Turandot al Macerata Opera Festival 2024

Dopo la Lucia di Lammermoor di Jean-Louis Grinda dell’anno scorso, con questa Turandot a rimpiazzare quella avanguardistica di Ricci & Forte (ormai di 7 anni fa), il Macerata Opera Festival probabilmente sancisce la fine della sua vocazione analitica per tornare a essere un’arena estiva tradizionale

quest’anno, l’eredità dell’analisi sarà portata avanti dalla vecchia Bohème di Leo Muscato (in scena a Macerata almeno dal 2012), che manco era il massimo… e vedremo la nuova Norma di Maria Mauti

Paco Azorín, grande protagonista della stagione analitica con l’Otello nel 2016, torna con una Turandot a scena singola: sul palco una struttura rimembrante le porte templari classiche della Turandot da immaginario collettivo, risalenti perfino a Giovacchino Forzano (alla prima del 1926), o anche prima, ai primi bozzetti di Galileo Chini, e poi eternate dalle sempre uguali regie di Zeffirelli, con il gong centrale…
sul lungo palco dello Sferisterio, sotto la struttura, finte piantine di riso coltivate dal coro col copricapo conico tradizionale dell’immaginario collettivo cinese, occupano tutto lo spazio, lasciando solo il centro, e il “piano si sopra” delle porte templari praticabili, come unica apertura per i cantanti-attori…

Questa scenografia immobile ammorba una Turandot scenicamente noiosissima e immobile, da vera tradizione zeffirelliana, in cui, ovviamente, non si tenta neanche di far vedere i fantasmi e perfino la morte del Principe di Persia giunge ben poco movimentata…

deviano dalla mollezza della tradizione:

  • «stolto, ecco l’Amore» dei ministri, detto additando a Liù e non alla testa del Principe di Persia;
  • Pu Tin Pao reso da un gruppo di danzatrici;
  • i tre ministri in abiti “come gli altri”, invece che con costumi carnevaleschi a caratterizzarli;
  • Liù che, nel secondo atto, arriva come un fantasma a dire la sua unica battuta;
  • Calaf che viene quasi bendato come “iniziazione” per la scena degli enigmi;
  • «In questa reggia» e «Tu che di gel sei cinta» impreziosite da qualche movimento non male, soprattutto riferito a una Turandot molto mobile e reattiva, che prende lei stessa le lance di Pu Tin Pao per puntarle su Calaf;
  • Calaf che rassicura le mondine del coro dopo che ha risolto gli enigmi, già quasi come un re magnanimo;
  • le proiezioni semiche sul muraglione dello Sferisterio: luna, caratteri cinesi, la soluzione degli enigmi in cinese, un sole sempre più grande, il fuoco dell’alba, il fumo della morte di Liù, e una pioggia purificatrice alla fine…

per il resto, le mondine del coro, con quei cappelli conici, sono sempre presenti, tutte uguali, in tutti e tre gli atti, e le mondine fanno tutto: fanno la folla inferocita, la folla mossa a pietà, la folla sottomessa, la corte imperiale, tutto quanto: ma rimangono sempre mondine, vestite tutte uguali col cappello conico, e manco si muovono…
anche le minacce che ricevono dalle Pu Tin Pao danzanti non le fanno smuovere di un millimetro dalla loro fissità…
la cosa inficia completamente qualsiasi momento concitato (da «Gira la cote» in poi) e marmorizza nella noia tutta l’opera senza che la gestica dei cantati-attori possa farci niente, neanche quando è più felice (i.e. nel finale)…

una scena soporifera…

Francesco Ivan Ciampa è di quelli che non interpretano un cacchio, leggono e basta…
e quando interpretano enfatizzano troppo…

degno allievo di Daniel Oren, dal maestro eredita un gesto passionale (con le mani vibranti di temolìo) quanto esteriore, spesso incapace di far collimare tra loro i diversi reparti dell’orchestra e molte volte inefficace nel trasmettere precisione al coro e ai cantanti…

alla fine gli attacchi sono stati giusti forse la metà delle volte…

e nell’enfatizzare ha avuto la tendenza a spezzettare molto le frasi melodiche, anche quelle più famose (cosa evidente, assai ridicolmente, soprattutto nel «Nessun dorma» come appare nel secondo atto), scambiando la passione con una certa comodità di tempi, e il sentimento con una concertazione languida e ovattata, mai fragorosa (neanche nel finale del secondo atto!) che, nell’ambiente dello Sferisterio, ha significato precipitare la musica nell’indistinto dell’inudibile, anche nei momenti che sarebbero a tutta forza…
e lo spezzettamento delle melodia ha voluto dire pause indigeste, mai scritte, un po’ dappertutto: una concezione dell’opera NON come continuum di narrazione ma come puzzle di pezzettini che, anche se non ricostruiscono un’immagine comune, sono belli da vedere come pezzettini a sé stanti…
e la cosa non ha comportato genialità di cambi di tempo o intenzioni profonde di eziologia musicale applicata a porzioni di musica da riscoprire come nuove, ma semplice, si diceva, enfasi, superficie, come se il farlo più lento volesse davvero dire farlo più “sentimentale” o farlo più veloce volesse dire farlo più “efficace”, quando invece, senza ratio e senza un’idea comune, significano solo pastrocchio somigliante a maionese impazzita…

«Gira la cote» è andata avanti stanca e perfino in pianissimo…
«Gli enigmi sono tre, la morte è una» è andata bene, ma è giunta con tensione zero…
il finale primo ha avuto attacchi un pochino più precisi ma è arrivato smorto, con la coda tirata via in un contesto fino ad allora comodo: il cambio di tempo dopo lo scoppio del Mo-Li-Hua e la risata dei ministri era la prova che il farlo “più veloce” non era farlo né più potente né più efficace, ma era solo il risolverlo «come veniva, veniva», appunto come un pezzo di puzzle che non coincide con quelli che lo circondano, ma si pensa sia bello lo stesso perché è bella la sua forma quadrata con le propaggini tondeggianti… boh…

la scena degli enigmi e il terzo atto, grazie ai cantanti bravi, hanno retto meglio…

Alla fine, Ciampa ha cercato di mettere tutta la disperazione possibile nella morte di Liù, che era scelta come finale tout court di questo allestimento, senza alcuna continuazione, sia essa quella lunga di Alfano, quella corta di Alfano o quella di Berio, così da celebrare al meglio il centenario della morte di Puccini…

la scelta di smettere l’opera là dove effettivamente Puccini ha smesso di comporla è da me sempre sposata a mille, e ha una ormai non corta tradizione teatrale (Stefano Poda concluse con «Liù poesia» a Torino nel 2018 e non credo sia stato il primo)…

Ciampa, dicevo, ce l’ha messa tutta nell’ottenere una morte di Liù più che commovente: grazie ai cantanti, e ai non bruttissimi movimenti di Azorín, forse ce l’ha fatta, anche se anche lì non ha rinunciato alla sua enfasi spezzettatrice della melodia…

alle parole «Liù poesia», le luci si sono spente ed è partita la proiezione del volto di Puccini con la famosa frase di Toscanini (presunta) della prima del ’26: «a questo punto il maestro è morto» (o come cavolo l’ha pronunciata, se davvero l’ha pronunciata)…

era una conclusione magnifica

però poi Ciampa e Azorín hanno riacceso tutto per fare il «Gloria a te» di Alfano, riferito a Puccini, in tutta la sua esuberanza sempre fuori luogo…
e da un’idea buona (concludere con «Liù poesia» nei pianti) si è passati a una delle più colossali pacchianate che lo Sferisterio abbia mai visto…

il pubblico della prima, alla fine, ha gradito ma non troppo…

Olga Maslova ha rinnovato la sua più che stupenda incarnazione di Turandot (io l’avevo già vista e adorata a Firenze lo scorso aprile)…

Ruth Iniesta (Lucia di Lammermoor a Macerata l’anno scorso e Liù quest’anno) ha replicato tutti i suoi pro (la impeccabile precisione musicale e la prodigiosa capacità interpretativa) e tutti i suoi contro (la poca spinta vocale) dell’anno passato…

Angelo Villari (Calaf) non era un brutto tenore, e ha portato a casa un personaggio quasi compiuto finché non ha scelto di fare l’oppure acuto di «ti voglio tutta ardente» (nel secondo atto) sbagliandolo clamorosamente, e finché non è incappato nel fiato corto nell’ultimo «Vincerò» del «Nessun dorma»: quell’ultimo «Vincerò» che sarebbe scritto come forse Villari l’avrebbe fatto meglio, cioè senza quel vin-CE-rò lungo dove si è arenato: per fare quel vin-CE-rò lungo, che ha stonato, gli è anche mancato il fiato per chiudere il vin-ce-RÒ: un disastro: un disastro ancora più atroce se si sa che l’aria sarebbe scritta direttamente con vin-ce-RÒ senza alcun vin-CE a precederlo!

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