È un film da confrontare, ovviamente, con la Mary Shelley di Haifaa Al-Mansur (2017)…
e in un certo senso anche con le mefitiche Little Women di Greta Gerwig (2019)…
La regista è Frances O’Connor, un’attrice molto simpatica: magari un po’ pesce lesso nella madre di A.I. di Spielberg (ma sul giudizio grava il mio aver detestato il film tout court, vedi Spielberg VI), e forse non così efficace nelle vesti di eroina action nel poco calibrato Timeline di Dick Donner (un film di cui dovrò parlare nel dettaglio), però carinissima nella Gwendolyn di The Importante of Being Earnest di Oliver Parker…
È proprio con Oliver Parker, uno che è l’emblema della discontinuità britannica, capace di fare capolavorini (l’Othello del’95, Earnest nel ’02, St. Trinian’s nel 2007) come assurde idiozie (il Dorian Gray del 2009 e Johnny English Reborn del 2011), che O’Connor assembla denaro e crew per questo che sembra un biopic di Emily Brontë, da O’Connor completamente scritto, da far distribuire alla Warner Bros.
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Rispetto ad Al-Mansur, diligente ma non di più nel creare uno showing adatto ai batticuore adolescenziali, e a Gerwig, del tutto incapace di dare una cifra stilistica visiva coerente al suo film e con la fastidiosa tendenza a frammentare il découpage classico con inserti del tutto casuali (anche la scena clou, quella in cui Laurie viene rifiutato da Jo, è deturpata da stacchi di montaggio sui petti degli attori tali da annacquare qualsiasi emozione), O’Connor (con la a me del tutto sconosciuta cinematographer Nanu Segal, una che lavora da quasi 30, ed è stata nella seconda unità di Bohemian Rhapsody, forse già nella gestione di Dexter Fletcher) usa il découpage narrativo classico come stampo, con le solite citazioni pittoriche oramai pressoché obbligatorie per un period drama (vedi anche Ritratto della Giovane in Fiamme e Il giovane favoloso), per innervarlo con un superbo montaggio (di Sam Sneade) per nulla a caso, come quello di Gerwig, ma supersonicamente saettante di sguardi e immagini capaci di infarcire quel découpage classico (comunque ribadito all’interno di quello che rimane un film narrativo “per tutti”) con una miriade di frame di sensi e significati psicologici ed emotivi, psichici e diegetici, capaci di far svettare la classica vicenda di innamoramento e morte, di destino avverso e di rivalità di sorellanza, di attaccamento allo stagnetto di casa amato e odiato se confrontato con un grande mondo insincero, di dicotomia tra arte e guadagno, di dualità tra l’amore per i genitori e l’odio per il loro bigottismo, di malinconia per la consapevolezza di dover racimolare del denaro in una maniera mercantile e “borghese” anche se il mercato e la borghesia sono le cose che più detestiamo, in un universo che non è il mero giochetto di rievocazione, fine e se stessa, di un Ottocento anch’esso amato e odiato (l’atteggiamento di Al-Mansur), ma è espressione puntuta e pungente di ormoni ed esigenze completamente contemporanee…
La recitazione, splendida, di Emma Mackey (da me già adorata in Death on the Nile) e degli altri attori, la motilità impagabile della macchina da presa, la fantasmagoria gotico-artistica dei colori (molto più bluastri del solito citazionismo pittorico suddetto), la genialità degli espedienti folli (per esempio i volti nei primi piani che, nei momenti di maggiore emozione, vengono sfuocati apposta) e lo strepitoso montaggio veloce e sguardoso, ritmato e interessante, e per niente timoroso di avventurarsi in energici voli tra analessi e prolessi, costruiscono fantasticamente il ritratto di una outsider, Emily Brontë, che già in letteratura aveva usato gli espedienti del film: anche Emily Brontë usò lo schema classico del romanzo dickensiano per riempirlo sia di strutture cronologiche “ideali” e complesse (il giro in giro di racconti all’interno di Wuthering Heights è ancora oggi geniale) sia di tematiche psicologiche d’avanguardia, di rappresentazione della vorticosa complessità dei caratteri umani, di potenza narrativa della passione amorosa e dell’amore/odio familiare, e della tragedia della convenienza economica rispetto alle passioni (Wuthering Heights è, ancora dopo quasi 200 anni, uno dei must mondiali della letteratura)…
per capirsi O’Connor *doppia*, o *realizza* in showing cinematografico tutte le novità che in letteratura aveva implementato Emily Brontë in un film che guarda a ieri per capire l’oggi, per capire la disperazione della solitudine, l’amarezza della povertà, il fastidio di piegarsi alle regole, la tentazione di annebbiarsi con l’oppio, e la passione sentimentale distrutta dall’entropia e dalla comunicazione fallace (la ‘zienda classica del «ti amo, per le convenzioni sociali non ti posso amare, ti lascio, ti scrivo per dirti che torno da te ma la lettera non giunge mai e intanto io muoio»: un programma già ampiamente rodato in Thomas Hardy [Tess of the d’Urbervilles] e Shakespeare [Romeo and Juliet] e che ai giorni nostri è arrivato all’annacquamento completo con Possession di Neil LaBute, 2002): tutte cose che tutti quanti viviamo… e O’Connor, grazie al caleidoscopio tremolante, vivido e vitale del suo showing, rende quei sentimenti triviali fantasticamente straordinari, luminescenti, energici e potenti (molto al di là della semplice cronaca del banale di roba come 4 3 2 1 per capirsi)
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Naturalmente non si può negare che il film regga solo parzialmente i suoi 130 minuti: arriva un pochino stanco al dunque dopo la love story…
e non si possono negare che gli impasti drammaturgici del materiale biografico delle sorelle Brontë potranno fare storcere il naso a qualcuno (come già la pronuncia «Bronte» invece di «Bronti»): perché quello che si vede è effettivamente un biopic struggente di Emily Brontë ma è anche una trasposizione di Wuthering Heights, con i personaggi del romanzo assai rievocati (in questo film Branwell si fa male e resta nella magione dei Linton, cosa che in Wuthering Heights capita a Catherine; Emily rimane ad aspettare Branwell come Heathcliff aspetta Catherine; Emily rimane without her life e without her soul così come ci rimane Heathcliff; Emily apprende da Weightman il francese e la misura della vita, oltre che del sesso, così come Hareton li apprende da Cathy; Emily, in un gioco notturno, rievoca un infreddolito fantasma di sua madre, solingo ed errante nella brughiera così come in Wuthering Heights vaga il fantasma di Catherine ecc. ecc.), e questo ha portato a devianze varie dall’effettivo svolgimento dei fatti storici, già abbastanza ostici da ricostruire (si dice che a innamorarsi, forse ricambiata, di Weightman fu Anne e non Emily, una Anne, per altro, che rimane un po’ parecchio in ombra nel film; che Emily potesse essere a conoscenza del sesso è altamente improbabile, visto che in Wuthering Heights i bambini nascono senza che nessuna donna venga descritta incinta; Jane Eyre, il famoso romanzo di Charlotte, che nel film sembra essere edito dopo Wuthering Heights, fu invece pubblicato due mesi prima; nel frontespizio di Wuthering Heights, nel film, si legge bene il nome di Emily Brontë come autrice, quando invece fu pubblicato con lo pseudonimo Ellis Bell; e nel film Wuthering Heights sembra essere di 3 volumi quando invece fu di due perché nel terzo c’era Agnes Grey, scritto da Anne e pubblicato con lo pseudonimo di Acton Bell; inoltre si tace della sistemazione linguistica che Charlotte operò su Wuthering Heights, originariamente scritto in dialetto, per una nuova versione edita nel 1850, tre anni dopo la prima, quella che si legge ancora oggi nelle edizioni “correnti” anche economiche)
sono “punti deboli” che però con me hanno funzionato come “punti forti”, perché, come lo showing intreccia le emozioni visivamente, esattamente come Emily Brontë le aveva intrecciate letterariamente, così la sceneggiatura, bellissima, di O’Connor intreccia vita e invenzione, finzione ed esperienza, vero e finto, come il grande cinema dovrebbe fare e infatti la “morale” di scrivere suggendo ispirazione dal mondo che si vede, a finestra aperta (per inciso la stessa finestra aperta che Catherine anela alla fine della sua vita in Wuthering Heights), in ascolto dei suoni della notte, del bosco, cioè di una Natura imbrigliata e plasmata in Cultura, in Arte (vedi anche la stessa tematica in At the Ends of the Earth di Golding), chiude il film in un percorso di Ringkomposition mirabile, e con la protagonista effettiva che si rivela essere perfino l’insopportabile Charlotte, tutta perbenino e sputasentenze che, grazie alla visione del sacrificio artistico di sua sorella, riesce davvero a trovare la quadra tra tutte le dicotomie (quelle dette sopra, della passione contro il guadagno, della convenzione contro la libertà ecc. ecc.) che la vita della sorella aveva incarnato, e la trova appunto nella elaborazione fiction della propria esistenza, NON con mero cronachismo di quanto ti è successo, ma con archetipizzazione colossale del particolare che diventa universale con il comburente della Natura a contatto con la Cultura…
e O’Connor rende il suo film perfettamente coerente con la sua morale finale: un film che è sia Cultura sia Natura, sia biopic sia trasposizione del romanzo, sia period drama sia contemporaneismo arrembante, sia découpage classico sia fertile indagine di montaggio diegetico non risaputo… [notare quanto, per un attore, come è O’Connor, l’uso della propria esperienza come bagaglio per creare le emozioni finte del suo personaggio sia quotidiano, in accordo ai dettami di Stanislavskij: cioè l’intreccio tra vita e finzione che alla fine trova Charlotte nel film, gente come O’Connor, se obbediente a Stanislavskij, lo pratica ogni giorno!]
Una goduria!
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Anche se azzecca solo due temi (Boundless, con citazione quasi letterale da «So starben wir, um ungetrennt» di Tristan und Isolde di Wagner; e il coro di No coward soul is mine), la colonna sonora di Abel Korzeniowski (che figura anche tra i produttori esecutivi!) è eccellente!
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