All of Us Strangers

Io che ogni secondo devo sentire i peana e gli incensi per Nolan e Villeneuve mi sento sempre più solitario nel considerare, all’interno del medesimo contesto dell’entertaining cinematografico narrativo (non sto parlando di roba più seria, ovviamente), Craig Gillespie, Lynn Ramsay e Andrew Haigh tra i più grandi ed efficaci narratori per immagini di cui oggi disponga l’industria…
ma vivono purtroppo ai margini per via dello strapotere dei suddetti e, adesso, perfino di gente come Lanthimos, Gerwig e Fennell

All of Us Strangers ha un sacco di difetti:
funziona nello psichiatrico più che nel paranormale, e quindi quando il per tutto il film affascinantissimo inghippo di immaginazione e cura del lutto attraverso fantasie e visioni, anche “malsanette” (dalle parti della Trilogia di K.), svolta, quasi (ma fortuna non esattamente) come in Collateral Beauty, le cose si ammollano e un po’ rammolliscono…
si rammolliscono, sì, in maniera non del tutto innocente (perché le stelle finali potrebbero suggerire una morte cosmica), ma un pochino raffreddano l’allucinante clima della catarsi psicologica in una sbobbetta un po’ lacrimoforica per forza, con tanto di fantasmini che perdono parecchio del loro appeal “chiarificatore” (quell’appeal che hanno gli omologhi di Nina sull’argine, per capirsi; leggo che nel romanzo giapponese ispirativo, di Taichi Yamada, del 1987, la componente fantasmifera era effettivamente al centro, e Haigh l’ha parecchio ridimensionata)…

ma la sua narrazione per immagini è così sopraffina da incantarti, stenderti dalla meraviglia, appassionarti, commuoverti e rimbecillirti di un miscuglio di pianto e gioia!

Siccome si ha a che fare con visioni e sogni, ogni sguardo, vetro, riflesso, fuori-fuoco, cambio di fuoco, stacco di montaggio, sovrimpressione, gioco di luce (indescrivibile la fotografia di Jamie D. Ramsay), attrezzo del set (la scenografia, che disegna in oggetti e stanze i personaggi stessi, è di Sarah Finlay), e performance attoriale (solo quattro gli attori coinvolti: Andrew Scott, Paul Mescal, Jamie Bell e Claire Foy), costruita su dettagli, primi piani, movimenti leggerissimi della macchina da presa e colonna sonora (classiche canzoni prevalentemente del 1987) che riesce a essere sia intra- sia extradiegetica, sono veicolati con una obliquità, una sapienza di polisemia, una voglia di comunicare e contribuire alla trama, che lasciano davvero interdetti, interessati e attratti, anche quando quella trama, si diceva, scade un po’ nell’assurdo…

non mi succedeva di essere così contento per una messa in scena visiva appunto da You were never really here di Ramsay o, addirittura, dal Sunshine di Danny Boyle (quest’ultimo oramai di quasi 20 anni fa)…

gli specchi coinvolti parlano di dicotomie immaginifiche; i vetri dei treni, i paesaggi che si vedono dai treni, i blu accesi, le compresenze dei rossi sugli sfondi di altri colori, le ipnagogiche visioni che si costruiscono dal e nel buio, gli stacchi (il montaggio è di Jonathan Alberts) tra reale e immaginato, tra sognato ed effettivo: tutto quanto costruisce (in soli 106 minuti! miracolo dei miracoli!) un’atmosfera di ambiguità e tensione dell’incertezza, ma insieme anche un dei più caldi ambienti per l’emozione pura, psicologica, interiore e insieme esteriore, amorosa, filiale, consolante e cullante…

Haigh, con queste immagini polisemiche, fa andare a braccetto catabasi e anabasi, catarsi e sconforto, cura e malattia, amore e lutto, tensione e risoluzione: un miracolo!

e quindi è davvero un peccato la svolta lacrimoforica e smaccatamente fantasmosa del finale, che però non riesce a sporcare del tutto un capolavorino così impetuoso di narrazione per immagini (là dove i finali posticci distruggono spesso tutte le buone intenzioni e le ottimerrime pratiche di Gillespie)

Da vedere e, pur nella diffidenza per i difetti di scrittura, confrontare con l’idea di cinema di Dune Due, Oppenheimer e Poor Things, rinchiusi nell’ovvietà assolutamente soporifera del découpage classico (nonostante le superfetazioni di ripresa, del tutto autocompiacenti)…

Molto interessante che la Fox (col marchio Searchlight), oggi Disney, abbia accettato di comprare questo film britannico in cui una relazione omosessuale è così uguale a mille altre da non suscitare alcuna prurigine (prurigini che ancora ci sono perfino in altri film europei, vedi Passages)…
e non si tace granché sul calvario degli omosessuali britannici negli anni ’80 (aspetto che credo non sia presente nel romanzo ispirativo)…
sono contento di questo acquisto!

Notare bene: del romanzo esisteva già un adattamento cinematografico nipponico, diretto da Nobuhiko Obayashi nel 1988…

3 pensieri riguardo “All of Us Strangers

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  1. un mio amico e una mia conoscente lo hanno visto in momenti diversi senza essersi parlati ed entrambi ne sono usciti piangendo

    ehm, non credo lo vedrò allora, non amo i film lacrimevoli xD

    però contento ti sia piaciuto, sei sempre molto asciutto

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