Film potente e non facile, con tutti gli ammennicoli da film di avanguardia, forse perturbanti per chi è abituato al découpage classico…
Una perturbanza che Glazer usa bene per esprimere l’incomodo e bizzarro disagio di aver vissuto nella più completa quotidianità lo strazio della strage di massa del nazismo (se n’è parlato da poco nell’Inferno di Treblinka)…
chi non ha mai letto nulla dell’argomento, o è solo rimasto ai documentari della RAI, viene sanamente aggredito da tutta la teoria che il processo ad Adolf Eichmann (vedi Babij Jar), nel 1961, innescò nella gente, sì consapevole, ma ansiosa di dimenticare, e che tanto ha ispirato Hannah Arendt nel suo classico della Banalità del male…
Dopo una triste somatizzazione della tragedia, durata 20 anni, la stupidità di Eichmann al processo, e il suo dichiararsi impiegato in una regolare industria di uno stato sovrano che aveva il diritto di fare beatamente quel che riteneva più giusto per i suoi interessi, illuminarono davvero, dopo, ripeto, i 20 anni di trauma, lo strazio che fu la Shoah… l’uccidere gli altri per stare bene tu stesso ritenuto come unico necessario modo di condurre il welfare…
dichiaratamente ispirandosi a tutto ciò, il romanzo di partenza di Martin Amis (morto prima che il film uscisse, e autore di quelli che si conoscono in un certo senso: da un suo romanzo del 1973 è stato tratto La ragazza dei sogni, ossia The Rachel Papers, del 1989 che, insieme a Say Anything… di Cameron Crowe ci fece conoscere bene la splendida e meteorica Ione Skye) serve a Jonathan Glazer per uno showing estraniato della estraniata quotidianità del direttore di Auschwitz, Rudolf Höß (un personaggio che c’è anche nelle Benevole di Jonathan Littel), che vive in un paradisino con orto e serra multifunzionali (con un sacco di ortaggi coltivati), piscinetta, accesso diretto al fiume per attività ricreative, un sacco di stanze, e servitù compiacente, in mezzo al filo spinato di Auschwitz, i cui rumori di morte (urla, suoni di violenza, di treni, di fuoco dei forni, di ronzii dei lavori forzati) affollano la gioia con cui conduce la vita con la sua famiglia, i suoi bellissimi 5 figli (due maschi e tre femmine), la splendida moglie, il cane nero giocherellone e il fantastico cavallo nero… essendo i padroni, la moglie e i ragazzini godono dei vantaggi dei beni rubati ai deportati: con vestiti che vengono loro recapitati, con magari qualche diamante trovato cucito nelle pellicce o nascosto nei dentifrici, con denti vari da usare come giocattoli, e con le ceneri dei bruciati usate, di nascosto ma neanche tanto, come concime dell’orto e della serra paradisiache…
Il film prosegue ripreso con inquadrature frontali quasi come uno strano special TV, o addirittura come una sitcom, con solo alcuni movimenti di macchina laterali: come se Glazer osservasse freddo la freddezza di una esistenza che indaghiamo solo per azione e mai per riflessione… non si vedono i pensieri dei personaggi e l’esattezza delle inquadrature frontali fa di tutto per comunicare immediatezza e realtà a quel che succede, con una lucidissima e lampante fotografia ripulita, quasi da reality show (del grande Łukasz Żal, l’artista dei film di Pawel Pawlikowski)…
…benché la cornice dello showing smascheri bene l’orrore della situazione…
- il film è introdotto da molti attimi di schermo completamente nero, affollato di rumori strambi: roba quasi da un horror di quartiere (sembra l’installazione del Jüdisches Museum di Berlino, dove entri nell’antro buio simulante la camera a gas, e sei al buio con la tua eco a disturbarti)…
- la colonna sonora (di Mica Levi) ogni tanto, specie nel finale, brucia le orecchie per assordanza di rumore e per intervalli “atroci” per la sensibilità di oggi…
- in due occasioni si vede la generosità di una ragazzina polacca, forse è parte della servitù di Höß, che cerca di rifocillare i deportati lasciando nascosti alcuni frutti (mele e pere) dove solo loro possono trovarli: ma la ragazzina si vede in negativo, come una umana lampada di luce che si muove in un mondo nero di notte interminabile… due segmenti di rara commozione…
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La trama, visto che si tratta di un film di situazione, latita, e non è che chi non conosce nulla dell’argomento sia facilitato a capirci qualcosa…
Höß paventa il giorno in cui verrà trasferito, e quando questo succede la moglie dice che la vera essenza del nazionalsocialismo è vivere come vivono loro, ai margini di una fabbrica di morte per gli schiavi, a rubare i beni e poi uccidere (senza mai vederli) tali schiavi, a sfuggire certe inevitabili tracce della mattanza (quando Höß trova quello che sembra un osso nel fiume fa di tutto per non farlo vedere ai figli, figli che però sanno tutto, visto che giocano con i denti dei morti e che si prevaricano l’uno con l’altro, con il maggiore che, per puro sadismo evidentemente connaturato, gode a chiudere nella serra il fratello), e a vivere in una casa enorme e accessoriata, nell’Europa dell’Est tedeschizzata, perché è quella la realizzazione dello spazio vitale (il Lebensraum del Mein Kampf) di Hitler, e quindi la realizzazione del fantastico e meraviglioso nazionalsocialismo, cioè l’unico ordinamento che permette alla gente perbene tedesca la giusta modalità di vita, da signora sugli inferiori che possono, o forse devono, morire…
La moglie si rifiuta di trasferirsi e Höß ottiene di farla rimanere lì, nella casa principesca in mezzo al campo di sterminio, dove la famiglia vivrà, secondo lei in eterno, pacifica e prospera, nonostante i figli che si menano, una figlia insonne e una suocera che cerca di portare l’altra figlia piccola lontano dall’orrore…
Höß intanto viene fatto capo, a Berlino, dell’operazione di deportazione degli ebrei ungheresi raccolti da Eichmann con il placet di Horthy (un fatto che si narra nel dettaglio nelle Benevole e che Glazer lascia molto allo scontato), e si capisce che l’intento di trovare mano d’opera a basso costo, scopo forse voluto dai vertici nazisti per l’operazione, verrà disatteso perché quegli ebrei verrano tutti uccisi da un Höß che oramai non riesce più a fare niente se non pensare al suo fine di sterminio: un uomo che ha per così tanto tempo, e con così egregi risultati (è osannato dai vertici del Reich per il numero di gente ammazzata e per l’innovazione delle tecniche di soppressione), pensato alle modalità di dare morte al maggior numero possibile di gente, che non riesce neanche a godersi un ballo di gala riccastro nazista in un salone principesco perché per tutto il tempo non fa altro che pensare a come riuscire a uccidere tutti i presenti in quel salone che è troppo alto per far morire tutti col gas: come si potrebbe riuscire a uccidere tutti nella stanza col minor dispendio di materiale ed energia?
a questo pensa Höß, tutto il tempo, e poi a godersi la vita, tangendo quegli ebrei che tanto odia (va con le puttane locali, sicuramente ebree, o additittura con le prigioniere del campo!, e poi si strofina il pene per minuti e minuti onde togliersi lo schifo ebraico), e Glazer ci suggerisce quello che pensa solo affermando, con inquadrature scintillati di chiarezza, quello che fa in una documentazione estraniata da tanti lampi di costruzione fittizia, certo nel sonoro (che se vincerà l’Oscar sarà sacrosanto!), ma anche in certe immagini (oltre che nella ragazzina negativa, anche nello strambo flashforword finale, dove si vedono lavoratori dediti e oggettivi, uguali nella precisione e nella meticolosità a Höß, ma facenti un lavoro sano, proprio nel museo di Auschwitz)
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un film singolarissimo,
forse non didattico (perché occorre almeno una rudimentale infarinatura dell’argomento per carpire a pieno il tema e anche per godere anche meglio di certe estranianze che colpiscono quasi più chi sa di chi non è al corrente),
ma denso di riflessione, di senso e sensazioni che innervano, con l’emozione, gli argomenti…
davvero ottimo
tesoro bello, capolavoro, ma “la splendida moglie” dove sarebbe? 😛
“ma la ragazzina si vede in negativo, come una umana lampada di luce che si muove in un mondo nero di notte interminabile… due segmenti di rara commozione…”
Io questa all’inizio l’avevo intesa come una bambina ebrea ai lavori forzati in contrapposizione alla fiaba che il padre legge alle figlie; alla seconda volta che compare ho capito la metafora del mondo al contrario; ma quanto sono inquietanti quei bassi di quelle scene?
a me il film è piaciuto moltissimo, temo però che fuori dal cinema perda moltissimo e se l’impianto stereo non migliora nelle case verrà presto dimenticato
Per davvero!
Un film totalmente “da sala”!
Mi vengono in mente le considerazioni di David Lynch, quando a Lucca è venuto a presentare Twin Peaks 3 e a dirci: «when you watch a movie at home, you’re not listening to the full soundtrack»…
Infatti io mi ricordo una delle prime proiezioni al mondo di INLAND EMPIRE, alla Mostra del Cinema di Venezia in una sala attrezzatissima, a farmela addosso per i suoni e i rumori! Cosa di cui non ho più avuto esperienza neanche in altre sale (visto che INLAND EMPIRE l’ho poi rivisto solo in salette di provincia)…
Un bel film, strano, inquietante, che genera un senso di angoscia. Mentre lo vedevo, e la settimana prima avevo visto Green border, pensavo che in fondo non c’è una grande differenza tra “noi” e la signora Höß… viviamo ai margini di grandi tragedie, preservati da muri e fili spinati, per ora isole di benessere (per quanto incompleto) in mezzo all’orrore… e quell’orrore in fondo l’abbiamo accettato