Nelle Meraviglie (2014) non c’avevo capito un cacchio, e mi ci sfeci le gonadi (è al n. 35 del Conte di Palomino)…
gli altri film di Alice Rohrwacher non li ho visti
–
Chimera ha una trama che parte male…
dura 135 minuti, la maggior parte dei quali è pura introduzione, ancora, come Le meraviglie, spacca-maroni…
per 3/4 il film “introduce” senza quagliare per niente, ma crogiolandosi, anche autocompiacendosi, in se stesso, nei suoi personaggi e nelle sue ottime caratteristiche di sguardo e di cinema (che vedremo)…
la trama non perviene
all’ultimo quarto le “introduzioni” finalmente prendono forma e dicono qualcosa, e non la dicono per niente male!
il dramma è l’autoincensamento, anche sui social, con cui Rohrwacher è andata in giro a lamentarsi che nessuno distribuisce il suo capolavoro, creando un hype voglioso di presentare la Chimera come un qualcosa che cambia la vita, così bello da non poter non essere visto (con evidente rosicamento per i risultati di Cortellesi)
un hype che commercialmente funziona (a vedere il film, in un giorno infrasettimanale, in un cinemino di Firenze, c’era il pienone), ma che comunica come un fenomeno vivente quello che è solo un bel film, la cui trama è carina, ma da cui non dipende affatto la vita di nessuno…
anzi, a metà del film si ha perfino paura che i protagonisti, non proprio delle brave persone, vengano perfino idolatrati e considerati eroi…
per fortuna, nell’ultimo quarto, si riacciuffa la trebisonda, pur con tediose lungaggini ulteriori…
–
e per fortuna ancora maggiore le 2h e 15 minuti tediosissime della Chimera sono supportate da tantissimo cinema…
di nuovo, come nelle Meraviglie, Pawlikowski, con tanto Ermanno Olmi, tanto F.lli Dardenne, un po’ di Borowczyk, sprazzi delle idee recenti di Pietro Marcello, e lampi, molti, di Huillet & Straub e di Buñuel, sono gli ingredienti della fenomenale fotografia (di Hélène Louvart) e dello strepitoso montaggio (di Nelly Quettier) che sbatte in faccia allo spettatore una vagonata di visione e di sguardo…
- formati che cambiano (in maniera molto più subliminale rispetto a Dolan),
- cornici in bella vista ritagliate “artigianalmente” per poter assomigliare a diapositive,
- macchine da presa che fanno capriole su loro stesse recandoci frame sottosopra,
- shots ravvicinati che si muovono senza granché farci capire quando e dove siamo,
- strappi di diegesi vertiginosi,
- colonna sonora straniosa (da Jordi Savall che fa L’Orfeo di Monteverdi a Franco Battiato alle cantatine della sagra della zampina di Moncalieri di sopra),
- sguardi in macchina di figuranti che parlano direttamente al pubblico,
- plurilinguismo (inglese, italiano, portoghese, francese, tedesco, laziale settentrionale),
- velocizzazioni alla film muto,
- protagonisti fantasmatici alla Bresson o alla Rivette…
…risultano a servizio di uno schema noiosissimo ma controllatissimo di racconto, capace di comunicare la smania del soggetto, la sua inutilità (la trama esprime un evidente disamore per il divenire esistenziale) e la sua poetica voglia di evasione “mortifera” (una «evasione dal mondo» minimalista, alla Hemingway, o alla Webern: una smania che è un ritorno a una condizione felice, in ottima Ringkomposition delle immagini e in eccellente uso di frame leitmotivici) e di denuncia del martirio della bellezza e dello scippo del rispetto per il passato (che è rispetto della stessa “vita” dei morti, che non vengono neanche fatti riposare in pace in quel tempo privo di divenire che nel film si ricerca) perpetrato dai protagonisti, che sono l’umanità, in un connubio tra visivo e raccontato davvero mirabile, anche se soporifero e sballato dal punto di vista drammaturgico (gli stacchi di montaggio spesso allungano un brodo già parecchio allungato, specie quando si dilungano a mostrarci cose già chiare o quando aggiungono interminabili sotto-finali senza arrivare al finale vero)
La chimera non ha per niente la casualità e il random fastidioso di uno Chazelle o di un Guadagnino: non scrive e poi gira le cose a caso per poi incollare tutto insieme a tentoni, ma sa bene quello che vuole dire; ci mette troppo a dirlo, ma tutto quello che ha inquadrato concorre a quel dire perfettamente, senza esibizionismo, senza stragi di imitazione (alla Call me by your name) ma con tanta comprensione dei modelli e tanta somatizzazione dell’essere cinema…
una chicca però un pochino sporcata dal nefasto autoincensamento che si diceva, evidente anche nel modo di riprendere, che molte volte si “bea nel guardarsi”, quasi affermando «guardate come sono bello»
forse in questo risiedono gli influssi malefici di Saverio Costanzo, cognato della regista, ringraziato nei titoli finali…
–
In due parole:
ti ci sfondi le vertebre della noia e aneli una sapienza narrativo-scrittoria migliore,
ma ci vedi un sacco di roba bella, così tanto ben curata da risultate quasi “narcisa”, ma che è effettivamente così bella da non lasciare indifferente chi è riuscito a stare sveglio…
ma, a dispetto delle pubblicità social, è un film che, anche se non lo si vede, si sta tutti bene lo stesso: non è che comunichi così tante cose nutrienti, se non una non banale idea di voglia di pace ultramondana schopenhaueriana:
è una cosa bella e carina, ma si sta anche senza eh…
Lascia un commento