«Sbucci all’Isolotto», spettacolo degli Omini al Materia Prima Festival

Sei scatoline aliene alla Winter Mute di William Gibson (sono macchine senzienti con corpi hardware da PC) vengono incaricate da uno scatolone maggiore di nome Bobby di prendere informazioni sul pianeta Terra e sugli umani…

Le piccole scatoline non riescono a interrogare gli adulti, indifferenti alle domande aliene, ma registrano le testimonianze di quasi 300 bambini che incastolano in un programma da caricare in Bobby…

nel tragitto o nel caricamento, però, i 300 bambini si condensano in soli due esseri, che dànno voce a tutti i pensieri dei bambini…

Lo spettacolo, con soli due attori in scena (Francesco Rotelli e Luca Zacchini) e una terza a spuntare dal grande Bobby (Giulia Zacchini), è una continua interrogazione tra il grande Bobby, che «non capisce» certe cose umane, e i due attori/bambini/bambine che gli rispondono zigzagando nei loro pensieri…

Ne esce fuori la realtà di tutti i giorni descritta nelle parole dei bimbi, dal punto di vista dei bimbi…

Gli Omini non hanno scritto il testo: hanno solo messo insieme le vere reazioni e risposte degli alunni della scuola elementare della Montagnola dell’Isolotto durante un laboratorio condotto in accordo con gli insegnanti…

In operazioni simili, il rischio è di cadere con tutte le scarpe nel pre-Freud e nel pascolinismo fanciullinoso più idealistico, cioè nel descrivere il bimbo come l’angelicato ente privo di sovrastrutture che noi adulti dovremmo invidiare per la sincerità delle cose che il suo sguardo spotless esprime…
…un rischio che solo certi grandi (tipo Picasso, o magari Vangelis) hanno cavalcato sublimandolo bene…
…e che ci mette un attimo a trasformarsi da rischio in maledizione del nulla, giungendo a Povia e a Mr. Rain…

Gli Omini non sono caduti nella botola del nulla, grazie all’ammissione, alla constatazione e alla rendicontazione (dovuta all’esattezza del laboratorio, che teneva anche uno spazio atto a far scrivere qualcosa anche ai fanciulli più timidi e tendenti al mutismo) che il bimbo, come si sa dal 1904, col cacchio è quel fanciullino tanto bellino e carino di Povia, ma ha dentro di sé tutti gli sfracelli delle opere di Matthew Barrie e William Golding

Le parole dei bambini registrate dagli Omini sviscerano quanto la realtà dei fanciulli sia tragica per diverse ragioni a loro interne (il campionario di Inside Out: la rabbia da elaborare, i rapporti affettivi che non riescono a comprendere, le superfetazioni sociali imposte e assimilate senza capirle [in primis la divisione in generi e la subordinazione femminile], il loro tremendo cambiare ogni giorno), e, soprattutto, per infinite ragioni a loro esterne, cioè per ragioni connesse con la loro educazione e con i loro genitori…

alla fine, il grande Bobby, a consuntivo di tutto il dialogo, esprime in una canzone lo strazio di non voler crescere mai non per le idiozie varie sui vantaggi del rimanere piccoli nella bambagia, ma per la disperazione di dover affrontare e vivere ancora e ancora le stesse tragedie che si sta già vivendo, perché sui bimbi si proiettano tutte le tragedie dei genitori: il non voler crescere apposta per non diventare come i genitori…

in questo modo, gli Sbucci (titolo che allude alle sbucciature delle ginocchia e dei gomiti) diventa uno spettacolo per gli adulti più che per i bambini, dall’andamento rapsodico e quasi erratico, condotto per contiguità di aree tematiche invece che per diegesi, con salti grossi tra un argomento e l’altro, con solo la logica dello stream of consciousness a tenere tutto insieme…

uno spettacolo che mette l’adulto davanti alle proprie debolezze, alla propria vita priva di senso, attraverso gli occhi e le parole di bambini che osservano perfettamente quella mancanza di senso e che la denunciano nuda e cruda in quanto tale perché da loro stessi è sofferta in proiezione..

Usare il bimbo come mezzo di catarsi allopatica per l’adulto, ma tenendo il bimbo protagonista senza alcuna intrusione dei grandi, fa evitare a Sbucci all’Isolotto il problema di altre narrazioni che scadono subito nel testo per adulti travestito da testo per bimbi (dal classico Jumanji alla Fairy Tale di Charles Sturridge), o nella sbimbominkiata del 50enne che vuole rimanere un 10enne (vedi Valerian), ma lo rende diverso anche da prese di coscienza da Bildungsroman (tipo Where the Wild Things Are di Jonze, che poco ha a che vedere con Sendak se non il titolo), poiché in questo spettacolo il bimbo esprime se stesso e basta, negando qualsiasi connessione con l’adulto, anche quella futura…

finisce che Sbucci è sì un testo più per grandi che per piccini, ma che mantiene il piccolo in primo piano: una riflessione che guarda al bimbo per l’adulto in termini empatici e comprensivi, capaci di mettere l’adulto all’altezza del bimbo…
è una catarsi allopatica per l’adulto NON per far comprendere all’adulto l’adulto stesso (attraverso il bimbo) ma per far comprendere all’adulto il bimbo in quanto bimbo…

Chi ha visto lo spettacolo con me ha definito il senso dell’operazione rodariano… e, data la componente leggermente amara dell’intento (esplicitata non solo nel non voler crescere per non diventare adulti, ma anche nello svisceramento delle fragilità del vivere piccolo, tra bullismi e dissociazioni tra il corpo e la mente), io l’ho percepito anche dalle parti di Benjamin Britten (un genio che è riuscito spesso, e più di Barrie, a cantare la morte dell’infanzia, sfatta dalle proiezioni dei grandi) e di alcuni capitoli di Febbre di Jonathan Bazzi, specie quelli in cui lo scrittore riflette sul perché la mamma lo abbia partorito (forse solo per avere qualcuno con cui confidarsi o appunto addosso al quale proiettare tutte le proprie preoccupazioni)…

E questo testo molto interessante vive anche di semplicissima ma stranamente complessa messa in scena, che usa elementi elementari, alludendo alla schiettezza del teatro dei burattini: gli attori zampettano da soli a interagire con piccoli cubetti che nascondono ammennicoli e tecnologie (le bocche delle scatoline si illuminano, stampano fogli da cui gli attori leggono, e producono grandi scontrini di lacrime dai loro occhi), rivelando polisemie e pluralità di effetti in quello che sembrava solo un cubo (come il bimbo sembra piccolo ma è emotivamente tanto grande): al momento della canzone, il grande Bobby si apre, perfino, diventando un palcoscenico in miniatura: un teatro nel teatro

Uno spettacolo la cui parola bambina, tutto sommato “incantata”, è un contraltare al tono di nichilismo alla Fratelli D’Innocenzo che ha avuto Affogo, il precedente spettacolo offerto dal Materia Prima Festival… [altre suggestioni random: naturalmente Neon Genesis Evangelion, che è una sorta di Sbucci per i già adolescenti, che però vivono degli stessi traumi; e Millions di Danny Boyle, che, a dispetto di certe premesse dure, raggiunge il solare del sogno]

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