«Trovatore» di Palumbo/Livermore a Bologna

Di Trovatore s’è parlato così tanto in questo blog che è inutile ribadire…

A Bologna il Teatro Comunale è in ristrutturazione e le opere si fanno al Palazzo dei Congressi alla Fiera, risistemato così da essere battezzato Comunale Nouveau

è uno spazio piccolotto: i cantanti si sentono, ma l’orchestra è parecchio sacrificata, e l’arcoscenico è orizzontalissimo, sembra un 2,40:1 cinematografico…

Il cast era questo:

Renato Palumbo dirigeva:
Lucas Meanchem a fare Il Conte
Marta Torbidoni a fare Leonora
Chiara Mogini a fare Azucena
Roberto Aronica a fare Manrico
Gianluca Buratto a fare Ferrando

la regia era di Davide Livermore, la star dei registi d’opera d’oggi, il nuovo Zeffirelli

Quando, nel 2020, ha affrontato Don Giovanni per Orange e Macerata, a Macerata hanno accostato la sua scena proprio a un Trovatore in forma di concerto, e gli chiesero come avrebbe impostato lui un Trovatore
Livermore rispose che Trovatore gli faceva schifo e che sperava di non affrontarlo mai, al pari del Sant’Alessio di Stefano Landi (1632)…

Nel 2023 invece lo ha affrontato, al Festival Verdi di Parma…
allestimento che si riprende anche a Bologna…

Un allestimento illustrativo e classico, con le solite stilizzazioni di Livermore, cioè:

  • piattaforme girevoli,
  • screens scenici, alla Craig, laterali,
  • tutti vestiti come in Matrix,
  • oppure come circensi da immaginario collettivo dovuto al Joker di Heath Ledger,
  • cura spasmodica del dettaglio della enorme scena digitale,
  • indifferenza verso certi nonsense tecnici che questo apparato comporta…

che le piattaforme girevoli e gli screens spesso girino ed entrino solo per pochi secondi per poi scomparire e girare di nuovo subito è un qualcosa che non dà fastidio a nessuno:
il creare una illustrazione scenica a tutti i pezzetti delle scene quadripartite di Verdi (cioè una composizione di screens per ogni attacco, per ogni arioso, per ogni tempo di mezzo e per ogni cabaletta; e, spesso, perfino, una composizione anche per tutte le semiaree della quadripartizione, addirittura una composizione per la “strofa A” e una per la “strofa B” dell’arioso!) è certamente affascinante, e denota un’attenzione alla musica eccellente… ma ha anche l’effetto di spezzettare e frammentare il testo, denotando una concezione della drammaturgia verdiana del puntillismo alla Dahlhaus…

e le composizioni, inoltre, suggestive e curate, certo (tutti i microdettagli sono effettivamente da gustare: le ambientazioni da porto marinaro brutalista, magari sotto a cavalcavia lacerati, con i tendoni di circo in fiamme sullo sfondo, intendono la zingaresca fazione Urgel come circense contrapposta ai soliti mafiosi “matrixosi” di Luna che vivono e agiscono nella Casa del Portuale di Napoli o nella Biblioteca Bonhoeffer di Torino), sono cristallino quando bidimensionale sfondo, décors, bric-à-brac di crinolina cartolinosa che non significa granché niente, né partecipa davvero a una azione gestica sul palco tradizionalissima…

e difatti Livermore ha sempre detto che Trovatore gli fa schifo, e quindi che l’abbia risolto con fondali dipinti (e screens, girevoli e scena digitale altro non sono che un mero e denutrito aggiornamento di quello che è il «fondale dipinto da chi dico io» dei «tempi de’ nonno» di Conocchia in Otto e mezzo) e attenzione al solo frammento (come se l’opera nel suo intero non avesse senso) è più che naturale…

Ma è un’impostazione che a un’opera difficile come Il trovatore mica fa male!

e almeno due punturine di Livermore vanno a segno:

  • il far parlare il Conte al telefono quando dice «Udiste? Come albeggi la scure al figlio!»
  • e il far uccidere il Conte da Azucena nel finalissimo

Anche perché nel segno della frammentazione va anche Renato Palumbo…

per molti peccherò di incoerenza dicendo che una stanislavskizzazione di ogni singola nota sia inefficace, io che adoro la stanislavskizzazione delle singole note (vedi quanto scrivo di Sinopoli o Gatti o Gardiner o Muti)…

ma quando è troppo, è troppo…

e anche Stanislavskij se n’era accorto, a un certo punto…

Palumbo è bravo…

nonostante il suo gesto non proprio “tecnico” abbia lasciato molto spesso cantanti e coro fuori tempo, i suoi rallentando erano sopraffini e la sua volontà di differenziare in afflato sentimentale e furente, anche lui, come Livermore, ogni singola semiarea della quadripartizione verdiana, lo designano un interprete supersonico, alla Gergiev con la Quinta di Čajkovskij…

L’acustica squalificante l’orchestra del Palazzo dei Congressi non l’ha aiutato, ma la sua lettura indicava uno scavo ermeneutico maestoso…

Il dramma è che impostazioni simili (che io ho sentito anche in Oren e Mehta) concepiscono l’opera (come disse Ivanka Stoianova per la Turandot di Puccini) come un costume di Arlecchino, ossequiando le cacchiate di Dahlhaus su un Trovatore che non ha vera drammaturgia ma in cui le cose capitano a caso senza che quel caso comunichi proprio nulla se non generico nichilismo…

Io ho scritto tanto per smentire tale idea, paragonando Trovatore a Prince of Darkness di Carpenter, a Videodrome di Cronenberg, o a Twin Peaks di Lynch…

e mi trovo a contrastare quest’idea del frammento perché finisce per funzionare pochissimo a livello musicale…

Il voler trovare modelli di circostanze date alle piccole semiaree della quadripartizione finisce per allungare il brodo…

i rallentando goduriosi, se appassionanti quando coerenti, in una gestione frammentata straziano qualsiasi ritmo…

certi tempi lentissimi, magari trovati per innervare piccoli microcenni di crome, sfiancano qualsiasi narrazione, e finiscono per annullare scene fatte apposta per ottenere tensione (vedi Tacea la notte placida o addirittura l’importantissimo Di due figli vivea padre beato)…

e l’approccio delle circostanze date, da che mondo è mondo, non si applica a certi riempitivi che riempitivi non sono per niente: Chi del gitano e Or co’ dadi, importantissime caratterizzazioni delle fazioni contrastanti, siccome sono pura musica, vengono tirate via dalla ricerca di circostanze date distruggendoli in tempi vertiginosi inefficaci…

invece certi snodi di décors, là dove ci puoi trovare una intenzione recitativa (cioè Se l’error t’ingombra), questa fantomatica intenzione la si segue con agogiche larghissime, fino all’immobilità…

Ne è uscito un Trovatore polarizzato, come quello di Oren e Mehta, tra il velocissimo e il lentissimo, con zero coerenza interna e con spezzettamento del flusso musicale in repentini cambi di tempo addirittura nello stesso numero: cosa che invece di essere intrippante come in Sinopoli e Barenboim (che cambiano tempo a mille in Cavalleria rusticana ed Elektra) risulta completamente scriteriata…
perché Sinopoli e Barenboim cambiano il tempo per dare una coerenza complessiva, mentre Palumbo sembra cambiare il tempo per rinnegare quella coerenza interna o che non ha capito o che non ha voluto cercare, seguace del diktat di Dahlhaus su un Trovatore privo di senso complessivo…

un peccato

un peccato perché, senza visioni d’insieme, e con così tanti tempi lenti per ossequiare una presunta circostanza data senza che quella si rifletta su un insieme, Il trovatore diventa come lo descrivono i detrattori: cioè una pesantezza noiosissima senza nocciolo…

e infatti, tra un lento lì e uno là, e con i cambi scena di ogni singolo quadro (cioè ben 6 pause! alla faccia della presunta agilità dei marchingegni digitali livermoriani), è un Trovatore che ha finito per durare più di 3h, con i cori delle suore di quasi 5 minuti (un coro che, di norma, ne durerebbe 3), e con le circostanze date che hanno finito per nebulizzarsi, quasi per annullarsi, come certe performance di Actors Studio, tipo quelle di Jared Leto nel Joker della Suicide Squad: tanto lavoro, tanto studio, ma risulti NOIOSO, perché il lavoro che fai su di te è nulla se non è comunicato agli altri e se non si connette con il tutto olistico di un narrato…
e Palumbo ha fatto un po’ così: tutto bello, tutto studiato, ma senza olismo e senza narrato, in un’opera in cui tutto è narrazione di un’azione che non c’è: tutti stanno a raccontare e non ad agire (cosa ben espletata da diverse battute di Manrico, che invita a narrare le sue interlocutrici Leonora e Azucena): e se la spinta diegetica non c’è, ma c’è una volontà velleitaria di trovare l’azione là dove non esiste, allora è proprio vero che sbagli candeggio, come diceva un vecchio spot

cioè ottieni due palle

Gianluca Buratto è stato un bravissimo Ferrando: spettacolare timbro di basso e agilità interpretativa fantastica

Roberto Aronica è un tenore che non comprendo: le note le prende e anche bene, ed è anche appassionatissimo… però appare sempre sguaiato e poco educato…
però ci credeva!
e ha anche cantato Ah sì ben mio filologico!

Lucas Meanchem è stato bravo, forse un po’ generico, ma da top di gamma… un gran peccato che Il balen del suo sorriso sia stato tra quelli che più hanno risentito della frammentazione di Palumbo: la fase B era così diversa dalla A da sembrare quasi un’altra scena!

Leonora è difficile e Marta Torbidoni canta bene: forse un po’ tanta per rendere certe cristallerie acute, ma, tutto sommato, ha fatto una ottima figura…

invece Azucena è sempre, in qualche modo, facile, perché è il personaggio che più “rimane” della visione di Trovatore: Chiara Mogini si è comportata come un mezzosoprano lirico deve comportarsi: giusta, sonora e scenica…

C’è un Trovatore molto simile a questo, reperibile in video, cioè quello allestito da Lorenzo Mariani a Parma nel 2010: anche Mariani era illustrativo, ma Jurij Temirkanov sul podio era più attendo a una visione d’insieme
la regia video, per Unitel, è di Tiziano Mancini…

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