La «Salome» di Dante/Soddy al Maggio Musicale Fiorentino

Nella sua autobiografia, Zubin Mehta dichiara bellamente che gli italiani suonano malissimo la musica di Strauss!

Nonostante ciò, come forse avevamo detto a suo tempo con Wagner (nel Fliegende Holländer?), Mehta ha proposto il teatro di Strauss a Firenze quasi «tutte le volte che ha potuto», anche in occasioni specialone

Dal 1985 in poi, gli Also sprach Zarathustra proposti da Mehta al Maggio, per esempio, davvero non si contano! e la sola Salome è stata fatta in prima persona da Mehta nel 1977 (con Boleslaw Balrog) e nel 1994 (con l’allestimento salisburghese, di appena due anni prima, di Luc Bondy, poi andato anche alla Scala): giusto per rimanere nel generico

Ma senza scomodare troppo il passato, nell’offrire Strauss al pubblico di Firenze, Mehta ha avuto un complice prezioso soprattutto in Francesco Giambrone, che, durante il suo periodo da sovrintendente, dal 2006 al 2010, ha favorito non poco la presenza straussiana a Firenze…

Nel febbraio 2008, Giambrone riesce a creare, apposta per il Maggio, una nuova Elektra niente meno che con Robert Carsen e Seiji Ozawa…
Uno degli show operistici più eccezionali che mai siano stati allestiti a Firenze…
e questo nonostante Carsen denunciasse con sincerità, anche se con eufemismi, l’inadeguatezza del sistema scenico del Comunale, che definì «particolare»…

Nel 2010, Die Frau ohne Schatten inaugura in pompa magna un Maggio, che, alla fine della gestione Giambrone, si trovava nella periodica atmosfera di sfacelo che accompagna ciclicamente l’istituzione…
Già si vociferava che Giambrone fosse al suo ultimo anno e si temeva concretamente che stesse per lasciare i soliti miliardi e miliardi di debiti…
Mehta, ansioso di affrontare la Frau per la prima volta nella sua lunga carriera (in un’età sfidante la possibilità delle prime volte), presentava il Maggio al Salone dei Cinquecento denunciando per l’ennesima volta le storture manageriali italiane, con la sua solita immagine poi più volte usata: «ho diretto a Firenze col teatro sotto l’acqua per l’Alluvione e dopo 40 anni devo ancora dirigere col teatro sotto l’acqua per via dei debiti!»…
Il regista designato per la Frau, Mario Martone, rinunciava e al suo posto era stato chiamato Yannis Kokkos quasi all’ultimo, e con sé non portò granché sensibilità verso la spending review, visto che il suo spettacolo goduriosamente stilizzato non dava per niente l’idea di essere economico…
Mehta e Giambrone cercarono di garantirsi i denari statali buttandola nel mediatico, con l’inaugurazione di convegni internazionali blasonati (con le lectio magistralis di Arbasino) e l’invito, alla Prima al Comunale, di un parterre de roi di celebrità (perfino Giuliano Ferrara, che vide bene di andarsene dopo il primo atto, una volta finita la sua apparizione a favore di telecamera)…
Anche Michele Santoro, per Annozero, mandò una troupe per documentare la precarietà della Fondazione: l’inviato pose le telecamere dietro le quinte del Comunale per riprendere l’eccellenza delle maestranze e si mostrò visivamente commosso nel vederle al lavoro, tanto da lasciarsi sfuggire che l’opera era di Richard Strauss (si interruppe proprio al momento di dire il nome del compositore, impappinandosi) prima di intervistare, a fine recita, anche membri dell’orchestra che dichiaravano la propria posizione lavorativa sempre sul filo del rasoio del mancato stipendio, nonostante la grande qualità della loro expertise

Dopo neanche 6 mesi proprio Salome inaugura la stagione lirica autunno-inverno 2010-2011…
Rappresentazione maledetta perché il direttore designato Paolo Carignani abbandona per un incidente alla spalla all’ultimo minuto, lasciando la gatta da pelare al fin troppo esperto (i.e. anziano) ma non così pronto Ralf Weikert…
La regia era quella di Robert Carsen, osannata al Regio di Torino due anni prima, e Firenze aveva negli occhi ancora le sue meraviglie con l’Elektra di due anni prima…
Ma Weikert fallì nel dare pepe all’operazione…

Mehta fa ancora aprire a Strauss il Maggio solo due anni dopo, nel 2012, con il Rosenkavalier di Eike Gramms… di nuovo un titolo che Mehta non aveva mai eseguito prima (davvero curiosa la decisione di debuttare con titoli straussiani proprio al Maggio, nonostante il pregiudizio che gli italiani non siano adatti: fu uno dei segni che Mehta riteneva l’orchestra davvero degna)…
La sovrintendente, stavolta, era Francesca Colombo, che non stoppò per nulla nessuna spesa pazza e finanziò non si sa come tournée in Giappone (dove l’orchestra fu vittima addirittura del disastro di Fukushima nel 2011) e Cina, mentre il Nuovo Teatro era già attivo (dal 2011) ma, data la non concretizzazione della macchina scenica, con le opere ancora date al Comunale…
Colombo cominciò a parlare apertamente di dismettere l’orchestra stabile e concretizzò le idee di scioglimento del corpo di ballo: Vladimir Derevjanko aveva lasciato il posto di direttore a Francesco Ventriglia nel 2010, e Ventriglia iniziò un’ammirevole serie di progetti per salvare la baracca, ma non potè nulla contro la chiusura del 2015…
forse anche per queste cose la gestione di Colombo fu commissariata e poi indagata dal 2013, con la consigliatura di Matteo Renzi lì a fare da eminenza grigia su tutto: perché proprio Renzi aveva scelto Colombo, una senza alcuna esperienza in fatto di lirica, a sovrintendere il Maggio?…
In questo clima, lo spettacolo del Rosenkavalier era più in linea con il risparmio, con scene più semplici, ma non piacque granché: tutto suonò come normale amministrazione (la caratteristica del Mehta «vigile urbano» di quegli anni) e il sentore di abbandono di una nave che affondava, ciclico al Maggio tra un sovrintendente e l’altro (il commissariamento della gestione di Colombo era già nell’aria), portò via tutta l’attenzione per lo spettacolo e la musica che, per altro, al Comunale si sentiva sempre più male, con l’orchestra e Mehta non più al loro agio nell’acustica vetusta del teatro…

Dopo le gestione alla san fasò del banchiere Francesco Bianchi (il commissario chiamato a tappare i buchi di Colombro nel 2013 e poi anche lui sovrintendente senza alcuna esperienza musicale fino al 2017: è lui a chiudere il corpo di ballo e forse è lui che prende in gestione il Teatro Goldoni per poi non farci un beneamato niente che si ricordi se non gli spettacoli per bambini, e Turn of the Screw nel 2015: credo che il teatro sia rimasto pressoché chiuso fino al tentativo di farci Elisir d’Amore nell’estate 2024, durante il commissariamento di Onofrio Cutaia), fu Fabio Luisi, capo musicale (con Mehta onorario) di un ticket con Cristiano Chiarot (il primo sovrintendente ad avere esperienza a ricoprire l’incarico dopo Giambrone, dal 2017 al 2019), a proporsi straussiano, offrendo in concerto Alpensinfonie nel 2017, purtroppo non così romantica… e il ticket Luisi-Chiarot (in carica, ripeto, solo due anni: 2017-’19) non riuscì a mettere in campo nessuna opera di Strauss prima di venire cacciato da un Nardella accecato dalla volontà di avere Alexander Pereira…

Pereira venne affiancato, dal 2022, dalla direzione musicale di Daniele Gatti, che allestì Ariadne auf Naxos alla Pergola, proprio nel giugno del 2022…
Gatti veniva da una lunga frequentazione molto blasonata con Strauss: aveva affrontato sia Salome sia Elektra in ambiziosissime performance dall’esito critico per lo meno entusiasta e unanime: Elektra con Nikolaus Lehnhoff a Salisburgo nel 2010, e Salome con Ivo van Hove ad Amsterdam nel 2017…
Pereira, invece, era nel pieno delle sue fumisterie di sponsor privati e aveva aumentato i prezzi a dismisura, cosa che mi fece evitare questa Ariadne approntata dal regista Matthias Hartmann, che però le cronache, appunto sulla scia del visibilio straussianio di Gatti, vogliono davvero trionfale

Oggi, dopo l’interregno di Onofrio Cutaia, commissario post-spese pazze di Pereira nel 2023-’24, Carlo Fuortes torna a inaugurare un Maggio con un’opera del compositore monacese, 13 anni dopo l’ultima volta e 15 anni dopo l’ultima Salome del disastrino di Ralf Weikert, con l’Elektra di Ozawa e Carsen ancora là, imbattuta per smalto nei ricordi dei melomani fiorentini, e proprio con l’illustre precedente dell’Ariadne di Gatti, direttore amato da Firenze che proprio nel 2025 conclude il suo incarico di capo musicale (e ancora non si sa se ci sarà un sostituto: Gatti prenderà le redini della Staatskapelle Dresden e, nel 2026, del Teatro alla Scala, dopo Chailly)…

Della Salome dico sempre di dover parlare per benino ma poi non lo faccio mai (vedi anche quanto detto per l’allestimento scaligero di Michieletto), ma sicuramente era, per certi versi, una paraculata, pur di estrema avanguardia: un misto di tutte le istanze decadentiste vecchie di decenni (l’attrazione per il soggetto nei decadenti è materia di Joris-Karl Huysmans, che la descrive ben 20 anni prima dell’opera; Hérodiade di Massenet era del 1881, e si basava su roba di Flaubert del 1877; Wilde aveva scritto il soggetto tra 1891 e 1893 e la sua pièce viene rappresentata nel 1896) e di presunte novità armoniche, trapuntato di scintille Secession, di decorazione art pour l’art, ma insieme così sicuro di destrare scandalo, così bavarese e sornione nel suo nocciolo, così tradizionale nonostante tutto (il linguaggio che appare chissà quanto atonale ma invece è tonalissimo; le ruvidezze sonore che però aprono a non pochi melodismi davvero da poltronite valzerista, come quella che Strauss userà a man bassa dopo il 1911) e così luciferino di scherzo nell’usare quel tessuto musicale per la malattia scopica di Wilde da dare l’idea che Strauss appunto usasse più che esprimere quella malattia, così come strizzava l’occhio ai benpensanti impiegando proprio quello che sapeva avrebbe loro dato fastidio (le ultime 10 battute di rumore, per esempio, o la vociona nobile di Isolde in bocca a una povera ragazzina disturbata)…
e, malgrado tutte queste risacche di reazione, Salome era comunque, proprio per quel misto di novità paracula e di conservatorismo, l’estremo più estremo dell’avanguardia, con certe idee, tipo proprio quella di trascendere in eroismo musicale l’erotomania scopica, che sconcertano forse ancora oggi!
L’expertise di Strauss, sì paracula e sì consapevole tanto da risultare quasi falsamente professionale (l’accusa di falsità non toccò la più “sincera” Elektra, di 4 anni dopo, ma diverrà cifra melliflua dello stranissimo stile di Strauss per sempre), introiettava e faceva sue tutte le problematiche artistiche del periodo: Strauss dimostrava di conoscere e di voler appunto sorpassare sia Pelléas et Mélisande di Debussy, sia Tosca di Puccini sia Iris di Mascagni, a livello diegetico come, e soprattutto, a livello di trattamento del sistema dei temi, che Strauss sviluppa davvero come un pittore con i colori: i temi di Salome sono pochissimi, molto chiari e brevi (pochissime note) e per questo balenano dappertutto, si mischiano tra loro, sprizzano qua e là, un po’ come mero materiale e un po’ con la consapevolezza di creare sensi e intere semantiche complicate al loro apparire che sembra semplice ma che invece è arrovellato, impastato e dosato come gli ingredienti di una ricetta di altissima cucina, con, onnipresente, quel sardonico sorriso bavarese, quei valzeretti volgarotti, che Strauss metteva in contesti super-alti forse apposta per far irritare quei benpensanti di cui però faceva eternamente parte! Salome, a livello tematico-armonico, era come un semplice tiramisù presentato destrutturato e con le materie prime da 3000 euro però del tutto identiche a quelle più economiche: lo mangiavi, ti stupiva nel farti sentire il caffè a parte, ti entusiasmava anche, ma poi ti rendevi condo che era solo un cacchio di tiramisù e un po’ ti indisponeva il pasticciere che rideva di averti rifilato un semplice tiramisù mascherato da chissà cosa…
E non parliamo della furentissima efficacia con cui Strauss tratta il ritmo: incamerando tutte le news della ritmica russa, vecchissima ma presentissima e di gran moda in quegli anni che prepararono la riscoperta musorgskiana europea, Strauss dice la sua alla grande… L’eco quasi sognata di Musorgskij, di cui arrivavano pezzi e bocconi nell’Europa di allora, stava mandando in visibilio i soliti Debussy, Puccini e Mascagni (che Strauss sentiva come competitors), e i lavori di Čajkovskij (le arditezze di tempo di Romeo e Giulietta, 1880, e della Bella addormentata, 1890, spopolavano), Rimskij-Korsakov (la Šecherazada del 1888 imperversava dappertutto), Borodin (ultimato da Rimskij-Korsakov e Glazunov, lo Knjaz’ Igor’ postumo di Borodin giunge nella tedescofona Praga nel 1899) e di un sacco di persone allora rispettatissime come grandi picchi del colore e della coreutica musicale (da Ljadov a Ippolitov-Ivanov, oggi dimenticati ma allora additati come superpiù dell’esotico), ispirano Strauss in un uso del tutto anticonformista del tempo e del ritmo oggi sorprendente, che arriva ben tre anni prima del Fejerverk, il grande esordio di Stravinskij e che anticipa anche la prima parigina del Borís, sistemato da Rimskij-Korsakov (1908)…

E per uno che, fino ad allora, aveva composto quasi soltanto poemi sinfonici (Salome era la terza opera di Strauss, ma né GuntramFeuersnot erano andati al di là della Germania, e si può dire che furono bene o male piccoli successi locali a Weimar e Dresda), la cosa era una sorpresa davvero suprema: e magari per quello, per tanti anni, Salome è stata sentita come «poema sinfonico con parole»…

Tutto questo misto e quest’eredità giunge nelle mani di Emma Dante, al debutto come regista al Maggio…

Quando affrontò Carmen con Daniel Barenboim alla Scala, nel 2009, la troupe di Petruška di Michele Dall’Ongaro seguì bene la lavorazione: Dante si dichiarava refrattaria alla gestica tradizionale e si arrabbiava con Anita Rachvelišvili che provava la seconda aria con le mani legate dietro la schiena perché “così si è sempre fatto”…
Col tempo questa carica di nuova gestica si è un po’ attutita nelle regie operistiche di Dante (noi s’è visto il Macbeth allo Sferisterio nel 2019), che spesso si è concentrata sul décors e meno sul sistema dei movimenti coerenti da dare ai cantanti…

Ma nel concentrarsi sul décors, Emma Dante ha sempre spaccato…

Interpretando la marcescenza tardo-antica espressa nella musica decadentistica, Dante ha avuto l’idea geniale di ambientare Salome in un altro tempo decadente, quello del manierismo della fine del Rinascimento: l’Orco di Bomarzo imperversa sullo sfondo (un’eco dell’atmosfera anch’essa decadente, eroticamente lasciva ma insieme bambinescamente favolistica, del Meridian di Charles Band?), le guardie di Erode sono dei quasi pupi ariosteschi, candidi, stilizzatissimi e leziosissimi, che sembrano usciti dal Cavaliere inesistente di Calvino, e una selva alla Giuseppe Arcimboldo fa da quintatura… in tutto questo si odono elementi precedenti (lo sfondo piatto ricorda quello delle allegorie selvatiche di Botticelli, e certe plasticità cromatiche sembrano provenire dal Dittico di Melun di Jean Fouquet) o successivi: il lusso della corte di Erode, tra pavoni bianchi e ballerini gonfi di tessuti, sembra un misto tra l’estetica seicentesca delle Isole Borromee o dello Cunto de li cunti, e il rossore dei preraffaelliti [i preraffaelliti sono stati ispirazione anche per l’eccellente Lucia di Lammermoor di Dario Argento, 2015]…

La gestica, dicevo, è la solita di tutte le Salome del mondo, ma molto pepati sono alcuni espedienti, che denotano una serissima comprensione della musica:

  1. Jochanaan grida (probabilmente amplificato) da dentro la testa dell’Orco bomarzese, che alle sue parole si illumina, con fasci di luce che scaturiscono dagli occhi e dalla bocca (come a Lo Pan del Big Trouble in Little China di Carpenter!), e che quasi si personificano in ballerine sporche, discinte e barbariche: è come se le idee di Jochanaan prendessero vita, e non rechino solo bigottismo e misoginia, ma anche strana forza rivoluzionaria
  2. per evitare certe immobilità delle scene, Dante opta per far ballare i danzatori al latere della scena, cosa risaputa ma sempre gradita…
  3. come nel Macbeth maceratese, c’è una scena alla Amleto di Craig/Stanislavskij, con Erode al centro con un mantello che sta per l’intera sua corte…
  4. Narraboth viene fermato dal suicidarsi dal paggio, che Dante (come molti altri prima di lei) intende donna, innamorata di Narraboth… il paggio riesce a fermare il suo amato, che si uccide dopo, non visto dal paggio, che nel vederlo morto si traumatizza così tanto da voler uccidere Salome mentre lei è invasata nel pensare all’imminente morte di Jochanaan: è una scena che rende visiva la musica di Strauss, la cui efficacia viene trasferita dal non visto di Salome (la musica descriverebbe quello che Salome sente solamente) al visibile della scena: il rumore di caduta che Salome sente (la testa di Jochanaan che Salome scambia per la spada gettata dal boia che, secondo lei, si rifiuterebbe di uccidere il profeta), è il pugnale che cade per imperizia dalle mani del paggio, lì pronto a uccidere Salome ma interrotto proprio dal boia che porta la testa di Jochanaan fuori dall’Orco…
    È una cosina carina, una sottotrama molto gustosa, che però forse poteva essere sfruttata di più, magari con altri tentativi di vendetta…
  5. durante lo Zwischenspiel tra il ritorno di Jochanaan nell’Orco e l’entrata in scena di Erode, c’è una potentissima scena semica, tutta di Dante:
    le idee di Jochanaan, incarnate dalle sporche ballerine, vengono malmenate dai pupi ariosteschi, cioè dalle guardie di Erode…
    una scena molto violenta, e molto aderente alla barbarie del percussivo Zwischenspiel straussiano…
    è come se Dante suggerisse che la portata rivoluzionaria di Jochanaan, sincera anche se invasata di fanatismo, viene ingiustamente repressa dal potere, in maniere patriarcali, poiché quell’idea sincera ma invasata Dante l’ha vista femminea invece di tetramente misogina e sessufoba come è in Strauss e Wilde…
    è un elemento forse non chiaro, ma che rende bene come la corte di Erode distrugga con le cattive tutti i pensieri diversi, magari non perfetti, ma sicuramente non meritevoli del soffocamento prepotente…
  6. con la testa in mano, tutta la scena viene ricoperta da una quintatura ulteriore, che copre le selve manieriste con teli insanguinati, tanto rossi e tanto sanguigni, a ricordare le cascate di sangue dell’ascensore di Shining
  7. le luci seguono perfettissimamente la musica, e si accendono molto più seguendo la partitura che le didascalie: eccezionale l’effetto all’inizio del plauso di Salome per la bianchezza del corpo di Jochanaan, aderente perfettamente alla perorazione in fortissimo dell’orchestra…

I punti deboli che, a gusto, individuo riguardano:

  1. l’assenza di qualsiasi accenno alla luna, grande protagonista della musica: che una gonfia ballerina della corte di Erode simboleggiasse la luna si evince solo dalle interviste televisive di Dante (la prima è stata ripresa per la RAI da Barbara Napolitano: nei titoli iniziali la grafica è caduta in evidenti refusi per la lingua tedesca)…
  2. il fatto che la corte di Erode, nonostante in musica si percepisca l’affollamento, e nonostante l’ottima coreografia laterale dei ballerini, rimanga parecchio spopolata: a parte la scena che li vede coinvolti, risolta con geniali accenni a una tavolata da ultima cena, i farisei e la popolazione ebraica non stanno sul palco, e quindi che Erode si lamenti di essere stato derubato dell’anello e del suo bicchiere vuoto per colpa di qualcun altro, rimane un po’ là, sospeso, senza scena
  3. senza scena né coreografia rimane anche il vento che sente solo Erode, che lui percepisce come lo sbattere di ali di un gigantesco uccello… siccome in scena c’erano i pavoni coreutici con le loro code fluttuanti, si poteva trovare un modo anche di visualizzare il vento…
  4. neanche i gioielli di Erode, così colorati in orchestra, non hanno ispirato a Dante nessun gioco di luce…
  5. Dante ha lasciato le tre bellezze di Jochanaan nel canto di Salome (il corpo bianco, i capelli neri e la bocca rossa) declamate ripetitivamente, senza nessuna varietas gestuale: per ben tre volte Salome ripete l’azione di liberare Jochanaan dalle catene tricologiche (fatte con i suoi stessi capelli) con cui lo legano i pupi ariosteschi: alla terza sembrava più una mancanza di idee che un rispetto per la musica, al contrario superbamente varia e sfaccettata nel differenziare le tre bellezze…
  6. il momento in cui Salome accetta di danzare, con la promessa di ricevere tutto quello che desidera, è rimasto sguarnito, forse, di un’adeguata enfatizzazione recitativa…

Tra il pepe gustoso e i punti deboli, la Salome di Emma Dante lampeggia per stupendezza iconografica, per stupefacente adesione (pur con le cose dette) con la musica, e per ricchezza di materiale costruttivo (le scene sono di Carmine Maringola, le luci di Luigi Biondi) e coreutico (la coreografia è di Silvia Giuffrè): i giochi di luce degli strepitosi costumi (di Vanessa Sannino) meravigliano e tutto quello che deve esserci c’è a mille!

magari appare come una Salome solo illustrazione e poco arrosto, ma certi guizzi ce li ha e la perfezione della realizzazione la salvano da qualsiasi gratuità

Non siamo, per capirsi, davanti al vuoto riempito, da incompreso Simbolismo, di uno Stefano Poda: Dante illustra davvero qualcosa della musica di Strauss, ne percepisce il decadentismo (traslato in manierismo figurativo) ed esprime molto bene (pur con i punti deboli che si diceva) i suoi orrori (il sangue finale), il suo compiacimento (nei lapislazzuli coreutici) e la sua mirabolanza motivica (nella eccelsa capacità di invenzione scenografico-costumistica)…

Dal punto di vista musicale, Alexander Soddy, anche lui al debutto al Maggio, ha dovuto sopportare la defezione di Allison Oakes e l’arrivo all’ultimo minuto di Lidia Fridman, che ha avuto solo pochi giorni per adattarsi all’impostazione di Emma Dante…

Sui social del Maggio, Soddy sembrava mettere le mani avanti dicendo che, per far sentire i cantanti, doveva silenziare molto un’orchestra ansiosa di troneggiare…

Rispetto agli ultimi due disastri musicali da me visti al Maggio (il Rigoletto di Livermore/Ranzani e la Norma di De Rosa/Spotti), Soddy ha riportato l’orchestra al grado di efficacia e perfezione che merita (coi soliti esempi recenti del Falstaff di Gardiner e del Rake’s Progress di Gatti)…

Neanche Soddy ha brillato per chissà quali novità interpretative, ma ha portato a casa una Salome correttissima e fascinosissima di adesione alla partitura: cattiva dove c’era bisogno, adeguatamente narrativa come si deve (senza l’astrusa idea di poema sinfonico con parole, ancora presente anche in dischi recenti), e con un uso dei colori che il Maggio ha compreso alla perfezione…

Soddy non ha attutito l’orchestra per i cantanti, ma ha ottenuto un suono da autentico golfo mistico wagneriano, potente nel suo impastarsi di diverse voci, mai granché aguzze, ma tutte vaporose, caldissime (anche nei ritmi autenticamente bavaresi), sontuose di volume quanto sicure di perfezione estetizzante, con tutti gli strumenti a sbalzare in contesto *insieme* a tutti gli altri…

Una lettura che non ha la forza della vera interpretazione: non ha la psicologia di un Sinopoli, né la violenza di un Solti, né la cattiveria bacchica di un Böhm o di un Moralt, e non ha il compiacimento sonoro di un Ozawa o di un Karajan, ma ha la certezza di stare dicendo tutto quello che c’da da dire del testo, che magari non viene interpretato ma letto con le controgonadi, con la sincerità del lussuossimo reading, dalle parti di un Dohnányi, ottenuto con uno smalto tecnico prodigioso: più di tutti, il risultato di Soddy sembra quello di Mehta: Soddy conserva lo stessa magnificenza romantica del finale e della disputa ebraica e lo stesso senso complessivo della misura, arricchita di cromatismi, nella concertazione e in più ha un maggiore senso della diegesi e una consapevolezza di lusso wagneriano tutte sue!…

e il Maggio non fa per niente rimpiangere i Berliner!
i sottovoce sonorissimi dei fiati hanno spaccato e perfino i corni sono stati stupefacenti per misura e adesione alla lettura complessiva!

e la precisione di qualsiasi attacco era siderale: sembrava una performance registrata!

Se consideriamo i pochi giorni di prove, Lidia Fridman (una russa quasi veneta di adozione non ancora 30enne), dimostratasi tanto inadeguata a Puccini nello special lucchese di Riccardo Muti del 2024 (a questo punto per via della scarsa comprensione pucciniana di Muti), ha dato nuovi e inaspettati sensi agli aggettivi sorprendente e fenomanale
lasciata libera da Dante di fare i gesti tradizionali classici, Fridman ha sfruttato l’agilità della sua avvenenza per costruire una Salome sì rivista e generica, ma incarnata alla perfezione: la solita Salome che si struscia felina su tutti quanti, già adulta mangia-uomini invece che problematica ragazzina (come, idealmente, l’avrebbe voluta Strauss), è stata incarnata da una Fridman sensuale, che apre consapevolmente le cosce davanti a Jochanaan e sa completamente quello che fa, volontariamente e senza remore di sorta!
Una Salome davvero donna sfruttatrice, antipaticissima e vanesia, effemminata e completamente sessualizzata, che Fridman ha portato a casa con una expertise stupefacente, allineandosi alle grandi interpreti del recente passato (non aveva nulla da invidiare alle varie Nadja Michael o Asmik Grigorian o Malin Byström)..
E questo personaggio l’ha materializzato stupendamente con la voce!
Tutti quelli che potevano essere considerati punti deboli in Puccini, come la tanta recitazione e il portare a casa l’interpretazione con rubati vari, in una Salome così recitata sono punti di forza giganteschi!
Fridman è stata scintillante negli acuti, che ha raggiunto senza il minimo sforzo, potentissima nelle note di mezzo e assolutamente prodigiosa nelle note basse, straordinariamente cavernose: una gamma che desta invidia! Una bravuta davvero esemplare!
Forse si è assistito alla nascita dell’interprete straussiana più importante dai tempi di Nicola Beller Carbone!

Brian Mulligan (Jochanaan) è stato corretto e onesto: sicuro e dal timbro che ci voleva…

Nikolai Schulkoff (Herodes) è quello che, dopo Salome, ha la parte per cui Strauss si è sforzato di più: è stato ottimo nell’istrionismo ed efficace nella prosodia…

Anna Maria Chiuri (Herodias) ha preso un personaggio di solito risolto in deformata burletta fumettistica e l’ha affrontato con un rigore eccelso di credibilità stanislavskiana: tutte le urla che sporcano il ruolo lei le ha rese esattissimi acuti, lanciati quasi con eleganza, e ha tenuto la scena da vera protagonista nascosta dell’opera (tutto, in Salome, si muove in funzione di Herodias: è Herodias oggetto dell’odio di Jochanaan, ed è per contrariare Herodias che Salome agisce)…

Eric Fennell (Narraboth), poverino, è stato il peggiore del branco: non cantava male, ma di quello che ha cantato non si è sentito nulla: la sua voce era troppo flebile per affrontare la grandezza del Teatro del Maggio: quando toccava a lui sembrava di essere davanti agli sketch del Trio in cui Massimo Lopez parla facendo finta di non avere aperto l’audio!

Marvic Monreal (il paggio), gratificata dalla storiella che Dante ha ideato per lei, ha dato al suo marginalissimo ruolo uno spessore davvero inedito!

L’87esimo Maggio Musicale Fiorentino si è aperto con uno show strepitoso, davvero degno dell’Elektra di Ozawa/Carsen del 2008…

la cosa fa davvero ben sperare!


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