«He was a boy / She was a girl / Can I make it any more obvious?»
L’immortale (!?) Avril Lavigne aiuta a comprendere il senso di questo probabilmente secondo (o forse terzo) capitolo di una trilogia sull’amore (gli altri sarebbero Sex e Love, e l’ordine non è stato dichiarato dal regista) che il norvegese Dag Johan Haugerud ha fatto uscire nel 2024…
Sex è stato proiettato al Festival di Berlino a febbraio ’24 e ha circolato solo nei festival..
Love, cioè Kjærlighet, era in competizione a Venezia, a settembre del ’24, e lì è rimasto…
Dreams, cioè Drømmer, ha vinto l’Orso d’Oro a Berlino a febbraio ’25, ma era già uscito nella sola Norvegia a ottobre ’24… dopo l’Orso è stato acquisito da diverse società… in Italia lo distribuisce Wanted…
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Se, lì per lì, la vicenda potrebbe ricordare il classico Fucking Åmål di Lukas Moodysson (1998), i mondi visivo-narrativi di Drømmer non potrebbero essere più diversi…
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In un labirinto di matrioske narrative perfino gotiche, quello che sembra l’esperienza del primo amore di una diciassettenne egoriferita ed egosintonica di Oslo è in realtà il romanzo che lei scrive su quell’esperienza, o forse la poesia che sua nonna poetessa scrive sull’amore della nipote e trasferisce sul suo mancato amore anziano, o è una seduta psicanalitica che la diciassettenne forse si immagina, o è la mamma della ragazzina che si immedesima nella figlia leggendo il romanzo mentre riflette sulle mancanze della propria vita sentimentale…
i riferimenti alla letteratura imperano sia negli estenuanti monologhi descrittivi, tutti voce pensiero, della ragazzina (Ella Øverbye), sia nei riferimenti alla lettura e alla ricezione del romanzo nella mamma, nella nonna e nell’editore della nonna (che pubblica il romanzo), sia nella prima parte quando la ragazzina riflette sui propri riferimenti letterari (i classici della letteratura sentimentale norvegese), sia alla fine nei postumi quasi critici alla pubblicazione…
e che la ragazzina si evinca subito essere una insopportabile adolescente, che vede solo e soltanto se stessa dappertutto, aumenta l’obliquità di tutto quello che vediamo, perché il film è, evidentemente, una sua soggettiva, inondata della sua stessa voce fuori campo che si presenta a commentare ogni cosa, perfino lo schermo vuoto di colore (come quello dell’indimenticabile Blue di Derek Jarman, ’93)…
Haugerud (con Cecilie Semec alla fotografia, Jens Christian Fodstad al montaggio, e Anna Berg alle musiche) gioca bene con tutto questo, esibendo la sue eterne e possibili soggettive con diverse modalità di mascheramento:
- nei momenti di più caldo romance sfoderano una grana visiva pastellata di matite a cera come io non vedevo dai tempi di Fassbinder…
- nelle riflessioni, il cielo nuvoloso e le scalinate nebbiose sono accarezzate da morbidissimi carrelli, flessuosi e soffici…
- quando la ragazzina si perde nelle sue fumisterie, anche un po’ confondendosi e confessandoci di confondersi, la macchina da presa si perde anch’essa in fuori fuoco non necessari, che lentamente svicolano dal centro della scena per concentrarsi sullo sfondo (roba che manco Professione: reporter)…
- che la ragazzina pensi solo a se stessa si vede da come gli altri personaggi, spesso e volentieri, abbandonino un frame immobile (lui che quando la ragazzina è concentrata e pensierosa non cessa mai di seguirne le volute sinaptiche muovendosi anche molto), lasciandolo sguarnito di centro, con solo l’arredamento a essere inquadrato là dove madre e nonna della ragazzina (di cui la ragazzina in quel momento non si cura) sono ai margini con solo porzioni di schiene o gomiti a rientrare nell’attenzione…
e tutta questa esibizione di soggettiva esprime alla perfezione il gigantismo, certamente anabolizzato e incoerente, del sentimento amoroso: spumino dolcissimo fatto quasi solo di aria che è tutta roba tua, forse leggermente “accompagnato” dagli altri, ma fondamentalmente tuo, soltanto tuo, e fondamentalmente banalissimo, perché tocca a tutti, e a tutti quasi nelle stesse maniere, anche se a te che lo vivi sembra sempre unico, anche se basta solo un attimo di maturità in più per fartelo vedere anche a te come triviale e davvero non così maestoso come ti sembrava, a te e solo a te che te lo immaginavi…
e il film è quell’immaginazione: quel banale che diventa importante, anche se è solo e soltanto fermentazione del niente che ci si autoracconta, appunto un sogno che si fa felicissimi e che prima di raccontarlo a qualcuno che ti guarda strano per le cazzate che dici, è la cosa più bella che si ti sia mai capitata: e appena la dici, chi ti sta guardando strano ti confessa che è un’idiozia, uguale a mille altre, e totalmente astrusa, farlocca e finanche infantile o addirittura comica…
proprio come Avril Lavigne, e seguendo i dettami di Godard (che diceva quanto i sogni più belli siano quelli più banali, che coinvolgono spessissimo solo comunissime relazioni tra uomini e donne), Haugerud visualizza magnificamente la bellissima banalità dei sogni d’amore e dello stupendo sentimento acciderbicoccolo dell’adolescenza, senza mai affogarci dentro e dimenticare di distanziarsi criticamente… poiché Haugerud sa, come tutti noi adulti, e certamente come sa la sua protagonista saccentina, che la vita e quindi anche l’amore, la si produce solo noi che ci immaginiamo, cioè sogniamo, di vivere…
e magari il sogno è anche più bello quando si sa di stare sognando, e quando riusciamo a intervenire nel sogno per abbellirlo un po’ (come Edoardo Bennato: «bang bang: la sveglia che suona / bang bang: devi andare a scuola / soltanto un momento: per sognare ancora»)… e nel sogno d’amore e di vita, gli altri, e in special modo l’oggetto dell’amore, ci può anche non essere: è solo suggestione visivo-sensoriale che usiamo per materiale per costruire le nostre emozioni, con un ruolo totalmente marginale se non direttamente strumentale…
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Dura un po’ troppino (110 minuti, spesso di pure e semplici chiacchiere), ma è un capolavorino…
Assolutamente da antologia la mamma e la nonna che parlano di Flashdance, per esempio!
Per me, recente entusiasta di Oslo, il film ha anche avuto un gusto particolare turistico!
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