Per nulla dispiaciuto dall’Edward Albee di due settimane fa, e colpito dal film The Father che Zeller ha adattato dalla sua commedia, mi fiondo tutto contento al Teatro della Pergola a vedere Il figlio, cioè The Son di Zeller prima di conoscere l’adattamento cinematografico con Hugh Jackman… [chiarisco che la pièce sarebbe in francese, Le fils, ma il film, come fu per The Father, usa la traduzione inglese di Christopher Hampton]
Traduzione, adattamento e regia di Piero Maccarinelli
Il protagonista è Cesare Bocci,
suo figlio è Giulio Pranno,
la prima moglie è Galatea Ranzi,
la seconda è Marta Gastini…
scene Carlo de Marino e musiche del vecchio Antonio di Pofi…
quando vedo il palco riempito da pannelli semoventi colorati da luci quadrangolari, simili, per certi versi, agli spazi di Giancarlo Cobelli (senza correre troppo indietro al mio adorato Gordon Craig), mi entusiasmo, ma all’arrivo dell’azione mi trovo davanti, paradossalmente, uno spettacolo quasi da realismo socialista…
I pannelli si aprono e chiudono per lasciare scoperta o nascosta la metà del palco che ricoprono, con un gioco ripetitivo di aperture, prima a destra e poi a sinistra, irreggimentative della drammaturgia (con scene ambientate prima a casa del padre poi a casa della prima moglie), quasi snervante: cosa hai composto a fare i pannelli se servono solo a nascondere una spaziatura scenica elementare?: bastava lavorare con le luci!
con le luci avresti arricchito di smarrimento, invece che di noia, il rimpallo (risaputo ma sottile) delle ambientazioni…
e come mai, in un testo così denso di disperazione, la recitazione è quella delle soap opera, con i genitori che parlano delle manie suicide del figlio come se si fosse nel 1998? [Le fils ha debuttato alla Comédie des Champs-Elysées a Parigi nel 2018]
Le mura sceniche solo funzionali e non semantiche e l’eloquio da fiction di Rai1 del ’98 mi hanno fatto perdere interesse immediatamente…
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Lo strazio bugiardo del figlio non provoca alcuna fluttuazione nella comodità da Rai1 imposta sul palco…
- le musiche di di Pofi, calligraficamente settecentesche, non si alterano…
- Bocci e Ranzi hanno la lacrimevolezza che aveva Sabrina Ferilli in Commesse: vedono il figlio che si suicida e stanno lì a fare dei piantini di mestiere che si vedono essere finti…
- Pranno, forse, è quello che ci fa la figura migliore: almeno qualche urletto lo fa…
che il figlio debba essere ricoverato in psichiatria è un evento che per Bocci e Ranzi casca dall’alto, ancora veicolando lo stigma del “malato di mente” che sa davvero di anni ’90…
certamente, nel testo, ci sarebbero suggeriti tutti i modi estranianti per rendere tangibile e palese l’incomunicabilità dei genitori con un figlio bipolare, modi che spero Zeller usi nel film con Jackman…
- nessuna luce divide il figlio dai genitori…
- nessuna azione sottolinea i retroterra terrorizzanti (il rapporto del padre col nonno, la disperazione della mamma): perfino la reazione della seconda moglie è trattata come un fattore “quotidiano” invece che come una ferita dell’anima…
- nessun espediente toglie la vicenda dal triviale e dal comune per immergerla nella tragedia: una tragedia che giunge quindi anch’essa comune e per niente pregnante…
- che un tale tenga in casa un figlio tendente al suicidio mentre nel contempo ha un fucile carico nell’armadio è una cosa priva di senso nel comune, e la si apprezzerebbe tragicizzandola con vari espedienti, appunto luci ed estraniamenti che ci illustrino come la mente degli adulti sia annebbiata…
- invece gli adulti agiscono come nella vita di tutti i giorni, con i litigi recitati, e quando il figlio si spara la tragedia è così annunciata che non possiamo davvero provare compassione per chi non l’ha percepita: Bocci e Ranzi, invece che pena, fanno quasi rabbia!
E quando l’estraniamento arriva, proprio nel testo, con le visioni oniriche finali, la struttura realista del palco le rende ugualmente quotidiane, e quindi smorte, per nulla disperate, con un twist che invece di scuoterci siamo lì a “sezionare” come a dirgli «vai, twist, adesso esplodi alla svelta, così finisce tutto, poiché che sei un twist s’è già capito 1h fa!»
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Naturalmente, tutto questo mio livore nasce probabilmente dal fatto di non appartenere al probabile target che Maccarinelli aveva in mente (e io non ho visto la sua versione teatrale di The Father con Alessandro Haber e Lucrezia Lante della Rovere, giunta anche alla Pergola nel 2019), che forse era rappresentato da 90enni ancora non a loro agio coi concetti di psichiatria e di depressione…
quasi certamente, per un nonno, o per gente come il personaggio delineato da Bocci, cioè il borghesone riccone ammanicato con la politica, una sorta di Giorgio Gori o di Francesco Rutelli, il contatto con la depressione cade dall’alto come un macigno in quella che è la cristallina pozzangheretta dorata della quotidianità, appunto quella rappresentata da Maccarinelli in scena…
e a gente come Gori o Rutelli basta quel twist all’acqua di rose per saltare dalla sedia e riflettere…
sicché la gente come Gori o Rutelli apprezzerà lo show…
in platea alla Pergola, mi è parso, molti erano come Gori o Rutelli, o vicino ai 90 anni: per loro magari la visione di questo Figlio comune e da tran tran avrà potuto significare qualcosa…
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boh, ci sta…
io, in tutto lo show, e a maggior ragione nell’onirismo finale, avrei voluto un po’ meno scena statica e un po’ più di disperazione resa tangibile col teatro e non solo con le parole in esso dette…
e io ho trovato irritante l’italianizzazione dei nomi e delle situazioni, cosa che invece sarà, negli intenti, servita proprio ad avvicinarsi ai Gori e Rutelli 90enni seduti con me nella piuttosto sguarnita platea della Pergola…
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