«Grande meraviglia» di Viola Ardone

Il primo romanzo era carino ma era un plagio, il secondo era una camomilla alla Don Matteo, ma certe cose riusciva a pronunciarle…

Questo non ha né capo né coda…

Nella prima parte sciorina ambizioni letterarie importanti ed evidentemente velleitarie per chi finora è stata solo capace di fare Don Matteo… una immersa fino alle ascelle di oggettività narrataria si presenta addirittura con un io narrante che parla di sogni, di percezioni, di realtà non sicure e di relativismo, di ricerca di verità tra i frammenti fallaci della memoria, con un mosaico di esperienze pregresse, al lettore sconosciute, che si ricompongono piano piano quasi alla Sergio Leone…
ti sorprende!

Ma nella seconda, terza e quarta parte riecco quella scrittrice indecisa, inno del ma-anchismo veltroniano di 20 anni fa, che come un umarel ti spiega, con un profluvio di descrizioni ed eventi tediosi, ridondanti, tutti uguali, piatti, smorti e che non finiscono più, quanto si stava meglio quando si stava peggio…
quel relativismo ritrovato nella prima parte diventa il solito cincischio di non voler né condannare né lodare nessuno, in una vicenda che non prende una posizione neanche se l’ammazzi e glorifica l’abulia dell’abitudine più stantia come se fosse una scelta amorale alla Nietzsche invece che semplice opportunismo e paura del cambiamento…

Nelle tre parti finali, Ardone riesce a dire tutto e il suo contrario, spacciando questo atteggiamento come eroica accettazione della realtà…

  • Passa dal fare il peana della chiusura dei manicomi a raccontare di quanto sono stati disgraziati coloro che ne sono usciti;
  • passa dall’inneggiare al futuro grazie ai giovani e poi descrivere quanto quei giovani siano scemi in confronto alla grande generazione ’68 e post-’68;
  • sta tre ore a provare quanto il protagonista maschile sia un cretino e altre tre a dirti di quanto quella cretinaggine sia segno di vero affetto;
  • spende pagine e pagine a parlare di personaggi di infimo contorno, e a fare dettagliati rendiconti della banalità (sta quasi due pagine intere a raccontare il protagonista che si fa il caffè);
  • usa odiosi motti formulari da affibbiare ai personaggi col solo risultato di ripetersi stancamente;
  • per passare il tempo si inventa una storia d’amore di 5 pagine cacata a forza e senza senso;
  • la generazione di fenomeni del ’68 e rotti, tanto lodata a pagina 10, a pagina 22 è già sgonfiata e stigmatizzata a causa della stipsi emotiva;
  • gli ci vuole 6 ore per dire che la vita è tutta a caso ma poi trapunta il testo di miliardi e miliardi di coincidenze, anche grottesche, al di là di qualsiasi casualità (la mamma tedesca fuggita dal muro di Berlino muore il giorno che il muro di Berlino crolla: credibile; l’orecchino donato per un motivo si scopre che ha origini diverse da quanto dichiarato grazie a un incontro fortuito che cade dall’alto più forzato di tutte le botte di culo/sculo alleniane; la gente si incontra e si scontra senza motivo come Mirko, finita la pioggia, si scontra e si incontra con Licia)

E su tutto questo pattume, fatto anche (esclusa la più sperimentale prima parte) di una lingua che più che scolastica non si può, si spande il maleficio della narrativa italiana post-2000, cioè il masochismo: il descrivere una situazione di merda come irrinunciabile perché quella è “la vita” (forse un fraintendimento di Emily Brontë, che però dalla brughiera voleva scappare eccome!)…

situa che in questo romanzo raggiunge il ridicolo quando la protagonista la applica al manicomio! Cioè, ok che vuoi tornare là dove hai passato un’infanzia di sterco (vedi Avallone, Murgia, Caminito, Di Pietrantonio, Raimo e altre sciocchezze), e finché tu stessa lo dici di Napoli o della Sicilia misogina, vabbé, è sgradevole ma sono cavoli tuoi (e magari si capisce poco perché assurgi i cavoli tuoi a romanzo senza renderti conto che sei banale, ma non è una colpa grossa) ma scrivere un romanzo per dire che come si sta in manicomio non si sta da nessuna parte fa ridere, quasi più di quell’altra idiozia “mentale” di Mencarelli

Il finale sull’affezione dell’affetto, che c’è anche se non te lo aspetti e anche se la tua vita è stata motivo di sofferenza per gli altri, oltre che avallare, ancora, il masochismo, vorrebbe essere di quell’onnicomprensività olistica che anima la conclusione di Ragazza, donna, altro, ma invece risulta solo l’emblema di una patologia (appunto il masochismo e la compulsività) e il monumento dell’inutilità di un romanzo che a forza di dire tutto “ma anche” il contrario di tutto non comunica nulla, non sfocia in niente: un fiume che non arriva al mare…

anche perché già a due terzi di sapere che fine hanno fatto tizio e caio, o di come sono finiti i protagonisti, di cosa si sono accorti dei tanti finti twist pretenziosi di trama (ti accorgi che la mamma è morta, no è viva, il protagonista ha mentito, no, ha solo nascosto il segreto della vita in una villa al mare quando era ingessato, ma quella villa è bruciata e allora il segreto è solo nella serenità di aver passato la vita senza conoscere il segreto e la vita è passata lo stesso quindi il segreto era inutile ma nonostante tutto ci hai ammorbato con questo segreto per 300 pagine), non te ne frega più una beata mazza, ma Ardone insiste, insiste con il suo io narrante appena trovato a ripetere azioni, a ribadire gli stessi concetti, ad andare avanti per un’inerzia di pagine scambiata per competenza scrittoria: neanche Cambiare l’acqua ai fiori ti annoiava così tanto e la prendeva così lunga per riuscire a concludere…

La tesi di fondo, che è quella comune a tutta l’opera di Viola Ardone, cioè quella di narrare gli svantaggi delle donne nella storia (le mamme del ’45 costrette per miseria a mettere i figli nei treni della speranza, quelli ben documentati da Giovanni Rinaldi; le donne siciliane degli anni ’60 costrette al matrimonio riparatore; e ora le donne degli anni ’60-’80 rinchiuse in manicomio solo perché donne poco ubbidienti), è striminzito pretesto lasciato a poche righe in mezzo alle smisurate ambizioni di parlare dello scontro tra le generazioni (odioso del misoneismo più becero), della mancanza di affetti e dell’amore fatuo e sfuggente…

sicché neanche la tesi acchiappa

Puerili e molto poco efficaci i tentativi di rendere i tre romanzi parte di uno stesso universo, con personaggi di un romanzo che ci sono anche nell’altro (roba alla Easton Ellis): non regge

3 pensieri riguardo “«Grande meraviglia» di Viola Ardone

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  1. Sono tra le forse poche persone che non amano Viola Ardone… ho apprezzato molto poco sia Il treno dei bambini che Oliva Denaro e questo non ci provo nemmeno, a leggerlo!

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