The French Dispatch

Quello che si è detto per Isle of Dogs vale a mille anche qui per The French Dispatch, con, per giunta, molte più aggravanti…

Finché Anderson riesce a piegare al suo stile certe filosofie (e, badiamo bene, sono le filosofie che Anderson piega per il suo stile: Anderson non si sogna mai di fare qualcosa di diverso, o tanto meno, di inverso, cioè di adattare il proprio stile alla filosofia che racconta, non sia mai! Anche Ridley Scott o Stanley Kubrick hanno uno stile bello compatto e uguale nel tempo, ma sono bravi, ogni tanto, a ibridare il loro modo con le istanze della vicenda [vedi Scott, per esempio, poeta di impasti luminosi, che si insinua nell’oscurità visiva di un film come American Gangster]: Anderson, invece, rimane identico fin quasi a preoccupare: realizza l’anatema di Mereghetti su Danièle Huillet & Jean-Marie Straub ovvero, grosso modo, «la scoperta di un linguaggio si è “degradata” all’applicazione di uno stile anche là dove quello stile non ci appiccica una mazza»), tipo la nostalgia alla Stefan Zweig in Grand Budapest Hotel, ok, va tutto bene…
o anche quando scrive, con Roman Coppola, qualcosa di dolcioso e fatto apposta per essere visualizzato con il modo di Anderson (tipo Moonrise Kingdom), va benissimo: meglio che mai…

Ma, altre volte, tipo appunto Isle of Dogs o Fantastic Mr. Fox, o, peggio che mai, questo French Dispatch, siamo davanti a un qualcosa che è quasi simile alla masturbazione…

…ma parlare di masturbazione è troppo severo…

…siamo più dalle parti di un grande appassionato di modellismo: uno che si costruisce, con grande dispiego di tempo, sapienza, competenza, know how, capacità e solerzia, un bello scenario di chiodi, legno, coccoina, colla, borraccina, cartapesta e stagnola a fare da sfondo a un ugualmente realizzato benissimo (con ferro, plastica, vernicette, pennellini, adesivi) trenino che viaggia su rotaie anch’esse costruite con Hobby & Work e tanto amore per il Meccano e il bricolage, rotaie che portano il treno tutto intorno allo scenario…
…e il costruttore è lì in mezzo allo scenario del trenino: lì che guarda il trenino, per ore e ore, girare intorno al laghetto fatto di specchio, alla stazioncina da cartolina, al passaggio a livello che ricrea, in piccolissimo, i veri passaggi ferrati della campagna francese del 1964 (quelli con la doppia campanellina d’allarme e il caratteristico colore verde [sto naturalmente inventando]) o danese del 1976, o russa del 1918, tutto contento, tutto felice di aver scelto lui ogni cosa, di aver costruito lui tutto quanto: felice di vedere un trenino che gira in tondo, tra salite e discese, montagne finte, ponti coperti fatti da lui, scambi ludici da lui predefiniti, in un loop consolante che fa simulacro di un mondo ordinato dove la realtà è decisa da qualcuno, dal costruttore stesso per se stesso invece di essere la crudele imposizione dell’entropia (concetto, rieccoci, molto vicino alla masturbazione)…

E Franch Dispatch è così…

Anderson lo costruisce tutto contento…
…con un know how tecnico davvero di prim’ordine (almeno lo scenografo Adam Stockhausen andrebbe candidato agli Oscar; e sempre ottimi sono Yeoman alla fotografia, Weisblum al montaggio, Canonero [manco a dirlo] ai costumi, Desplat alla musichetta pianistica [col solito Thibaudet a fare da solista])…
…con tutti i suoi amici (quasi tutte le comparse sono gente “nobile”, come in un film di Landis degli anni ’80: ci sono tutti: da Henry Winkler a Griffin Dunne: c’è perfino Bruno Delbonnel nascosto tra la folla!)…
…con tutti i nervi narratologici post-moderni che vanno oggi (un pochino anche tarantiniani: la divisione in capitoli, l’uso dell’animazione, un leggero incrocio tra analessi e prolessi più ardimentoso di quanto si vede in giro) che a lui piacciono tanto (e difatti ce li propina in tutti i santi film)…

…e tu spettatore lo guardi anche contento, certo…

ma ti rendi conto ben presto che, per 1h e 45′, te sei lì a vedere un trenino che Anderson si è costruito per se stesso per camomillarsi dalla realtà…

e a te piace vedere il modellino di un bel trenino che gira come piace al suo costruttore?

boh…

dipende da te e dai tuoi gusti personali

e per i miei propri gusti personali funziona così:
a me vedere il trenino che gira mi scassa le palle dopo 14 secondi: figuriamoci dopo 105 minuti!

per il resto, in ben quattro episodi arzigogolati e complicati (come tutte le storie di Anderson e proprio come un trenino di diversi livelli di complessità modellistica, di quelli che vanno tra bosco e riviera e tra montagna e palude), la cosa che appare più evidente è la DISCONTINUITÀ (e non c’entra niente quella di Mohorovičić)…

  • sgargiante Saoirse Ronan in neanche 3 minuti (e se lo dico io la cosa ha un valore perché io *detesto* Saoirse Ronan, vedi Little Women e il commento alle nominations agli Oscar del 2019): finalmente affronta un personaggino piccolo nobilitandolo con ottime capacità stanislavskiane…
  • bello l’aggiornamento sul corpo di Léa Seydoux: interessante (sono sarcastico) perché eravamo rimasti ad Adèle, di quasi 10 anni fa, e poco attendibile per via di presunti usi di protesi protettive: Anderson, invece, in un elegante bianco e nero, ci mostra ogni cosa così da rimettersi in pari… sto scherzando: Seydoux è efficacissima e lampeggia per sguardo truce e movenze teppistelle di monelleria manesca: molto vivida! [e bello vedere che è ottima a gestire qualcosa di molto diverso dal bamboloso lacrimevole richiesto nell’ultimo 007]
  • insopportabile, invece, l’annacquamento del Sessantotto:
    • presentato e quasi ridicolizzato come questione di ormoni (sia giovanili sia attempati);
    • buttato in burletta come semplice capriccio di giovinastri coglioni (e il protagonista è ovviamente Chalamet, il volto di qualsiasi bimbetto imbecille: ormai un’icona: è paragonabile al Leonardo DiCaprio del 1995-2000);
    • banalizzato nelle istanze sociali e ideologiche, tanto da farci intuire il manifesto come semplice questione retorica invece che politica (un disastro simile alle idee di Marcuse del tutto sbrindellate dai Coen in Hail, Caesar!)
  • poco compatto nelle tante e troppe implicazioni simboliche (che di solito a me piacciono tanto) sull’istanza rappresentativa del mondo…
    mi spiego: siccome il film è palesemente il modellino di un trenino, tutte le costruttività scenografico-visive sono in scena e a vista di per sé e molte volte questo tipo di configurazione è per me fonte di gioia (vedi Branagh, o il Coppola di One from the Heart e Bram Stoker’s Dracula, per capirsi [e Coppola è anche mezzo parente di Anderson!]), ma altre (come la Anna Karenina di Wright/Stoppard [rivedi Little Women]) mi sa di cervellotico e, ancora, di masturbatorio…
    la trama, sì, supporta i costrutti fintosi in quanto illustrazioni di finzioni giornalistiche, ma, appunto perché la moltiplicazione dei simbolismi è ipertrofica (film che fa finta di fare articoli di giornale che fanno finta di ricreare storielle che si rappresentano con cose che fanno finta di fare metacinema che rende palese il fare finta di fare qualcosa), alla fine si ha a che fare perfino col tautologico faccio finta di fare finta… e finché si rimane in contesti dada o in roba neo-settecentesca (e cioè con Italo Calvino, Michael Ende, Queneau, Borges, Buñuel, Sterne, Stravinskij e il Rosenkavalier di Strauss), roba aperta alla teoria, alla non narratività (o alla non fiction), o si riflette su quanto tutto questo precipiti nell’esperienza quotidiana (alcuni esempi vicini nel tempo: Dolor y Gloria, Febbre di Jonathan Bazzi, Sembrava bellezza di Teresa Ciabatti, senza scomodare i soliti Albee, Carpenter e annessi e connessi), allora ok, ma se tutto rimane fiction e narrativo, qualche cosa si sfalda troppo… e rompe tutto quello che costruttivamente si voleva dire…
    mi rispiego:
    vuoi dire che tutto è finzione, e mi fai contento, ma se lo dici non riuscendo a dosare “teoricamente” tra vero e verosimile, allora ottieni uno scherzo, non una teoria…
    ottieni un balocco che non serve a niente invece che una riflessione…
    ottieni, ancora, la camomilla dell’illusione (quella del modellino del trenino) invece che il monito costante a distinguere tra vero e finto…
    perciò stai lì a dirmi di fuggire dalla realtà in un mondo di fantasia invece di usare la fantasia per vivere meglio nel mondo…
    ma se mi dici così allora è come se abdicassi dalla tua utilità (detto in senso nobile) di artista per accontentarti solo e soltanto di quello che fai tu nel privato, a speculare di chimere e modellini, invece di quello che c’è davvero da affrontare… un’arte come un fuggire, che più che dalle parti di Des Esseintes o Gautier o della Secession (che implicavano un certo nichilismo oltre che un solido Simbolismo non aleatorio né arbitrario), finisce per essere perfino dalle parti del qualunquismo, del povero Edoardo Vianello, di Luciana Littizzetto, di Lino Banfi…
    e va tutto bene essere così… ma allora perché darsi tutto quel tono arty?
  • e dal punto precedente consegue che, in 105 minuti di gioco ludico costruttivo Art pour l’Art, Anderson finisce per non *dire* effettivamente una minchia!
    Alla fine di tutti i panegirici artistici butta là il consolatorio motto «eh, poverini gli emarginati come i carcerati, i gay o i rifugiati, che meriterebbero tanto più di quello che hanno»…
    beh… grazie che ce l’hai detto…
    ma ce l’hai detto nel modo più didascalico possibile, come Brunori e Willie Peyote che dicono «Salvini merda», a caso, nelle loro canzoni…
    basta questo a dire di aver contribuito alla cultura?
    basta enunciare semplicemente la voglia di essere nel giusto invece che agire?
    come mai non hai sviluppato questo assunto nella trama, invece di fare il modellino Art pour l’Art?
    come mai dici cose così condivisibili da essere banali al centro del modellino del tuo trenino invece di dirle *davvero*?
    perché, se avevi per le mani un’ambientazione del Sessantotto, quell’ambientazione l’hai buttata in burletta e in ormoni?

E il buttarla in ormoni,
costruire scenograficamente e fotograficamente così tanto, tanto da fuggire dalla realtà invece di affrontarla, squalificando e prendendo anche in giro chi la realtà ha cercato davvero di “comporla”, cioè il Sessantotto (bene o male che abbia fatto),
e fare tutto questo per poi uscirtene con «eh, ma poveri immigrati e poveri gay: poverini» cosa “comunica” al tuo pubblico?

A me, quella “comunicazione” fa rispondere:

poverini un cacchio!

se tu facessi qualcosa di meno estraneo al mondo, magari poverini non sarebbero più, o magari lo sarebbero meno!

invece hai preferito costruirti un mondo tuo nel trenino invece di sporcarti le mani col mondo vero: a quel punto che cacchio fai i pistolotti impegnati?

perché ti atteggi a impegnato quando invece The French Dispatch l’unico impegno che mette è nell’otium del non impegnarsi!?

Beh, tutte queste domande mi hanno fatto un po’ detestare The French Dispatch

e me l’hanno fatto assomigliare perfino a quel pastrocchio che fu Cloud Atlas

Ne ha parlato anche Sam Simon

2 pensieri riguardo “The French Dispatch

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  1. Proma di tutto grazie del link! Secondo… Sono d’accordo con quello hai detto. Anderson non voleva mica dire nulla con questo film. Si ripete ormai sempre di più, con una maestria invidiabile, ma in quanto a contenuti mi sa che dobbiamo cercare da qualche altra parte. Mi rimangono tante immagini belle, scene divertenti, e già è più di quanto si possa dire di parecchi altri film recenti, ma va preso come un divertissement (o, come hai scritto, un modellino di trenino che gira e gira).

  2. mmh
    volevo andare con amici ma uno dopo l’altro mi hanno detto NO! e ora dall’analisi non credo che nemmeno mia mamma apprezzerebbe
    ci andrò da solo e ti saprò dire

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