Come per tutti i racconti di Tolstój è assai arduo ricostruire un loro iter editoriale con i semplici mezzi domestici degli OPAC di biblioteche, che, il più delle volte, sono incapaci (per mere ragioni economiche) di rendicontare sia i singoli racconti presenti in sillogi con un titolo di insieme sia, ancor di più, i loro traduttori…
per capirsi, se I cosacchi è circolato, come sembra essere, tra raccolte che si sono intitolate I racconti, Racconti, Primi racconti o altre cose così, allora è davvero difficile scoprire granché, perché di quelle raccolte è arduo stabilire cosa contengano e/o chi l’abbia tradotte…
Nello stesso grande Meridiano Mondadori dei Racconti di Tolstój, che mi risulta essere stato curato da Igor Sibaldi nel 1991, mi è riuscito davvero difficile scoprire l’Indice, e in quello che ho scoperto che I cosacchi non c’è, ma è stata dura…
Scartabellando online capisco che i Fratelli Treves di Milano già dal 1895 (Tolstój pubblicò I cosacchi sul Russkij vestnik nel 1863, una decina d’anni dopo la sua ultima stesura del racconto) fecero uscire una loro traduzione, che appare anonima, e, come sempre succede, potrebbe essere stata condotta sul francese invece che sul russo…
Siccome I cosacchi ha un titolo abbastanza univoco in italiano (non è, per capirsi, come La cedola falsa, che è circolata con diversi titoli, come Denaro falso ecc. ecc.), nella pur proibitiva indagine sulla sua circolazione, ha il vantaggio di poter essere rintracciato con facilità almeno nelle pubblicazioni che lo hanno recato come titolo…
Mi risultano, almeno, le traduzioni di:
- Boris Jakovenko (Torino, Slavia, 1927: dichiara orgogliosamente di tradurre dal russo);
- Decio Cinti (Milano, Sonzogno, almeno 1928: dichiara apertamente di tradurre dal francese);
- Erme Cadei (Milano, Bietti, almeno 1928: dichiara di tradurre dal russo);
- Laura Colombo (Milano, Barion, 1931);
- Laura Simoni Malavasi (Torino, UTET, 1936);
- Gabriello Buscio (Roma, Jandi, 1944);
- Giovanni Faccioli (Milano, Rizzoli, 1952);
- Eridano Bazzarelli (Milano, Mursia, all’interno di una grande opera con tutti i racconti e i romanzi di Tolstój condotta tra il 1960 e il 1985, che si vanta assai di basarsi sull’edizione critica sovietica di Byčkov del 1951-’53);
- Agostino Villa (Milano, Mondadori, almeno 1962);
- Vittoria De Gavardo (Pescara?, Edizioni Paoline, 1964);
- Emanuela Pulga (Ginevra, Ferni, 1974: pare che non sia uscita davvero a livello commerciale);
- Riccardo Rossi (Roma, Curcio, almeno 1978: una di quelle edizioni quasi fantasma: chi cacchio potrebbe essere Riccardo Rossi?);
- Gianlorenzo Pacini (Milano, Mondadori, almeno 1988);
- Igor Sibaldi (Milano, Mondadori, 1992);
- Luisa De Nardis (Milano, Garzanti, almeno 1996)…
La versione di Villa ha circolato parecchio, anche, tra gli altri, in Rizzoli e Newton Compton, ed è approdata nel 2021 in Quodlibet (Macerata)…
in Mondadori, alla lunga, hanno preferito dare corda al testo di Pacini invece che a quello di Sibaldi, forse perché vendibile come volume unico rispetto a un Sibaldi, concepito come silloge (i suoi Cosacchi del ’92 sono insieme alla Sonata a Kreutzer, alla Felicità familiare, e a Chadži-Murat)…
Io ho letto le versioni di Pacini e di Bazzarelli…
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Anche se sono stato molto critico verso la sua edizione di Anna Karenina, Pacini è in ogni caso un super della traduzione dal russo…
È sua una delle versioni dell’Idiota che fila meno peggio…
I difetti che ho trovato nella sua Anna Karenina ci sono anche qui:
- si affianca troppo al russo nell’usare anche i plurali russi là dove non ce ne sarebbe alcun bisogno (cioè per cose che in italiano non si pluralizzano) e non normalizza nomignoli e patronimici…
- ha questa velleità di fare una diplomatica del russo, cosa impossibile di per sé e ancora di più in questo racconto che vive di plurilinguismo, tra russo, francese russizzato, dialetti caucasici, tartaro, ceceno e calmucco: Tolstój stesso usò note esplicative per designare i termini che usava, che spesso non erano termini scientifici ma solo quelli che lui conosceva di quelle lingue… Pacini tenta di rendere direttamente in italiano il termine che Tolstój ha usato e che ha spiegato in nota, e nel fare questo usa anche lui una sua nota, che si sovrappone a quella di Tolstój, dove si prodiga in spiegazioni sulle sue scelte… un metodo un po’ pesante… anche perché non è che Tolstój usava parole calmucche per concetti o trama ma solo per décors: finisce che Pacini sta note e note a spiegarti come potrebbero tradursi in italiano stoffe, zoccoli o formaggi!
- quando le cose si mettono male, cioè quando vecchi ubriachi cosacchi si mettono a cantare scongiuri di battaglia in gergo allappato dalla sbornia, issa bandiera bianca senza neanche tentare una soluzione: fa nota spiegando che il suo testo italiano l’ha scritto lui, visto che quello di Tolstój è intraducibile…
ma stavolta usa bene certe perifrasi per rendere più comprensibile la trama, cosa che rende la sua versione molto più leggibile di quella di Bazzarelli…
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Pur senza avere le stesse remore di Pacini sul mantenersi aderente al cirillico (sui termini per cui Tolstój usò le note traduce in italiano e basta, senza tante spiegazioni, magari con solo semplicissimi glossari in calce, senza menzionare mai che Tolstój stesso usò le note per certi vocabili), Bazzarelli usa gli accenti (e quindi grazie a lui si sa, per esempio, che è Ústen’ka e non Ustén’ka; e che è Nazárka e non Názarka; però, attenzione, Bazzarelli non usa la traslitterazione scientifica e quindi è impossibile stabilire come in italiano abbia reso la X cirillica), mantiene moltissimi termini russi (ed è interessante vedere la diverse generazioni traduttive tra lui e Pacini: Bazzarelli, sul vestiario e il cibo, traduce proprio quelle parole che Pacini lascia in russo e viceversa!), prova molto bene a rendere gli scongiuri ubriachi, e mantiene alcune laconicità di Tolstój che sono chiarissime ai russi quanto inintelligibili per gli italiani…
Nel capitolo 32, per esempio, tutto preso dal rendere gli onirismi del dormiveglia di Olénin, noi italiani capiamo poco a quale finestra Olénin vada a bussare e capiamo poco dove compaia Mar’jánka… in Bazzarelli sembra che Olénin bussi alla porta della sua camera da letto, dalla quale sembra spuntare Mar’jánka… leggendo Pacini è invece chiaro che Olénin nel dormiveglia va a bussare alla finestra della capanna di Mar’jánka, anche disturbandola, e lei appare sulla soglia d’ingresso della sua capanna… dettaglio che nella diegesi non conta poco…
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Più che a Lérmontov (1840s), è ovvio che Tolstój guarda a Gógol’, a Tarás Búl’ba (1835), ma come Lérmontov mantiene lo sguardo russo e usa lo stesso setting (Tarás Búl’ba si svolge nell’attuale Ucraina e non sul Caucaso)…
da Tarás Búl’ba prende la centralità della storia d’amore, ma nei Cosacchi quella storia, come sempre sarà in Tolstój, è irrisolta e irrisolvibile, con l’uomo che crede di vedere comportamenti nella donna, nel bene e nel male, che non abbiamo alcuna certezza che ci siano, anche perché quel credere di vedere non è solo condizionato dal sentimento ma anche dall’intera cultura dell’uomo, totalmente diversa da quella della donna…
in futuro, Tolstój narrerà delle differenze culturali all’interno della Russia, e molto spesso della sola aristocrazia russa (pochi ma significativi i suoi sguardi su coppie di diverso ceto sociale, mentre molti di più sono le dicotomie tra il nobile di campagna e la principessina cittadina o viceversa), mentre nei Cosacchi le differenze sono tantissime: l’eterno nobile disilluso russo (il personaggio eponimo di Tolstój) ha a che fare con un popolo lontano, in guerra con popolazioni diverse ma affini, una guerra nella quale i russi capitano quasi per caso e sono quasi d’intralcio, quando non direttamente scomodi e violenti usurpatori o indesiderati occupanti: quel popolo lontano e belluino ha costumi totalmente diversi da quelli della nobiltà russa per quel che riguarda il corteggiamento, l’affettività e il matrimonio, e il protagonista quindi prende diverse cantonate su come trattare la sua innamorata…
In mezzo alle ineliminabili pagine di esotismi vari, e in mezzo ai protagonismi del vecchio ubriacone, alla lunga sfiancanti, Tolstój narra forse la prima (delle sue tantissime) prese di coscienza del nobile sull’assurdità della sua nobiltà e sulla sua inadeguatezza di uomo in mezzo a un mondo complesso e irrisolvibile, della cui bellezza naturale si sconcerta proprio mentre si trova a sperimentare le sottigliezze taglienti delle società umane che lo popolano…
Il nobile, che a un certo punto si era anche illuso di poter comprare coi soldi l’amore, o addirittura di potersi avvicinare alla ragazza nella giusta maniera, rimane con un pugno di mosche, additato come straniero, e se ne va solo, incapace di comprendere i veri sentimenti di un popolo complicato (fiero e naturale ma anch’esso disonesto e assassino: il cosacco Lukáška ruba i cavalli in territorio nemico e li rivende illegalmente, esattamente come fanno i ceceni suoi nemici, che lui uccide con convinzione proprio perché ladri e ricettatori), con la consapevolezza che quell’amore che ha tanto vissuto se l’era soltanto costruito da sé, se l’era immaginato, nei meandri della sua mente incantata dai monti, dalle steppe e dalle foreste, e su quell’amore immaginario ha cucito una delusione, una mancanza, una perdita che lo segnerà per tutta la vita…
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I cosacchi è basato sull’esperienza che il Tolstój poco più che 20enne ebbe come soldato in una delle tante campagne russe sul Caucaso nel 1851, prima della Guerra di Crimea (1853-’56), a cui partecipò e che aveva già narrato nei Racconti di Sebastopoli (pubblicato 10 anni prima dei Cosacchi: in mezzo c’è la pubblicazione di Infanzia, adolescenza, giovinezza, tra 1852 e 1856), ed è sorprendente come uno dei suoi primi centri narrativi sia l’eco di alcuni dei suoi ultimi capolavori, Chadži-Murat e Resurrezione, scritti 50 anni, e tanti e tanti libri, dopo…
Il russo Olénin termina il racconto come il Nechljúdov di Resurrezione e come Chadži-Murat: come Nechljúdov si è illuso di un amore che gli sfugge (in Resurrezione, Maslóva sposa Simonson) e come Chadži-Murat, anche se meno tragicamente, sente di non appartenere, sente la sua dimensione di escluso sia dai suoi (i russi lo guardano come un cretinetti incapace di vivere i vantaggi di un Caucaso molto generoso con i nobili russi) sia dagli ospiti (i cosacchi forse lo hanno sempre detestato), in cui si è trovato non per colpe ma per pura entropia, per natura, per nascita, quella nascita che egli credeva per lui privilegiata in quanto nobile e che invece si rivela motivo di disgrazia e solitudine…
e come Chadži-Murat, Olénin sperimenta con dolore che l’assurdità dei confini, delle classi sociali, dei costumi e dei popoli, che lui avverte pressante, è invece proprio quell’assurdità che lo esclude…
Olénin è il primo personaggio di Tolstój che dice «siamo tutti fratelli: i confini, le strutture e il folklore non hanno senso! sono assurdità che ci costruiamo per dividerci!» e tutti sembrano dargli ragione sulle prime, ma poi finiscono per rispondergli «no: quelle assurdità esistono e proprio in base a quelle assurdità tu rimani solo, sconsolato e perfino obbligato a rientrare in quelle assurdità che avevi sancito come inutili»…
è il primo personaggio di Tolstój che avverte l’inconsistenza della vita proprio mentre la vita stessa lo obbliga a vivere; avverte l’esigenza di liberarsi dal potere per poi piangere che il potere, che è l’esistenza stessa, quasi come una risacca marittima, lo riacciuffa, lo riinghiotte, e lo tiene lì, anche se forse indigesto, tra i succhi gastrici dell’irreggimentazione…
quanto dolore
ma quanta lucidità in un racconto di più di 160 anni fa che inaugura una colossale poetica lunga 50 anni…
…altro che Dostoevskij!
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