«Mi limitavo ad amare te» di Rosella Postorino

Tutti mi hanno avvertito che Le assaggiatrici (2018) era bello e che Postorino è forse la più grande scrittrice italiana insieme a Valeria Parrella

Sicuramente l’arte scrittoria è inattaccabile: tutte le emozioni e i processi sentimentali e mentali sono perfettamente espressi sia in intreccio sia in tecnica di sguardo: i frammenti delle idee e delle psicologie sono ricomposti in un modo pregnante con ogni sguardo, spesso della brevità di un fulmine, ben caratterizzato da una focalizzazione apposta…

molto bello, certo…

a mio modestissimo avviso, l’idea di fondo, e la voglia di comunicarla in modo massoso e atrocemente emotivo, è comune a Una vita come tante di Hanya Yanagihara… c’ho trovato la stessa quantità di interiorità tutta buttata fuori a mille, con un fiume in piena di informazioni passionose, proprio a valanga, sul lettore…

ma qui forse entra in azione il mio gusto…

Ho trovato Mi limitavo ad amare te stopposo e appiccicoso…

È certo da insensibili non provare compassione per delle povere vittime della guerra in Bosnia…
…quindi non puoi dire che il romanzo ti fa schifo, perché quell’argomento ti deve per forza smuovere qualcosa…

anche in Un vita come tante non potevi non provare empatia per il protagonista disabile e abusato: certo che la provavi…

ma in entrambi i libri a me è subentrata la sindrome da Dolce Remì, la sindrome da fogliettone dell’ultimo Ottocento, o del primo Novecento, quel fogliettone che parla di triangoli amorosi, di cadute nella droga, di traumi infantili, di guerra che stralcia la vita, di suicidi indicibili, di paternità scoperte dal protagonista all’improvviso (anche se tutti le conoscevano già)…
quel fogliettone che si crogiola nel farci elaborare non solo le storie dei protagonisti (già tantini, ben tre) ma anche quelle dei loro avi, dei padri, delle madri, delle madri che non c’erano, dei padri mai esistiti, sempre convinto che ci sia un momento cardine, una scena madre, dopo la quale la vita cambia, e a quella scena madre, a quel passato, si fa ritorno coi ricordi, per comprendere il presente, ma nei ricordi quella scena madre è diversa, e che abbia definito la vita dopo di lei è un sogno, una convinzione, un autoinganno, non è vero: la vita sarebbe continuata nello stesso modo ugualmente, o anche no, ma comunque sarebbe andata male!…

Mi limitavo ad amare te segue delle disavventure da anime giapponese lacrimevole (quelli elencati in Una vita come tante): so che parlarne così è offensivo per chiunque abbia vissuto quegli anni e quelle cose terribili, ma sciorinate tutte insieme, e nel modo così emotivamente opprimente di Postorino, quel modo scritto così bene che ti spiaccica addosso qualsiasi lacrima e qualsiasi dolore, l’effetto di passare il limite e arrivare al parossismo, o alla semplice indifferenza, è vicino e per me è arrivato sicuro…

Quattro ragazzini, e poi più propriamente tre, i tre orfani, vengono “spediti” in Italia dai genitori o dal loro orfanotrofio per salvarli dalla guerra in Bosnia…

da allora quei ragazzini, e tutti coloro con cui sono stati a contatto, vivono una vita orribile fatta di antinomie insolubili, di scissioni irreparabili, di dimidiazione psichica irricucibile…

considerare patria l’Italia o la Bosnia?
considerare genitori quelli adottivi o quelli che sono in Bosnia, veri o immaginati che siano?
considerare amici anche gli italiani o rimanere solo tra bosniaci?
imparare l’italiano o no?
tornare dopo la guerra o no?

i genitori adottivi sapranno comportarsi o no?
e quelli rimasti in Bosnia riusciranno a riabbracciare i loro cari o la guerra, e il conseguente “abbandono”, rimarrà per sempre motivo di incomprensione o addirittura di rancore?
e i fratelli? e le sorelle? come faranno? se la caveranno?

a tutto questo si aggiunge la tragedia che la guerra, anche se formalmente finita, non finisce mai per nessuno: i suoi traumi ribollono sempre, le sue conseguenze sono eterne, e i precipitati purulenti…

e si butta al fuoco anche che i ragazzini protagonisti cominciano tra loro un giochetto alla Jules et Jim, però inteso “al massacro”, che finisce naturalmente a schifío, con tutti che soffrono…

L’idea delle fondamenta, cioè che tutta l’esistenza è un errore, mi trova assai d’accordo, e il modo di Postorino di quantificare l’inutilità, con la sua prosa ricercata come un brodo di pollo fatto da uno chef stellato, ti rende tutto molto accessibile e vivido…

per cui chiunque cerca emozioni e transfert delle proprie esperienze nella lettura, oppure chi ha bisogno di leggere le emozioni o per compensare quelle che non ha o per somatizzare ed elaborare quelle che ha, troverà in Mi limitavo ad amare te il romanzo ideale…
queste persone potranno tranquillamente nuotare nel mare di lacrime che Postorino costruisce apposta per loro…

a me che venisse usata la guerra (tragedia universale con cui non puoi fare i conti se non prostrati) come motore immobile della trama, così da prenderti per forza, mi ha infastidito…

la mole di pesantezza dei protagonisti, che si irradia in tutti quanti, anche su tutti i personaggi secondari (sulle suore che curano i bambini all’inizio, sulle mogli e i figli dei ragazzini alla fine, su tutti i genitori adottivi, su tutti gli amici passeggeri: una gemmazione di stati d’animo, davvero troppi: chi se ne fregava di cosa pensava la suora?), impiastriccia, inzacchera…
più che far riflettere ti si appiccica addosso…
data la perizia di Postorino è ovvio che questa cosa sia voluta, anche nella sua sgradevolezza: e c’è gente a cui piace…
io sarò cinico ma certe iperboli dolorose a me hanno fatto ridere…

il logos di usare la assurda e crudele guerra in Bosnia come metafora dell’assurdità e crudeltà del mondo stesso non è mal posto, ma il libro è lungo, e questo assunto viene ripetuto finché non ti esce dalle orecchie…

uno potrà dire che almeno capisce qualcosa della guerra in Bosnia leggendo questo libro, invece per Postorino la guerra è sì dirimente ma è sfondo, è MacGuffin, è motivo per parlare di tutto il resto…
difatti, s’è detto che è allegoria dello scempio esistenziale e quindi in essa hanno “ragioni” e moventi morali tuti quanti: chiunque ha avuto il trauma che l’ha spinto ad agire, e chi fa una cosa è uguale a chi ne fa un’altra, livellando tutto quanto con tramortimento di volontà…
la guerra serve a Postorino per dire semplicemente che la vita ti piomba addosso come pioggia e tu non ci puoi fare niente, puoi solo lamentarti, sfogarti grazie alla sfavillante enumerazione dei tuoi pensieri condotta da una scrittrice esperta, ma in fatto di comprensione non sussiste proprio niente… perché non si comprende il dolore…

perciò la guerra rimane lontana, è scenografia del fogliettone, che scorre furbo come un fogliettone, apposta per farti continuare a leggere (capitolo 1 riguardante personaggio 1 finisce in un Cliffhanger; comincia capitolo 2 su personaggio 2 e finisce con un Cliffhanger! poi c’è capitolo 3 su personaggio 3 a finire con un Cliffhanger e solo allora si torna a personaggio 1 a risolvere il suo Cliffhanger), e si intreccia come un fogliettone apposta per tenderti l’amo (non solo ci sono i Cliffhanger ma anche gli entrelacement, sicché si sa che personaggio 1 fa una cosa tra maggio e giugno e alla fine di giugno trova personaggio 3 e solo dopo sapremo perché personaggio 3 era lì a incontrare personaggio 1 a fine giugno, con tanti bei capitoli che ti narrano cosa ha fatto personaggio 3 tra maggio e giugno, e guarda caso ha incontrato personaggio 2 che tra maggio e giugno era in ferie ma a febbraio aveva per caso trovato personaggio 1 al mare… ecc. ecc. ecc.), un fogliettone che ti presenta così tanti traumi personali che ti tramortisce, e te li presenta con la solita voglia di dirti come sta il mondo…

ed ecco forse la cosa che mi è piaciuta meno di Mi limitavo ad amare te: il fatto che *dice* la sua morale disfattista e sconsolata, tante volte, e te la dice orgogliosa e fiera di comunicartela…
…ma il dramma è che la sua morale disfattista e sconsolata è la vita stessa, è comune a tutti…

quindi sarebbe stato più interessante farti capire quello sconforto invece che dirtelo: nel senso che già c’è la impillaccherata trama a dimostrarti quello sconforto: perché doppiare quella trama con i pensieri dei personaggi che ribadiscono in psiche quello che hanno appena fatto?
e perché, per comunicare uno sconforto comune, ci vuole così tanto?
perché con questi bambini stiamo ben 20 anni?
perché indugiamo su come si sentivano i loro genitori in tutti questi anni?
perché i bambini cresciuti devono intraprendere tutto il teatrino di Jules et Jim?
perché si deve stare così tanto con le prurigini cattolico-bacchettone di una delle madri adottive di uno dei ragazzi?
perché si deve stare con i rancori autodistruttivi della madre vera di un altro?
perché si deve sapere cosa ne pensa della morte l’assistente sociale? perché?

o non bastava la guerra?
non bastavano 100 pagine di dolore guerresco e via?
ci volevano per forza 400 pagine di Jules et Jim e di ripetute attestazioni che il mondo è merda da parte di tutti quanti e in tutti i tempi?, anche perché che il mondo è schifo lo si evince subito quando i ragazzi sono bambini a Sarajevo, come mai ribadire lo stesso concetto anche quando i ragazzi di anni ne hanno 16 o 20?

che si voleva dire allungando così tanto il brodo?
per arrivare per forza all’oggi? al 2011? per far passare 20 anni tondi dall’inizio?

non lo so…

le cose che qualcuno potrà imparare da questo libro sono tante, se proprio ha bisogno di un libro per capire che la vita è cacca, e se proprio non l’ha capito da solo a ogni risveglio o non l’ha mai letto in nessun altro libro (cosa strana, essendo la natura malsana della vita al centro praticamente di tutte le letterature di tutti i tempi)

quindi sì che è un libro adatto a tutti…

ma più di tutti è adatto a coloro, dicevo, che vogliono trovare nel libro un bagno di emozioni ancillari alle proprie; a chi nuota felice nei sentimenti, senza critica, ma con tanta filosofia che è emozione essa stessa, senza lucidità, ma con tanta costruzione letteraria fatta apposta per farti abbandonare al dolore, al tragico, al passionale, al rabbioso, allo sconfortato…

un libro per quelli che si commuovono facile, che gli piace piangere per niente, che trova motivo di empatia dappertutto, anche dove c’è trivialità di tutti i giorni, anche in drammi comuni, che non avrebbero certo avuto bisogno della guerra per essere così pesantemente enfatizzati…

un libro che non è riflessione, né storia/vicenda della condizione umana, è solo sentimento… è come se fosse tutta conseguenza senza causa… un libro quasi fatto per far vivere chi non vive, per rendere tangibile il dolore della vita a chi la vita non la vive davvero… a questi, Mi limitavo ad amare te farà bene…

chi invece la vita l’ha vissuta potrebbe trovare tutto quanto ordinario, e pertanto potrebbe percepire tutto il lusso letterario come esagerato, e tutto quel dispiegamento di sentimento come esteriore, enfatico, alla fine perfino retorico…

e troverà il finale consolatorio del tutto fuori posto…

se c’era una storia che, date le perorazioni nichilistiche sciorinate più volte, doveva finire o male o senza un vero scioglimento era proprio quella che con tanta foga, e molta poca sintesi e chiarezza, ha costruito Postorino…

ma male qualcuno finisce, per cui per qualcun altro ci deve essere la speranza, perché come nella guerra si è detto che tutti sono stati uguali davanti all’assurdo dell’invasione, allora, per identica universalizzazione, se dico che solo una cosa è andata bene, dopo 20 anni (una cosa riferita, ovviamente, alla nascita di un’altra vita: e perché uno dovrebbe essere felice di questo, visto che siamo stati tutto il romanzo a ribadire che la vita fa schifo? e nessuno sembra davvero felice per la nuova vita, ma a noi lettori quella nuova vita è comunicata come una speranza: perché?), allora tutto quanto, nei sogni, potrà andare bene in futuro…

bella cazzata

si legge benissimo, meriterà tutti i premi, e mi scuso con tutti quelli che adorano questo tipo di fiction fatto apposta per suscitare nel lettore le esclamazioni «Omammína» o «Gesùmmío», questa fiction che è convinta che parlandoti alla pancia facendoti vivere in diegesi i tormenti della guerra bosniaca e del tradimento alla Jules et Jim ti faccia capire che la guerra è merda esattamente quanto parlarti alla testa con una storia più critica e riflessiva, quella fiction convinta che l’uomo, come una bestia, possa capire le cose solo se le vive su di sé, che capisce il dolore solo gli dài un pizzicotto e non in altro modo, mi scuso davvero con tutti quelli che amano cotanta fiction [una fiction che però si guarda bene da disorientare il lettore con un intreccio o una focalizzazione capace di far partecipare al nichilismo anche lo stile, una fiction con uno stile che vada al là del costruito apposta, che è efficace e ben lavorato ma assai palese nelle intenzioni e quindi del tutto prevedibile]

a me questa fiction annoia

l’enfasi mi ha stufato subito

le giochesse risapute di scrittura non hanno riscattato un bel niente, sicuramente non la insopportabile lunghezza, la massacrante ripetitività e la stancante struttura a Cliffhanger furbissima

arrivare alla fine è stata un’impresa


6 pensieri riguardo “«Mi limitavo ad amare te» di Rosella Postorino

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  1. La sindrome da feuilletton potrebbe essere una diagnosi per me ed è un sollievo scoprire che non sto soltanto diventando troppo cinica con l’età. Ritrovo alcuni dubbi tra i tuoi, dunque il mio non è un semplice bisogno di leggerezza.
    GRAZIE

  2. La letteratura del dolore, dopo che milioni di italiani sono stati abituati alla TV del dolore. Io mi spiego così l’onda delle autobiografie strappalacrime, e dei romanzi di questo tipo. Esiste una scrittura, ma so che sei il primo a saperlo, esiste una editoria che sa dove premere per vendere questi fogliettoni. I gusti del pubblico, ahimè sono quelli.

      1. Non credo. Un po’ di tempo fa, un po’ esagerando (anche io?), avevo scritto, che si era persa molta capacità di letture su più piani, e pertanto tutto ciò che è immediato ha un riscontro fruibile. Ci sono dei passaggi della tua recensione ineccepibili: o si cercano conferme a cio’ che si è vissuto e si vive, oppure non vivendo, si guarda la vita da qualche buco della serratura. Non sono le tue parole, sono mie, spero di non averne traviato il senso. Il pubblico ha perso molte capacità di lettura, gli scrittori e le scrittrice, molte capacità (e volontà) di scrivere su più piani… l’editoria (specie italiana, con i premi a latere) non fa che mettere in comunicazione i due vasi, traendone vantaggio economico e non assolvendo ad una delle sue funzioni… lascio a te riportare quale funzione non assolve. Ciao Nick, buona estate e grazie per questo tuoi pensieri multipli su libri piatti a strato singolo.

  3. Non ho letto questo romanzo, ma ho letto Le assaggiatrici e non mi è piaciuto molto. Gianluigi Simonetti in un bel libro intitolato Caccia allo Strega spiega, dati alla mano, analizzando cioè un certo numero di opere degli ultimi 20 anni, le qualità che un romanzo deve avere per vincere premi… molto interessante!

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