La nuova «Norma» al Maggio Musicale Fiorentino

Al giovane direttore d’orchestra Michele Spotti, al regista Andrea De Rosa, e poi a Jessica Pratt (Norma), Mert Süngü (Pollione), Maria Laura Iacobellis (Adalgisa), e a Riccardo Zanellato (Oroveso) tocca l’ingrato compito di riportare Norma al Maggio Musicale Fiorentino…

dopo aver letteralmente spopolato nell’Ottocento-Novecento fiorentino, Norma si fa un po’ portare via dalla Seconda Guerra Mondiale, allontanandosi assai da Firenze…
dopo il 1945 solo 5 riprese:

  • quella del 1948 di Tullio Serafin e Ugo Bassi, con Maria Callas, Fedora Barbieri e Mirto Picchi…
  • quella del 1955 a Boboli del regista Carlo Maestrini (Gabriele Santini e Argeo Quadri si alternarono alla direzione), con Anita Cerquetti, Fedora Barbieri e Franco Corelli…
  • quella del 1967: Gianandrea Gavazzeni riprese al chiuso lo show di Maestrini e chiamò Elena Souliotis, Bianca Maria Casoni e Gianfranco Cecchele…
  • quella del 1973 di Lamberto Gardelli, con regia di Ruggero Rimini, con Cristina Deutekom, Fiorenza Cossotto e Gianni Raimoni…
  • e quella del 1978-’79 di Riccardo Muti e Luca Ronconi, con Renata Scotto, Margherita Rinaldi ed Ermanno Mauro in tempi di nascente filologia integralista, con Muti tagliante il finale rasserenante del coro di guerra, allora attribuito a un copista e non a Bellini (ancora oggi una soluzione, relativa a pochissime battute, assai dibattuta: fonti autografe di Bellini, riferite forse a recite precise, recano il rasserenìo, ma non quelle che Bellini, non si sa quando, se prima o dopo aver vergato il rasserenìo, ha dato all’editore Ricordi per la partitura a stampa, con, effettivamente, tanti interventi di un copista professionista: come interpretare? Bellini non volle il pezzo stampato, quindi non lo dette a Ricordi, e quindi il pezzo è da tagliare?, oppure è il solito Ricordi a non obbedire all’autore e a stampare solo quel che gli pare intervenendo arbitrariamente, con i copisti professionisti, su quanto il compositore gli spediva? Questione insolubile, anche se, ultimamente, più filologi, forti del fatto che il rasserenìo musica tutto il testo del libretto di Romani che senza il rasserenamento risulta non accolto da Bellini senza motivo, tendono ad ammetterlo [anche se certe copie coeve manoscritte recano il rasserenìo con un testo che NON è di Romani, segno che il passo fu fonte di problemi anche in gestazione]. Stasera, Spotti non ha eseguito il rasserenameto, mentre Carminati a Macerata, quest’estate, l’ha accolto felice!)

Muti chiamò l’orchestra del Maggio per una Norma al Teatro Alighieri di Ravenna nel luglio 1994, con Jane Eaglen, Eva Mei e Vincenzo La Scola, che è finita anche in un disco live collected di EMI…

e da lì basta…

davvero una bella eredità…

Andrea De Rosa prende la cosa sul serio e usa il Teatro del Maggio al massimo, come ancora nessuno aveva mai usato, poiché il teatro, sì ultimato e utilizzato a partire dal 2011, è stato per più di 10 anni con la macchina scenica non finalizzata per mancanza di fondi [la costruzione del teatro, è noto, è stata oggetto di indagine]: solo gli interventi del 2022 (fatti in concerto con l’apertura della nuova Sala Zubin Mehta grazie a nuovi sponsor privati) l’hanno finita di costruire…
De Rosa, per primo, quindi, ha usato le nuove pompe idrauliche in grado di innalzare non solo singoli elementi scenici ma anche tutto il palco…

La trama di Norma ha permesso a De Rosa di fare gustosi riferimenti alle guerre presenti, con i romani veri e propri nazisti perpetranti esecuzioni sommarie sui druidi, e con i druidi che si assicurano l’artiglieria per la lotta armata di resistenza…

in questo scenario, i riti aruspiceschi druidici sono scurissimi rituali guerrieri dove si usano lunghe ciocche di capelli (che i druidi portano sui costumi) per “frustare” l’acqua sacra…
la luna è un duplice disco bronzeo assai terreo…
non esiste la luce: tutto è buio strinto…
Norma nasconde i suoi figli in un bunker sotterraneo dichiaratamente, nelle note di regia, simile a quello di Hitler…

Ma non so chi, se De Rosa o Spotti, ha deciso di interpretare Norma come se fosse una tragedia in prosa, non cantata, quasi priva di musica, dalle microscopicità di un Kammerspiel

è venuta fuori una musica che più che un’opera sembrava una non voluta musica di scena per un dramma recitato, solo lievissimamente gorgheggiato…

Spotti ha tenuto l’orchestra pressoché inudibile, un po’ come Carlo Maria Giulini faceva con Rossini ai tempi scaligeri (anni ’50): i cantanti sembravano i Neri per Caso…

il canto di Bellini è stato portato avanti come puro tecnicismo di esattezza, però trattenuto nei volumi, nelle dinamiche e nelle intenzioni: un canto non-canto…

era una sorta di sussurrato, ritmicamente inespressivo, magari precisissimo a livello di intonazione (almeno nelle donne, il povero Süngü ha azzeccato una nota ogni tre), ma glacialmente privo di qualsiasi intenzione, con gli strumenti come fievolissimi interventi di mero supporto a un recitar cantando che quasi manco è recitato ma solo mormorato, borborigmato e smorto… e neanche esente da certe incertezze nell’irreggimentamento del coro, anche quello compressissimo a livello sonoro…

è venuta fuori una delle opere meno comprese che abbia mai visto, con la musica che tragicamente c’era senza esserci: qualsiasi nota era lì ma non funzionava, l’orchestra non suonava, e anche le esplosioni varie (il coro di guerra, per esempio), o le accensioni emotive più prorompenti («Casta diva», l’introduzione del secondo atto, «Mira, o Norma», «In mia man alfin tu sei», il finale ultimo), giungevano attutite, con tempi per lo meno bolsi, o troppo stilettantemente aguzzi (a tramortire la melodia), di sola tecnica e nessun nervo musicale: solo lettura ectoplasmatica priva di qualsiasi animo…

così, la povera Norma, quella grande opera che affascinò anche Wagner e Schopenahuer, è venuta fuori come la dipingono i detrattori: noiosissima, interminabile, con i numeri musicali distaccati da qualsivoglia drammaturgia, con i duetti che manco funzionavano da edonismo dell’acuto, perché privi anche del canto: tutti fil di voce interiorizzati che non hanno comunicato, ma sono rimasti lì in una partitura che il direttore non ha per nulla saputo come prendere, quasi come se la leggesse per la prima volta senza capirci niente…

si sentivano di più i rumori del palco che si alzava dell’orchestra!

Anche in regia, la volontà di fare una roba da Kammerspiel si è rivelata assolutamente inadatta al teatro grande e alle schematizzazioni espressionistiche dell’opera… i cantanti-attori si muovevano con micro-gesti solo parzialmente giustificati in una scenografia stilizzata immensa, costata un sacco di soldi, che non hanno usato quasi per niente: il più delle volte stavano fermi a guardarsi, impietriti come in un dramma cadenzato alla Strindberg o alla Ibsen (che, per inciso, detestava Norma), fissi come la musica spettrale quasi inesistente in buca…

Un assoluto disastro, solo parzialmente riscattato da alcuni cantanti…

Jessica Pratt è nata nel 1979 (alcuni termini di paragone: Désirée Rancatore è del ’77 ed è considerata a fine carriera; Nadine Sierra e Roberta Mantegna sono dell”88; Lise Davidsen dell”87; Diana Damrau, che ora fa quasi solo recital, è del ’71; Marina Rebeka è dell”80 e Asmik Grigorian dell”81) ed è effettivamente nel suo
se non fosse per l’orchestra smorta, la sua «Casta diva» sarebbe tra le più smaglianti che si possano sentire oggi, e ha tutte le caratteristiche di carisma e autorevolezza…
ma è stata tramortita dall’impostazione dello show e non ha potuto nulla, se non qualche recitato buttato via forse un po’ più sentito di altri, e molti fil di voce veramente incantati…

Mert Süngü è stato ai limiti del pessimo: mai sicuro, sguaiato, con zero mordente e fascino sotto i piedi…

Maria Laura Iacobellis ha un ottimo timbro da mezzo-soprano e «Mira o Norma» l’ha cantato cristallina e in felicissimo accordo con Pratt: peccato che l’impostazione sussurrata non l’abbia per niente reso vivo
per il suo personaggio, De Rosa è stato il più ingeneroso di strumentazione: anche quando c’era non ce n’accorgevamo…

Riccardo Zanellato, bravo, ha avuto un bel da fare ad armonizzarsi alla liturgia noiosa di De Rosa: si vedeva che avrebbe voluto arrabbiarsi e sbraitare invece di fare le immotivate passeggiatine tranquille che gli hanno fatto fare…

Evidentemente certe opere non sono per tutti gli interpreti…
sono opere complesse proprio perché la loro musica non è complessa per niente…
l’interprete dovrebbe essere in grado di comprendere quanto la musica è gesto, emozione e sentimento anche nel mezzo dei ritmi blandi e anche nel mezzo ai geometrici gorgheggi che, se non compresi e innervati, finiscono per essere noiosi e anti-narrativi sfoggi di tecnica incapaci di restituire qualsivoglia senso…

Spotti non è tra questi interpreti: e infatti ha restituito il risicato organico di Bellini non come qualcosa da riportare alla luce, analizzando quando rendere fortissimi i forti o quando seguire le volute melodiche, ma solo come pochezza strumentale…
ha letto le trame sonore dei cantanti come semplicità banale invece che come qualcosa da capire e comunicare con i sensi tutti da ritrovare, riscoprire e restaurare… per lui sono state trame sonore e basta, semplici quantità che ha meramente oggettivato senza costrutto né analisi: come quelli che leggono Guerra e pace pensandolo solo come un bel romanzo d’avventure!

e idem De Rosa: ha voluto fare la super-scena politica ma poi non è riuscito a immettere il dramma politico nella vita dei personaggi, e ha traslato tutto in psicologismo privo di gesto del tutto inadatto all’opera lirica, cioè a roba in cui devi carpire l’interiore dall’esagerato esteriore delle convenzioni…

Una serata, insomma, fatta da gente che ha dell’opera un’idea di chi la guarda da lontano e forse l’ammira come un sistema comunicativo del passato, che oggi non comunica più nulla ma parla solo e soltanto a se stessa…

un peccato…

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