Il Materia Prima Festival 2025 comincia là dove era finito quello del 2024: al lavoro…
l’ultimo spettacolo del 2024, Solo quando lavoro sono felice di Lorenzo Maragoni e Niccolò Fettarappa, introdusse il pubblico di quell’oasi di gioia e riflessione che è il Teatro Cantiere Florida (quelli che ci lavorano lo chiamano «florìda») alla tragedia contemporanea che è il vivere nel momento esatto in cui la bolla del lavoro inteso come identità e fondamento della vita (oltre che della Costituzione antifascista che determina ancora, per fortuna, il nostro contratto sociale) sta scoppiando: un’esplosione che ci mette davanti allo strazio di una realtà in cui il lavoro dismette le maschere edulcorate di fondamento della vita per palesarsi chiaramente come puro sfruttamento del tempo di tanti finalizzato al guadagno in sé per sé (senza precipitati vantaggiosi per la società) di pochissimi…
–
Maragoni e Fettarappa stemperavano in deformazione comica il problema…
neanche Alberici (che con questo testo ha vinto il Premio Ubu nel 2024) evita del tutto di approdare al comico (data la tristezza enorme del soggetto, il livellare il tono verso la leggerezza aiuta a mantenere un focus che la classica «mattonata polacca minimalista fatta da scrittori morti suicidi giovanissimi» avrebbe fatto assai perdere: una saggezza scrittoria che tanti intellettualoni non hanno: dico, tossendo, per esempio, Rosella Postorino), ma del problema sviscera diversi altri aspetti…
–
In un teatro vuoto, luogo perfetto di metateatro (come spesso succede al Materia Prima Festival, in ottemperanza alla fede nel teatro come spazio precipuo per farsi domande intelligenti: vedi, lo ripeto fino alla nausea, JCS), persone che di lavoro fanno i teatranti (riflesso lontano del vecchio archetipo dell’antica Turandot di Vachtángov) dichiarano al pubblico di stare mettendo in scena uno spettacolo basato sulle disavventure di mobbing subite dal fratello del regista…
le disavventure esprimono lo scoppio della bolla sintetizzato in un singolo caso, di una singola persona, il fratello del regista, che però riguarda anche la sua famiglia, con appunto il regista e la madre…
la vicenda riguarda una improduttività del fratello del regista all’interno della sua azienda… una improduttività che lo sta portando al licenziamento, nonostante il fratello del regista non è che lavori male, è solo che ha un ritmo diverso dagli altri colleghi…
e nonostante il fratello del regista non faccia nulla, effettivamente, di improduttivo poiché la sua azienda, in effetti, non produce proprio niente…
è solo che è fisiologico per l’azienda licenziare il 10% dei propri dipendenti ogni anno così da “rinnovare” il personale per ragioni ideali e/o fiscali… e quei licenziamenti non sono tecnicamente licenziamenti, ma sono prese di coscienza dell’impiegato che sa di doversi fare da parte, di dimettersi, perché il suo avere un ritmo non conforme danneggia il profitto dell’azienda…
…e il profitto dell’azienda è lo scopo…
questa situazione crea nel fratello del regista parecchi drammi psicologici:
l’azienda lo fa sentire un fallimento e, in maniera kafkiana, il fratello pensa che l’azienda abbia ragione nel licenziarlo, perché in fin dei conti produce poco…
oltre tutto, nell’inconscio, il fratello sapeva che quel lavoro non era per lui, ma l’ha accettato perché tutta la vita, tutta l’esistenza di cui fa parte, esigevano da lui un impiego con uno stipendio, e non certamente una vita senza lavoro come poteva essere quella del musicista, “carriera” che fantasticava di avere da piccolo e a cui ha rinunciato proprio per obbedire agli imperativi categorici dell’esistenza, inculcati anche dalla madre, severa ammonitrice di quanto il posto della maggior parte dei musicisti sia il chiedere l’elemosina nelle metropolitane…
per tutte queste ragioni il fratello *non reagisce* al mobbing dell’azienda e pensa perfino che l’azienda abbia ragione!
e questo benché le ripercussioni psichiche del mobbing le subisca eccome, ingrassando e apatizzandosi…
e allora il regista si accolla il dramma del fratello, mette di mezzo l’avvocato, e sviscera tutta la crudeltà dell’azienda in tribunale e poi in teatro, traendo dal mobbing del fratello uno spettacolo…
ma nel fare questo il regista si trova ad affrontare diversi problemi…
il fratello non ha tutta ‘sta voglia di vedersi rappresentato, perché, nella sua mente, il dramma non è così dramma, e non solo: il fratello è convinto che il regista non ne sappia effettivamente niente di cosa gli è successo: il regista non ha mai davvero lavorato, perché fa il teatrante, e cioè è fuori dagli imperativi categorici dell’esistenza: è, in pratica, a chiedere l’elemosina nelle metropolitane, e perciò cosa chiacchiera di lavoro e di mobbing in uno spettacolino senza importanza fatto solo e soltanto per gente che certe dinamiche dice di denunciarle ma in realtà non le capisce, perché non è mai stato ingabbiato nei meccanismi d’azienda!?
ma se il fratello non acconsentisse alla rappresentazione, lo spettacolo non si farebbe, cosa che rovinerebbe il regista nell’ambiente teatrale, che è solo apparentemente fuori dalle masticazioni di vita delle aziende, perché in realtà è crudele e macinante esattamente allo stesso modo…
cioè lo spettacolo fatto per denunciare la bolla esplosa del lavoro come sfruttamento è, forse, esso stesso sfruttamento…
–
come uscirne?
non se ne esce…
perché lo spettacolo c’è per fare domande e porre dubbi…
non certo per risolvere quella che è la falla maggiore del nostro tempo…
e magari le domande vere sono quelle che si fanno a noi stessi: in questo senso, lo show si palesa ben presto una grande seduta psicanalitica del regista che si chiede perché il fratello è arrivato a non accorgersi di essere vittima, con toccati tutti i classici della psicoanalisi, dal complesso di Elettra in giù, con la madre, simbolo dell’educazione boomer, ad accaparrarsi gran parte del coinvolgimento (proprio lei che, deandreianamente, si credeva assolta)…
–
il giochino del teatro nel teatro è divertente, ma non è esente da certi alambiccamenti di art pour l’art un pochino avulsi dal soggetto…
il riferirsi al farsi del testo nelle stesse battute, per esempio, strappa più di una risata, ma appare, qualche volta, una posa più che una necessità…
più centrata la metafora se interpretata come seduta psicanalitica…
il regista interpreta suo fratello e si fa interpretare da un altro attore durante quasi tutto lo show, ma poi torna a essere il regista con un fratello vero ad apparire nell’ultima scena: una moltiplicazione delle funzioni caratteriali che rendono bene l’idea che tutto è la mente del regista, anche lo stesso palco vuoto…
e in quest’ottica funziona alla grande anche il metateatro che drammaturgicamente era esagerato: inteso come specchio della psicanalisi del regista, lo spettacolo nello spettacolo agisce ottimamente con le sue scene utilitaristiche (di Alessandro Ratti: immensi cartoni da magazzino Amazon vengono via via divelti mostrando oggetti palesemente scenici atti a scenografare l’area caffè dell’azienda, l’abitazione del regista col lavello e la caldaia, il pianoforte che il fratello suona per dimostrare quel talento che lavorando ha annullato) come sfondo mentale più che teatrale…
…e questo taglio avrebbe potuto essere più sottolineato… al di là dell’identità tra la madre e l’azienda che è sì ficcante ma ha un aspetto, alla fin fine, di un po’ «tirato per i capelli»…
ma questo è gusto: mio gusto personale per le metafore psicanalitiche…
…poiché, nonostante certe lungaggini e nonostante la mia percepita cerebralità di certi snodi, questo spettacolo rende perfettamente chiaro cosa è in ballo…
l’apatia del fratello che, come si dice in V for Vendetta (sto parlando della graphic novel, del finale del capitolo 13 Values: «You’re in a prison, Evey: you’ve been in a prison so long you no longer believe there’s a world outside», vedi anche 10 personaggi e Libri e librini), non riesce a pensarsi vittima né a capire cosa lo affligge, è resa perfettamente da entrambi gli attori (dall’impacciato regista e dallo spiccio e ferrigno attore dell’ultima scena)…
la desolante constatazione che l’ottemperare allo script che la società ha previsto per noi (studio, lavoro, stipendio) ha come risultato solo la devastazione psicologica, l’infelicità e lo svuotamento dei rapporti (e della comunicazione) umani è ben piazzata: i due fratelli che non riescono a capirsi per niente, nell’ultima scena, con l’«inutile» musica come unica e pretesa consolazione, colpiscono assai…
l’atroce senso che «non si poteva fare altrimenti» è reso in termini ottimamente sconcertanti…
come nella Città dei vivi di Lagioia, tutti fanno quello che è giusto fare e si sconnettono quando vedono che quel giusto, giusto non è per niente anche se giusto continua a essere considerato, visto che di soldi da guadagnare con un lavoro ancora c’è bisogno per vivere: tutti continuano a essere il proprio lavoro per potersi permettere del cibo: e questo è il sistema che sta scoppiando e che lascia le aporie psicanalitiche espresse in questo spettacolo in gente che non capisce perché per mangiare si debba passare da queste forche caudine di sfruttamento…
è fantasticamente reso anche il rovescio torturante del senso di fallimento (il tema che probabilmente fa da collante a tutti gli spettacoli del festival) che ha il licenziato, convinto, sempre, di aver sbagliato lui qualcosa non compartecipando agli obiettivi aziendali… una pesantezza insopportabile che si percepisce nella recitazione…
e tutto questo in uno lavoro che è, magicamente, anche simpatico di risate e pieno di stacchetti divertenti e trovate ironiche accattivanti…
–
Sul palco con Francesco Alberici: Salvatore Aronica, Andrea Narsi, Daniele Turconi e Maria Ariis…
–
dopo la pièce c’è stato un dibattito con una delegazione dei lavoratori della GKN, quelli licenziati in tronco con una mail per pure logiche di finanza, e dei precari dell’Università di Firenze, che la taciuta riforma Bernini (non comunicata da nessun organo d’informazione) renderà ancora più precari per favorire istituti che si presentano surrettiziamente come di istruzione e ricerca (e che continuano a chiamarsi “università”) quando invece sono pura fabbrica di pubblicità per ricchi sponsor (i.e. le varie università telematiche de ‘sto ciufolo) che non troveranno alcuna cura per il cancro ma ingrasseranno solo i portafogli di chi incassa le costose rette…
–
il Materia Prima Festival 2025 inizia col botto e finirà il 4 di aprile con altri 8 spettacoli tutti da vedere…
Lascia un commento