«La forza del destino», Prima della Scala 2024

La forza del destino è la n. 23 di Operas III

L’ultima volta che l’ho vista dal vivo (nel 2021 a Firenze), ho visto una caciaronata…

Ma anche alla Scala di Chailly ho visto quasi sempre caciaronate: Tosca e Macbeth, con i loro cast identici, mi fecero sorgere molti dubbi…

Ero quindi pronto a vedere una slabbratura di testicoli…

Invece ho pianto come un cretino…

Tutte le difficoltà della Forza del destino sono state affrontate da Chailly e Leo Muscato con le armi di chi conosce davvero la lirica: idee elementari archetipiche e singole, comprensione dei temi fondanti della trama musicale, e affidamento degli incarichi a chi sa darsi ai personaggi più che a se stesso…

La guerra, unico tema conduttore della incasinatissima trama primordiale, è stato preso di petto da Muscato, che ha usato un’unica idea scenografica (alla Vick, senza, quindi, le superfetazioni da horror vacui di Livermore), circolante e significante (non alla cacchio come la Tosca di Livermore nel 2019), nella giravolta della quale si animano alcuni diorami delle guerre del tempo, una guerra dell’Ottocento nel primo atto, la Prima Guerra Mondiale nel terzo, e una guerra anni 2000 nel quarto: il girare del palco dà l’idea della Life is a flat circle dell’opera, in cui persone continuano a ritrovarsi per caso in giro per il mondo anche dopo anni (guarda caso, Alvaro, in Italia, va a finire nello stesso reggimento dove militano i personaggi da osteria che avevamo visto in Spagna; e, naturalmente, quando decide di farsi prete va a finire nello stesso monastero dove sta Leonora: tutto è cerchio di eventi che la scenografia esprime)…

Muscato, nonostante il lusso dell’apparato scenico, allestisce i suoi décors come se fossero naturali, con un boschetto quasi onnipresente, e con rovine medievali, e la stessa super-chiesa della «Vergine degli angeli», che si ergono su rocce erbose e alberate, quasi come in alta montagna…

I gesti proposti da Muscato sono tradizionalissimi e semplicissimi, ai limiti del triviale teatrale, ma solo questi gesti, invece che certe esagerate intellettualizzazioni, si adattano ai personaggi bidimensionali e funzionali, atavici, del libretto…

e i cantanti-attori si sono trovati bene con quest’impostazione archetipica, immedesimandosi alla perfezione!

l’ascesi finale, anelante alla Pace, è stata resa da un albero che, dopo la morte di Leonora, fiorisce…
facile, semplice…
…ma non stupido né banale…

Chailly è stato grande…

forse per la prima volta mi è davvero piaciuta una sua lettura scaligera…

Ha azzeccato fantasticamente l’equilibrio tra eloquio tramesco ed esigenza musicale…

i gorgheggi non erano vani trilli staccati dal senso della scena, ma facevano parte del tutto narrativo in modo preziosissimo, e l’intesa con i cantanti in questo frangente era eccelsa…

ha tenuto goduriose note finali lunghissime e ha compreso tutti gli snodi semici della musica, e non ha sbagliato nessuna pausa pregna di senso, non ha lasciato nessuna ripresa di tema senza interpretazione, non ha abbandonato alcun segno senza una ragione drammatico-musicale… inoltre, ha tuonato con passione e urlato con forza!

il risultato, anche grazie ai cantanti, commuoveva!

lesto quando doveva, appassionato quando ce n’era bisogno, “allargante” estatico quando era necessario…

un lavoro che vorrei risentire mille volte!

Arnalda Canali, alla regia video, è incappata in tantissimi errori:

  • continua a non inquadrare mai Chailly mentre dirige, la cosa irrita… e irrita ancora di più quando lo inquadra mentre sente gli applausi del pubblico dopo l’aria solistica del cantante: sembra una presa in giro: non lo inquadri mai ma lo inquadri quando non dirige, cioè quando non serve a un cacchio… inalberi!
  • perdura nel fare carrellate sul coro, nel vano tentativo di far vedere le facce dei coristi: è roba completamente priva di senso (anche perché nella relativa velocità della carrellata col cacchio che vedi le facce dei coristi!)…
  • non ha gratificato di visione alcun solista d’orchestra nei loro pezzi clou, tipo l’arpa nella «Vergine degli angeli» o il clarinetto in «Sei tu che in seno agli angeli»: che scortesia!…
  • ha calibrato male la presenza degli alberi di Muscato, che hanno finito per impallarle parecchi primi piani…

ma la sua verve immaginativa è assai migliore della sua predecessora Patrizia Carmine:

  • non predilige le soporifere e inerti inquadrature frontali alla Brian Large, ma inquadra spesso dai lati del palco, di taglio, catturando anche diversi movimenti del fondo o del margine della scena: bellissimo!
  • fa un uso dello zoom tutto suo, ed è un uso ipersonicamente stupendo: i suoi zoommoni o sono vertigini di avvicinamento su un particolare, con un senso drammatico di urgenza dettato dalla musica, o sono lenti e kubrickiani allontanamenti, superbamente espressivi (come li faceva Zeffirelli quando venivano bene, e che Large è riuscito a fare solo due o tre volte)…
  • fa partire i movimenti di macchina basandosi sulla musica e non per muovere la macchina perché le va…
  • appronta espedienti che sono propri del video e che la regia teatrale non conosce, come il dondolamento della camera a simulare l’ubriacatura del popolo prima della sparata di Melitone nel terzo atto: molto carino ed efficace…

Se in Tosca e Macbeth era stata seppellita dal suo ego di diva, che ci arrivava ma insomma, facendo rimpiangere altri ingaggi, in questa Forza del destino Anna Netrebko ha invece fortemente creduto nella sua Leonora orante ogni 5 minuti…
ha preso tutte le frasi musicali con facilità imperiale, sempre nel pieno delle sue sonorità, e ha compreso completamente le caratteristiche dolenti della musica del personaggio…

Una vera fortuna che per fare Alvaro sia stato scritturato l’esperto 45enne Brian Jagde invece del narcisistico Francesco Meli…
Jagde è stato un buon attore e anche se un po’ afflitto dalla marmorizzazione del professionista routinier e dalla non prontissima dizione italiana, la sua impeccabile tecnica e perizia hanno portato a casa un Alvaro credibile e sincero, dalle maestose capacità canore…

Ludovic Tézier è un sommo ed è lontano anni luce da quel gigione di Luca Salsi: ha seguito Chailly nell’equilibrio sopraffino tra eloquio recitato e calligrafia canora: ha aderito fantasticamente alla grana melliflua del personaggio, tanto nobile nella voce quanto nefando nelle azioni… da Oscar…

In giro per lo meno da 20 anni, Alexander Vinogradov era a me sconosciuto, ma è stato forse il Padre Guardiano più bello che abbia mai sentito dai tempi di Cesare Siepi…

Vasilisa Beržanskaja ha 30 anni e ha già dimostrato uno smalto canoro straordinario, da annoverare tra i top del nostro tempo: con un’estensione gigantesca e scioccante ha spaziato dagli acuti di coloratura (in gioventù) alle note bassissime da contralto più scuro: un’aliena… è un po’ che si è assestata sul registro di mezzo-soprano… col suo cespo di ricci rossi preraffaelliti, la sua espressione accigliata e cattiva, e la sua avvenenza longilinea e asciutta, è una delle cantanti più buca schermo dei nostri tempi instagrammabili
questa Preziosilla alla Scala è la sua definitiva consacrazione e la coglie con le contro-gonadi…
agile, argentina e graffiante, è una Preziosilla davvero matta da legare, autenticamente zingara, arruffona e sicura di sé!

Anche per Marco Filippo Romano, classe 1982, questo Melitone è una sorta di consacrazione: capisce il personaggio e lo rende, come deve essere, odioso e classista, con lusso canoro vigorosissimo… ma rispetto ad altri esempi è rimasto un po’ generico…

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