Il Materia Prima Festival 2024 si conclude con questo duo quasi cabarettistico (però più dalle parti degli stand up invece che da quelle di Zelig viste in Forse una città) molto divertente e scherzoso che però esprime lo show più dichiaratamente politico-ideologico della rassegna…
seguendo una ferrea ortodossia adorniana, per fortuna stemperata in risata, Maragoni e Fettarappa ci spiegano, con una serie di scenette agite a palco superspoglio (in scena solo due sedie e due aste con microfoni, e i due attori parlano microfonati ad archetto), il fallimento del capitalismo, con una chiarezza di intenti mastodontica, una cristallina esattezza di pensiero e una verve comunicativa indimenticabile…
le scenette si instradano dapprima sul classico dialogo col pubblico, da stand up comedian, poi con una dialettica quasi galileiana (se non direttamente socratico-platonica) tra il personaggio ideologico oltranzista (Fettarappa) e quello più duttile e “inserito” nel sistema (Maragoni)…
L’oltranzista dice da subito che lavorare è una tragedia, e un opprimente effetto del capitalismo, e il duttile cerca di farlo tornare alla realtà in un progressivo svolgersi sempre più radicale delle idee dell’oltranzista, che vede simboli adorniani in King Kong e sogna di licenziarsi e abbandonarsi al distruttivo luddismo, anelando il momento in cui si licenzierà e spaccherà i «mezzi di produzione» (con un linguaggio sempre più marxista); il duttile lo segue e raffredda non solo rinfacciandogli la realtà totalmente capitalista ma anche sognando gli stessi sogni in maniera più piddina e moderata con effetti molto ironici…
la dialettica tra i due coinvolge anche il pubblico, e l’autoironia è al centro…
la drammaturgia è precisa, ma gli attori vanno via davvero come se la dicessero per la prima volta davanti noi, con una simpatia davvero quasi televisiva (c’è chi ha parlato di Gaber, oppure di roba tra Noschese e Walter Chiari, con una “spruzzatina” dei Giancattivi o di Zuzzurro & Gaspare), che però procede con un fluire così consequenziale, e con rincorse di battute autoironiche così naturali, da far sbocciare nel pubblico una verissima gioia della riflessione proposta, perché, tra il lusco e il brusco, di riflessione lo spettacolo tratta: riflessione politica, seria e strutturatissima nella sgargiante sicurezza dell’anticapitalismo…
senza liturgie radical chic, omelie spieghistiche, o ripiegamenti alla supposta superiorità culturale della “sinistra”, Solo quando lavoro sono felice risulta essere un distillato di autentica sinistra, lontano sia dalle agitazioni spontanee gastritiche ed effimere (vedi le varie “sardine”, i vari “forconi” e i vari ed eventuali “grillini”) sia dalla laccata sicumera partitica, che, con la forza della risata, dell’azione scenica, del rapporto diretto col pubblico, e con l’assertività della forza empirica e accecante della combinazione semplice tra parole e gesti di due attori, comunica il messaggio con una precisione implacabile e diretta… e lasciarsi colpire da quel messaggio è una vera gioia, perché, grazie alla leggerezza della semplicità disarmante della filosofia dialogica (quella semplicità disarmante che ha solo la saggezza del complicato, vedi appunto Galileo e Platone, che rendono semplici le cose più complesse, sempre considerando la semplicità come una falsa amica [vedi anche Breakfast at Tiffany’s]) quel messaggio inonda di costrutto pensante tutta la logora realtà lasciando ben poco spazio alla deplorevole reazione…
una reazione che, con uno spettacolo strutturato in modo diverso, e senza l’autoironia, non avrebbe tardato ad arrivare: proprio grazie alla struttura dialogica e alla risata, quella reazione si trova subito priva di comburente…
–
Parliamoci chiaro:
io sono un narrativo, e quindi, in linea di massima, gli spettacoli parlanti più che narranti mi piacciono meno…
ma la cristallina chiarezza dell’espositio di Fettarappa e Maragoni mi hanno reso più consapevole di qualsiasi trattato sul lavoro di Mimmo De Masi!
Lascia un commento