.
Con le armi dell’Espressionismo, Sokúrov trasforma Berghof sempre più in una roccaforte irreale, brumosa e solitaria.


E poi utilizza un espediente a lui caro: la deformazione palese ed esagerata dell’immagine, unita a una sporcatura onnipresente, plumbea e sfocata, che aleggia sui frame. Stilemi e tessere che Sokúrov immette in tutti i suoi film [l’aggettivo che la critica ufficiale usa di più per descrivere i film di Sokúrov è amniotico.]
Da quando Hitler parla con un prete delle sue fumisterie deistiche, queste tessere imbrattano assai lo showing di Moloch, simboleggiando efficacemente la straziante deformazione del potere sul mondo.


Tutto questo quasi ostentato espressionismo ha quasi un suo negativo nello stralunato onirismo invece usato da Anderson nel suo proprio modo di illustrare l’ingerenza del potere sul mondo.
Una volta scoperto che le pratiche nonniste sono endemiche nella scuola, e si è suggerito che potrebbero forse arrivare ad abusi sessuali, Anderson comincia a presentarci una fazione ribellista, guidata da un personaggio chiamato Mick Travis, impersonato da Malcom McDowell [Anderson e McDowell dedicheranno a Travis altri due film dopo If….: O Lucky Man! (‘73) e Britannia Hospital (‘82). Quando Kubrick lasciava McDowell privo di indicazioni registiche in Arancia meccanica (‘71), esagerando nell’ad libitum, l’attore chiedeva di nascosto consigli telefonici a Anderson! Cfr. John Patterson, Malcom in the Middle, in «The Guardian» del 1° novembre 2007 e soprattutto lo stesso McDowell nell’articolo The Man Who Gave Me a Slap in the Face, ancora sul «Guardian», 3 settembre 2004].
Travis e i suoi sodali iniziano ad agire nella narrazione di If…. che, via via che la prevaricazione si palesa, si fa sempre meno certa e sempre più surreale. Le scene in bianco e nero cominciano a presentare punti macchina del tutto fuori centro, suggerendo davvero sensi surrealisti, degni di Dalì: in quelle sequenze succedono cose completamente sfuggenti.

La trama si sfilaccia sempre di più, aggiungendo personaggi simbolici, come la ragazza trovata da Travis in un bar, che forse è solo sognata, e che ritorna alcune volte come per magia, anche quando, in un’altra sequenza “sognante”, Travis e i ragazzi trovano delle armi nella scuola. Anche figurativamente, Anderson usa gli shots in bianco e nero per presentare azioni del tutto prive di raziocinio, come l’inserviente della scuola che va in giro nuda per la scuola vuota ad accarezzare pentole.

Questa incertezza da sogno preparata da Anderson sottolinea la fragilità della vita sotto il dispotismo dell’élite scolastica, ma invece di muovere verso l’inconscio e la psicologia, come Sokúrov, vira il tutto quasi in parodia, in satira. La società tirannica di If…. è da Anderson quasi presa in giro, sbrindellata e sminuzzata a livello di punti macchina, di iconografia e di montaggio quanto quella di Moloch è da Sokúrov incupita in rappresentazione mentale.
Anderson riesce a prendere in giro il potere che rappresenta, avviandolo quasi verso la farsa: le sequenze finali di If…., e non solo quelle in bianco e nero, hanno davvero il tono della sciarada. Quando il preside della scuola intima a Travis di scusarsi col cappellano, vittima di uno scherzo della banda di Travis, il cappellano esce improvvisamente da un cassettone nell’ufficio del preside!

Le immagini del potere divergono tra Sokúrov e Anderson anche perché l’approccio appare tematicamente diverso.
Sokúrov sembra suggerire che il potere hitleriano è così inconscio e interiore da appestare completamente l’essere umano, senza rimedio. Per sottolineare questo, Sokúrov ha la controversa idea di rendere Hitler inconsapevole dell’esistenza di Auschwitz, suggerendo che la soluzione finale fu tutta opera dei suoi scagnozzi (e Sokúrov rende Bormann uno degli operatori nazisti più pestilenziali). Una idea che da molti fu criticata per via della probabile assoluzione di Hitler. Invece il togliere da Hitler la responsabilità dello sterminio ebreo gli toglie anche la comoda funzione di capro espiatorio: è comodo dire «fu tutta colpa sua» quando era l’intera società a essere intrisa di razzismo. Fare di Hitler solo un agente di un potere inconscio deformato e marcio (come deformate e marce sono sempre di più le immagini di Moloch) è «dare la colpa» a tutto il genere umano, in toto complice dello sterminio. Un potere così inconscio e interiore da spersonalizzarsi e quindi universalizzarsi nel genere umano tout court (e la Berghof di Sokúrov funziona bene come simulacro di inconscio universale).
Sokúrov sublima questo discorso riuscendo anche a rendere l’idea della vergogna di Eva Braun di essersi innamorata a Hitler: in una delle inquadrature più significanti di Moloch, Eva scompare come un effetto speciale una volta capita la follia del suo amato.
Eva scompare nella vergogna come tutta la cultura degli anni ‘20, come tutto l’Espressionismo, reo di essersi colluso con l’istanza marcia del potere mentale nazista. E scompare come tutta l’umanità, la cui mentalità è ancora intrisa delle istanze inconsce palesate da Moloch.
Anderson, invece, apparentemente, con la sua presentazione di una contrapposizione tra Travis e i nonnisti, sembra trovare quasi una liberazione nel ribellismo.
Travis ispira simpatia perché è completamente alternativo allo sciatto conformismo della scuola, e si potrebbe davvero, sulle prime, considerarlo un agente di effettiva liberazione dalla tirannia alto-borghese scolastica (Travis è perfino una vittima delle punizioni corporali della élite degli allievi sadici) [lo è anche a livello musicale: il suo “inno” è il Sanctus della Missa Luba congolese, che risuona quasi rinfrescante rispetto alle degradanti messe occidentali cantate nel college. Il lavoro di Anderson di riimpasto della cultura britannica non è minore rispetto alla riimmaginazione della cultura tedesca operata da Sokúrov: If…. ha anche lui un sacco di ipotesti, dalla poesia September 1, 1939 di Wystan Hugh Auden («Those to whom evil is done / Do evil in return») ad appunto la poesia If di Rudyard Kipling, al poeta che c’è per “ammonire” («to warn») di Wilfred Owen. Aggiungo che Sokúrov utilizza Les Préludes di Liszt esattamente come Anderson usa la Missa Luba: sono i temi conduttori musicali dei film]
Ma a ben vedere neanche Travis è rappresentato da immagini così “cristalline”. Con i suoi si riunisce in una cameretta piena di fotografie a leggere aforismi guerreschi tutt’altro che rassicuranti, e a un certo punto, Travis si mette a sparare alle fotografie, che Anderson inquadra frontalmente, in una prolungata, poco sostenibile, immagine di immagini [i motti amati da Travis e i suoi derivano da frasi pronunciate o scritte da Che Guevara, Geronimo, Lénin, ma sono citati quasi alla rinfusa e fuori contesto].

Quella portata da Travis sarà davvero liberazione o sarà un olocausto di violenza dettato da fanatismi?
L’ultima immagine di If…., con l’iconico ghigno di un McDowell che spara dal tetto, un ghigno ancipite tra la follia, la gioia, la demenza, o la lucidità di stare agendo per il giusto [quello finale di Mick Travis è un sorriso quasi “leonardesco”, che tanto ha ispirato il cinema attuale: vedi le sequenze finali dei film di Ari Aster, Midsommar (2019) in primis], suggerisce che la vita sarà libera o, nella sua parossistica verve caricaturale (per rispondere al fuoco dei sodali di Travis molti insegnanti della scuola tirano fuori delle armi da qualsiasi angolo quasi come in una comica tra Stanlio & Ollio, i Fratelli Marx e Benny Hill [sia Benny Hill sia i Monty Python fecero parodie di If…. nella televisione britannica]), testimonia che il futuro, anche nel ribellismo, sarà solo connaturato dal sostituire una violenza (quella dei nonnisti) con un’altra analoga (quella di Travis)?

Con quel sorriso forse si comprende che l’intento di Anderson, più che riflettere sulla natura psichica del male, è ammonire [e qui c’è il riferimento al «to warn» poetico di Wilfred Owen] la società prevaricante che, se continua a sussistere, causerà solo reazioni di ulteriore violenza, con le vittime che si tramuteranno in carnefici [e qui arriva Auden con «Those to whom evil is done / Do evil in return»]. Un ammonire “parodistico” che è un grande topos della cultura inglese dai tempi di Swift [un contraltare americano di If…., molto più recente, ma con lo stesso intento ammonitore riguardo ai pericoli della polveriera sociale delle High School ricche di prepotenza e razzismo è Higher Learning (L’università dell’odio) di John Singleton (1995)]
Nel suo discorso sul potere, If…. forse sorprende di più per la sua precocità (il ’68) e perché è un film comunque di industria anche se British (a distribuirlo fu addirittura Paramount), mentre Sokúrov è un film tutto sommato underground (anche se sono evidenti tracce di una lavorazione non lineare: la versione internazionale di Moloch ha alcuni tagli rispetto a quella russa [alcuni sono tagli drammaturgici con l’eliminazione di una scena tra Eva e la moglie di Goebbels quasi identica alla rimasta, ma altri sono meno comprensibili: la scena centrale della scampagnata sui monti, in cui Hitler fa giochi quasi scatologici, si stenta a comprendere nella versione internazionale che la seziona in diversi punti significanti]). Ma tutti e due scelgono di esprimere nelle loro immagini il lavorio del potere. Moloch ne palesa le traumaticità psichiche universali e If…. ne indaga gli effetti nefasti sulla società: come se Moloch fosse una riflessione “interiore” sull’effetto che il potere ha sull’animo del singolo, e in sineddoche di tutto il mondo, là dove If…. invece ne indaga le implicazioni sull’etica e sul contratto sociale: come se Moloch fosse hegelianamente una tesi sullo spirito e If…. una kantiana antitesi sulla “capacità di giudizio” tra bene e male.
Di sicuro tutte e due le pellicole usano benissimo le capacità cangianti e poliedriche delle immagini cinematografiche per rendicontare quanto il potere, qualsiasi esso sia, agisca direttamente sulla realtà, quanto la deformi e la strazi, in costruzione, in forma e in materia.
Ed entrambi i film, ci dànno tutti gli strumenti, rifacendosi alle grandi avanguardie storiche, Espressionismo e Surrealismo, ancora attualissime, per vederci chiaro in tali meccanismi di manipolazione. Entrambi i film denunciano, appunto con le valenze semiche delle immagini del cinema, quanto il potere finisca sempre per essere terribile, sia in farsa (Anderson) sia in tragedia (Sokúrov).
Gran pezzo!
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