Triangle of Sadness

Tra la fine della Belle Époque e l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, è facile incappare in testi artistici che simboleggiarono i meccanismi artefatti e guerrafondai del potere con configurazioni tipiche delle maschere della Commedia dell’arte (perifrasi che ammanta di un’aura mitica ciò che erano soltanto le pratiche degli attori professionisti, soprattutto italiani, nella società dell’Ancien Régime)

Arlecchini, Brighelle e Colombine, con i loro lazzi marionettistici e convenzionali, satirici e iperbolici, derivati soprattutto dai lavori settecenteschi di Carlo Gozzi, un vero must di inizio Novecento (anche se gli accenni a Goldoni, soprattutto in Italia, non mancarono), vennero usati, per esempio,

  • da Max Reinhardt (1873-1943)
  • dalle Maschere di Pietro Mascagni (1910)
  • dall’Ariadne auf Naxos di Richard Strauss & Hugo von Hofmannsthal (concepita con Reinhardt nel 1912 e poi ampliata nel 1916: è nelle Musiche per l’estate)
  • dall’Arlecchino e dalla Turandot di Ferruccio Busoni (1917)
  • dalle opere di Renato Simoni (1875-1952), Giuseppe Adami (1878-1946), Giuseppe Giacosa (1847-1906)
  • dalla Ljubov’ k trëm apel’sínam, L’amore delle tre melarance di Sergéj Prokóf’ev (1921), il cui libretto da Gozzi derivava dalla traduzione di Vsévolod Mejerchól’d
  • dalla Princessa Turandot di Evgenij Vachtángov (1922)
  • dalla Turandot di Giacomo Puccini (il cui libretto è di Adami e Simoni), rappresentata nel 1926

Eccetera, eccetera, eccetera, fino all’Arlecchino servitore di due padroni di Giorgio Strehler del 1947 (che sarebbe Il servitore di due padroni di Goldoni, 1745, che come protagonista aveva invece Truffaldino)…

I comici mascherati, sozzi, lubrichi, sempre guadagnoni e libidinosi, mai attratti da nulla se non dal proprio tornaconto, economico o sessuale, denunciavano bene i potenti del mondo in quella porzione di tempo…

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, i traumi della Shoah e della bomba atomica “richiesero” ben altra denuncia: roba come En attendant Godot di Samuel Beckett (1952), o i drammi di Eugène Ionesco (1909-1994), recuperarono un modo di denunciare molto più nichilistico (che nella Belle Époque c’era già, nel teatro simbolista [di Maeterlinck] e surrealista [di Alfred Jarry], per esempio: Ubu Roi di Jarry è del 1896 e Pelléas et Mélisande di Maeterlinck è del 1893), ma non meno iperbolico: indicarono nella completa mancanza del senso dell’esistenza il problema del potere: un potere che non poteva nient’altro che partecipare all’assurdità della vita…

È da Beckett, Ionesco e compagni, cioè quasi 70 anni fa, che si origina una precisa componente del cinema odierno, quello di stra-autore, che cerca in tutti i modi di leggere il presente come mefitico là dove i cinecomics di fabbrica e industria o quel presente lo rifuggono o lo edulcorano con le favolette del lieti fini, delle guerre che si possono vincere (che idiozia) e degli dèi pronti a correre in aiuto della Terra…

Come Beckett e Ionesco, gli stra-autori cercano di deformare la vita quotidiana per farla apparire intrinsecamente balorda e a caso, e per “distinguersi” dai maestri, riaccusano la vita di sottostare a delle convenzioni così stringenti (ma sempre ed eternamente assurde) da somigliare alla società da Commedia dell’arte presa in giro nella Belle Époque

gente come Östlund (vedi anche l’Elogio di EVA), Lanthimos, Petzold e tanti altri, riciclano modalità di satiriasi, di iperbole e di nichilisitica assurdità vecchie di 70 o di 200 anni in contesti contemporanei…

la mia idea è che non se ne possa più

anche perché i fenomeni da questi autori descritti risultano spesso così similari da rendere quasi superflua la visione dei loro film: già sai che film sarà quando vedi i nomi suddetti…

In Triangle of Sadness sai già che la crociera sullo yacht finirà in burletta scatologico-vomitina, già alla primissima menzione dell’alta pressione del giovedì… sai già che sull’isola del naufragio, in povertà, si creeranno equilibri di potere ugualmente insopportabili come quelli del capitalismo che vigevano sullo yacht in ricchezza…

è pertanto un film prevedibile…

che comunque va avanti per 2h 40’…

Ultimamente mi lamento sempre delle durate dei film… segno che invecchio…

ma la rabbia mi sopravviene poiché Östlund raggiunge i 160 minuti con una serie di ridondanze (per far vedere che i ricchi sono degli imbecilli occorrono tante occasioni: e la vecchina ricca che insiste sull’aver visto le vele sporche su una barca a motore che le vele non ce l’ha; e la moglie del magnate russo che ordina a tutto l’equipaggio di tuffarsi dallo scivoletto gonfiabile dello yacht; e i coniugi britannici che commerciano in armi) e con lunghissime sequenze di dialogo teorico-politico del tutto inconcludenti (il capitano dello yacht, Woody Harrelson, si impegna col magnate russo in quasi 1h di comparazione ideologica tra il capitalismo neoliberista del russo, che vede solo e soltanto tornaconto personale come motore del mondo umano, e l’ideale di convivenza sociale di Harrelson, fidente in un’umanità capace di sfuggire in qualche modo al motore del denaro), inconcludenti e vecchie (la denuncia del capitalismo soldoso è identica a quella che facevano, con Gozzi, i teatranti della Belle Époque)…

e il brodo si allunga molto di più col terzo atto sull’isola, dove si cerca di annodare la critica anticapitalista alla critica sessuale, ancora ribadendo che tra i perni che muovono il mondo non solo c’è il denaro ma anche il sesso…

sesso e denaro che creano potere, e il potere produce violenza dell’uomo sull’uomo

e questo è il teorema

ma questo teorema non è quello di sempre?

non è quello degli spettacoli di Mascagni e Puccini?

non lo conosciamo già per dritto e rovescio?

occorrono altri 160 minuti per pedissequamente ribadirlo?

perché, parliamoci chiaro, a parte qualche blanda e poco calibrata stoccata al politicamente corretto (stoccata che rischia di cadere nel destrismo: rappresentare le donne “lavoratrici su Instagram” come potenziali puttane del riccone grassone di turno, per sottolineare la continuità tra sesso e denaro, e quindi sminuendo il femminismo e la parità, sentita come fasulla e solo usata dalle “lavoratrici di Instagram” allo scopo di essere più visibili ai ricconi che le manterranno, è nutriente? oppure è il solito qualunquismo alla Pio & Amedeo in cui si vuol far passare come vittima il maschio bianco povero a cui si dice semplicemente: «non difenderti! se ti difendi fai male a noi donne nella nostra lotta di farci mantenere sì da un maschio bianco ma coi soldi!»), nei 160 minuti Triangle of Sadness non ce n’è uno che sia davvero capace di dirci qualcosa che non sappiamo…

Triangle of Sadness va avanti stanco (e mica per nulla gli ci vogliono quasi 3h per concludere!), con una calligrafia visiva così sciccosa, stilosa e radical chic da dare il voltastomaco (Östlund è l’altra faccia della medaglia di Guadagnino: preciso fino al maniacale, mai qualcosa fuori posto, tutto lustro, laccato, pulito: ma alla fine sterile, impalpabile, indifferente, inutile come Guadagnino), e con, esattamente come Gudagnino, la sicumera di chi è sicuro di starti dicendo qualcosa di fenomenale, di artistico, di prezioso per la vita…

e quel qualcosa è l’ennesima, vecchia di 100 anni, satira iperbolica anticapitalista così esagerata da finire per essere recepita come burletta, come un lazzo d’Arlecchino divertente, con la denuncia annullata in risate ridicole…

cioè parti a fare le denunce degli stronzi capitalisti, la butti in caciara iperbolica, e finisci per fare il gioco proprio dei capitalisti che volevi denunciare, che alla fine ne escono perfino meno peggio dei poveri…

perché per “imparzialità” nichilista anche i poveri devono essere stigmatizzati come scemi perché accettano il capitalismo, o perché il capitalismo è ineluttabile data la sua ricomparsa ciclica in milioni di anni, e quindi anche i poveri devono essere iperbolizzati ed esagitati in questo tipo di film…

e finisce che davvero la denuncia dei ricchi si risolve in una struggle for life in cui i poveri, in ultima istanza, fanno anche la figura degli arrampicatori sociali invece che quella di chi chiede diritti… [è la mia critica a Parasite al numero 16 del Papiro relativo]

e nello scontro politico sia capitalismo sia anticapitalismo (liquidato quando, sull’isola a morire di fame, il magnate russo ritira fuori il motto sovietico, «ognuno dà a seconda delle proprie possibilità e riceve secondo i propri bisogni», suscitando le risate dei “nuovi capi” capaci di pescare e accendere il fuoco e che se ne fregano di chi non può) finiscono per equivalersi nel caro vecchio nichilismo che non porta a nulla se non alla noia (quella del film, quando, nei 1950s, Beckett era ancora in grado di far riflettere con quel nichilismo)

Per capirsi:
Triangle of Sadness l’abbiamo già visto tutti;
è la copia di mille riassunti di secoli di denuncia anticapitalista;
è quindi telefonato in maniera opprimente;
e il suo stile radical chic perfetto e lucido, così adatto a rappresentare la “ricchezza” e la geometria della vita agiata, non viene davvero mai “deformato” dalla satira e dall’iperbole (che cosa brutta), ma la satira e l’iperbole, in diegesi, sono così fuori fuoco da dimenticare a cosa si riferiscono, e risultano in un pastrocchio che finisce quasi per calpestare anche chi nella denuncia era “vittima” e glorificare chi nella denuncia voleva essere “carnefice”…

il tutto in più di 160 minuti… con tanto di musichette rococò assolutamente spaccaballe…

boja

Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto di Lina Wertmüller (1974) è senza dubbio il padre putativo di Triangle of Sadness… e Wertmüller incappava in meno qualunquismi!

La modella protagonista Charlbi Dean (il personaggio si chiama Yaya), è morta a 32 anni sei mesi dopo la presentazione del film a Cannes: un vero peccato!

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