Questo post è stato scritto prima di Giulia Cecchettin… l’eziologia del suo assassino ha reso ingenue le mie considerazioni sull’uomo violento che cresce in un ambiente maschilista catalizzante una violenza patologica… con l’omicidio Cecchettin è diventata chiara la linearità facile, logica e consequenziale, quasi deterministica, secondo cui il maschio, da quando nasce, non può che finire con l’uccidere un suo oggetto di distorto affetto, poiché tutto concorre a questo: e non lo fa per natura ma per palese cultura: la cultura idiota della divisione in sessi biologici, la cultura malsana della prevaricazione capitalistica (che grava spesso su un maschio, visto che spesso non permette alle donne di lavorare), del considerare per sempre ancillare una compagna, molte volte essa stessa abituata e vittima di tale rimpicciolimento da non riuscire a immaginarsi differente neanche per se stessa… e di lì la frase “l’assassino non è malato ma è figlio sano del patriarcato”… è proprio così… e che a questo i maschi contrappongano la litania del “non tutti siam così”, conferma che la situazione è insostenibile, e, ancora di più, che il problema grava sui maschi: sta a noi smetterla, sta a noi scongiurare di partecipare alla (mal)sanità del patriarcato…
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Mi piacerebbe elencare tanti classici delle narrazioni “sensibilizzanti” la violenza di genere, ma il discorso, purtroppo, è poco facile…
Quelli che sono considerati topoi (e.g. Sleeping with the Enemy di Joseph Ruben [1991], Enough di Michael Apted [2002], l’italiano La vita possibile di Ivano De Matteo [2016], l’Amore criminale televisivo [dal 2007 in poi]), beh…
…secondo me non centrano il problema…
Perché tutta la sensibilizzazione odierna, con tutti quanti, su Instagram, a dipingersi le D sulle mani, e tutti quanti ad “appellarsi” alle donne, che dovrebbero “svegliarsi” e denunciare o essere più brave a “scappare” (come in effetti fanno le protagoniste di Sleeping with the Enemy, di Enough e delle storie di Amore criminale), a mio avviso non c’entra assolutamente nulla con quello che è *il* problema effettivo…
…il problema effettivo è che sono gli uomini che picchiano…
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Tutta la comunicazione sul femminicidio, in modo a mio avviso paradossale, è rivolta alle donne, in quanto vittime, invece di essere rivolta agli uomini, in quanto malati…
Ci sono film, programmi televisivi e spot rivolti alle donne affinché esse lascino il partner, denuncino e scappino, ma non ci sono film, programmi televisivi e spot rivolti agli uomini affinché essi smettano di picchiare…
…trovo la cosa davvero strana…
anche perché sarà anche bene, per le donne, scappare da uno che ti picchia, è bene denunciarlo ed è bene riconoscere quando un rapporto è malsano, ok, ma, a mio avviso, è ugualmente bene far capire agli uomini che picchiare la gente del sesso diverso non è *salutare*, che è una malattia, che magari si cura… [o magari no: magari non c’è cura contro la stronzaggine: ma forse ci possono essere altri sistemi: dal ricovero alla sorveglianza da parte di un professionista, ai lavori socialmente utili o che ne so!]
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Perciò è molto strano, ogni volta, per me, vedere il cronachistico Amore criminale, sempre ripetitivo della solita formula «ma perché te donna non sei scappata?» senza che mai si chieda «ma perché te uomo la picchiavi? possibile che non ti rendevi conto di essere malato? possibile che nessuno, dal capo ufficio all’ASL agli amici ai passanti, nessuno ti abbia detto che quello che fai non è normale e che per smettere ci sono le terapie apposta?»
Quando si dice che è l’uomo che non dovrebbe picchiare si casca sempre dal pero perché la cultura machista dell’uomo che è capofamiglia e che non deve mai chiedere aiuto e che trova dappertutto amici che non fanno altro che parlare di figa, di conquista della femmina e di trombate varie sembra radicatissima, capillare ed endemica…
E proprio per questo, perché quella cultura è endemica, io allora tappezzerei cinema, televisione e social di una comunicazione adatta a cominciare a erodere tale cultura, una comunicazione, quindi, che cominci a dire che per gli uomini “violenti” ci sono i gruppi di cura, centri specializzati, e ci sono percorsi di guarigione simili a quelli adatti alle dipendenze da sostanze e comportamenti autodistruttivi (alcool, droga, gioco ecc.)
oppure *non ci sono* nel caso, molto diffuso, di pura stronzaggine maschile: in quel frangente appellarsi a una cura significherebbe ammettere che quegli stronzi sono malati invece che semplicemente stronzi, cosa che comporterebbe una attenuante in sede penale… ma anche in tali contesti comunicare agli uomini, appunto della loro stronzaggine, sarebbe utile…
Invece, ogni 25 novembre, si vede solo la ripetuta istigazione, riferita alle sole donne, a fuggire dal violento…
…non si dice mai nulla al violento!
…non si dice mai che il violento dovrebbe smetterla di essere violento e che potrebbe smetterla con percorsi sanitari (o legali) adeguati…
…no… si sta zitti…
appellandoci alla sola fuga delle donne si dà quasi per scontato che la cultura machista non si scalfisce, che è inutile anche provare, e che davanti a una persona violenta si può solo scappare, e basta…
boh
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Se tutti comunicano il 25 novembre in questo modo è ovvio che ci sarà una certa efficacia, anche se le statistiche, purtroppo, mi sembra provino il contrario…
per cui io, rischiando il ridicolo, mi metterò a dire che siamo noi uomini che si deve smettere di picchiare…
e vedere Sleeping with the Enemy, Enough, La vita possibile e Amore criminale, rivolti a tutti meno che agli uomini violenti, mi sa che non ci farà granché riflettere sulla nostra violenza (nostra nel senso «del genere maschile», premettendo il fatto che io, in realtà, cioè nel mio inconscio, dati i miei gusti, sono una donna omosessuale nata tra il ’77 e il ’79 e non un uomo nato nel 1982!)
magari ci aiuta di più roba come
- Cronaca di un amore violato di Giacomo Battiato (1994), in cui Roberto Zibetti fa uno stupratore pazzoide pieno di problematiche…
Non è un film bello, e per certi versi è sgradevole e poco probabile, ma è un tentativo di portare il discorso sull’uomo che va salutato almeno con curiosità… - Caramelle da uno sconosciuto di Franco Ferrini (1987)…
Una baracconata abbastanza assurda (uno dei primi film di Sabrina Ferilli), ma contenente alcuni logos non brutti su cosa sia la società machista…
E certe idee narrativo-visive, pur “puerili”, ogni tanto riescono a reggere perfino oggi! - Uomini che odiano le donne…
Non ho letto il romanzo di Stieg Larsson (2005), che Carmen Giorgetti Cima ha tradotto per la Marsilio di Venezia (dopo il rifiuto di comperarlo da parte della Iperborea di Milano solo perché aveva un altro autore chiamato Larsson a contratto e quindi temeva “sovrapposizioni”: quando si dice essere lungimiranti) nel 2007 [e non ho letto neanche gli altri due della trilogia Millennium], ma ho visto i due film che ne hanno tratto Niels Arden Oplev nel 2009 e David Fincher nel 2011 [anche stavolta senza vedere gli altri film di Alfredsson e Álvarez, quest’ultimo, oltretutto, basato su un romanzo-seguito e non sulle storie di Larsson]…
I film non sono brutti testi (specie quello di Fincher), e documentano bene il connubio tra l’identità misogina e il nazismo: un connubio culturale che è virulento per il genere umano… - Big Little Lies serie messa a punto da David E. Kelley con soldi di Reese Witherspoon e Nicole Kidman e girata da Jean-Marc Vallée nel 2017 a partire dal romanzo di Liane Moriarty (una più fiacca ma non bruttissima seconda mandata è arrivata nel 2019)…
È una serie fantasticissima, che sviscera il problema da un sacco di punti di vista, con strumenti di teoria visiva prodigiosi: è davvero da rimarcare: è proprio una mano santa sull’argomento: da vedere e rivedere… [un giorno dovrò farci un post apposito] - Che fare? (Čto délat’?) di Nikoláj Černyšévskij (romanzo del 1863)…
Non si legge benissimo, ma la storia degli amori di Vera Pavlovna, e della sua impresa a conduzione “cooperativa” (a cui si ispira perfino, ovviamente fraintendendo tutto, il Joy di David O. Russell del 2015, che tramortisce in capitalismo soldoso ciò che era sociale!) illustra fantasticamente quello che potrebbe, utopisticamente, essere la società al di là del machismo e delle atrocità di classe e genere!
Oggi è disponibile in diverse traduzioni ma quella che continua a essere la più diffusa è quella condotta da Federigo Verdinois per i Fratelli Treves di Milano addirittura nel 1906: Garzanti continua tutt’oggi a ristamparla! - Resurrezione (Voskresénie) di Lev Tolstój (iniziato nel 1889 poi rimaneggiato e pubblicato tra 1899 e 1900)…
È quello che propongo come la medaglia di legno dei, secondo me, testi definitivi del femminicidio, perché fantasticamente critico della società machista… il protagonista fa il violento ma, gradualmente e in modo disperato, si rende conto che è un demente, uno che vive solo di convenzioni, e cerca di “riscattarsi”, ma è troppo tardi…
In un contesto come quello dell’urgente abbandono della cultura violento-maschilista quello di Resurrezione, chiaro nel dire che quella cultura porta allo sfacelo, è un messaggio fantastico da lanciare…
Notare bene che aveva fatto un tentativo simile a quello di Tolstój anche Michaíl Lérmontov nell’Eroe dei nostri tempi (Gerój nášego vrémeni) nel 1840, però aveva centrato molto meno il bersaglio a causa di una scarsa calibrazione del “sarcasmo” (la gente prese a modello il protagonista perché non comprese che Lérmontov lo stava in realtà criticando! anche le successive prefazioni di Lérmontov, che cercavano di “spiegare”, non servirono a nulla!)…
Di Resurrezione esistono molte ottime traduzioni: io sono affezionato a quella di Emanuela Guercetti (Garzanti, 1988), ma devo confessare che l’apparato paratestuale e filologico dell’edizione cartonata Rizzoli dei Romanzi (insieme a Infanzia/Adolescenza, Resurrezione costituisce il primo volume), stampata nel 2010, con i saggi di Maria Bianca Luporini (che rivede anche la “classica” traduzione di Agostino Villa scritta per Sansoni nel 1961), è imbattibile (i saggi di Luporini, la sua revisione traduttiva, i suoi paratesti, erano già stati pubblicati dalla stessa Sansoni, forse nel 1990 ma probabilmente anche prima)… - Sonata a Kreuzer (Kréjcerova sonáta) di Lev Tolstój (1889-1890)…
È quello che propongo come la medaglia di bronzo dei, secondo me, testi definitivi del femminicidio, perché fantasticamente sul pezzo: è la storia di un gelosissimo paranoico, allucinato e schizzoide, di cui condividiamo tutti i punti di vista, come nel miglior cinema…
Il grande Tolstój, in formissima (anche se c’è da sopportare tutta la prima parte, tediosissima dei suoi dettami cristologici ridicoli), crea un romanzo che è un vero film, tutto fatto degli sguardi onirici e mai oggettivi del protagonista, che vede senza mai avere la certezza di vedere quello che c’è o di stare solo immaginando!
Ne viene fuori una tragedia della visione, del fallimento della percezione, incastonata nel problema del machismo, della prevaricazione: le follie della gelosia e del sistema “possessivo” dell’uomo sulla donna vengono sviscerate completamente in questo romanzino che non supera le 100 pagine, e che esprime senza giri di parole quanto possessione, violenza e prevaricazione siano del tutto assurde, vaghezze manicomiali, sciocchezze pazzoidi che vanno curate invece che cavalcate…
Ho letto la traduzione di Laura Salmon (Garzanti, 1987) - Diavolo (D’jávol) di Lev Tolstój (concepito nel 1889, riscritto con un finale diverso nel 1909, pubblicato postumo nel 1911)…
È una crasi di Resurrezione e Sonata a Kreutzer…
Anche qui c’è un pazzoide che lotta con tutte le sue forze per andare contro la società machista e la sua violenza: nella prima versione si ammazza mentre nella seconda uccide la donna e va in galera per poi vivere con il rimorso…
e questa catarsi/catabasi basta a renderlo addirittura la mia medaglia d’argento dei testi definitivi del femminicidio…
Anche di questo ho letto Laura Salmon (Garzanti, 1987), ma ho dato un’occhiata anche all’edizione UTET del 1962 che riproduceva la traduzione della duchessa Enrichetta Carafa d’Andria effettuata per l’editrice Slavia di Torino nel 1932… - La medaglia d’oro dei testi definitivi del femminicidio, a mio modestissimo avviso, spetta all’Otello di Giuseppe Verdi (1887), il numero 38 di Operas VI!
Molto più di Shakespeare, Verdi rende il suo Jago una nemesi di Otello: uno Jago che è, cioè, forse, solo “immaginato” da un Otello che, come i protagonisti di Tolstój (che era un melomane: e Verdi era famoso in Russia fin dal 1862!), soffre del suo machismo, della sua vita militaresca e che Verdi rende forse più “vecchio” di Desdemona: un Otello che ha tanta paura di perdere la sua amata (alla fine del primo atto dice proprio «tale è il gaudio dell’anima che temo, temo!, che più non mi sarà concesso quest’attimo divino nell’ignoto avvenir de mio destino») e che quindi se ne “impossessa”, la “spersonalizza” in immagine di innocenza o di sessualità (Otello, di Desdemona, rammenta soprattutto «il corpo divin») e alla fine, per paura, non ce la fa a considerarla persona, per machismo non ci parla (ci mette un attimo a chiamare Desdemona puttana davanti a tutti senza mai che i due ce la facciano a comunicare davvero), e finisce per ammazzarla: finisce per essere lui stesso l’agente, la causa di quella perdita dell’amata che tanto paventava, in un gioco atroce ma veritiero di amore distruttivo, o, tour court, di autodistruzione della persona…
Otello ha paura di perdere Desdemona, se ne fa un’ossessione per machismo, e alla fine finisce per privarsene lui stesso piuttosto che affrontare la paura insieme a lei, preferisce privarsene lui stesso (sobillato da quella paura simbolica che è Jago, che Verdi rende del tutto nonsense satanico, togliendogli qualsiasi ragionevolezza che in Shakespeare ancora aveva, per esempio il razzismo, la voglia di comandare, il sospetto che Otello abbia fatto l’amore con sua moglie: tutte cose che ha lo Jago di Shakespeare e che lo Jago di Verdi non ha per nulla) piuttosto che rinnegare il machismo…
E Otello che piange e si mette perfino a baciare il corpo senza vita di Desdemona, stupendosi che sia morta, quando invece l’ha ammazzata lui, è davvero quel che ci vuole per sensibilizzare davvero sul risultato del comportamento dell’uomo violento, cioè la pura follia…
Verdi riesce a rendere tutto raggelante con la sua musica tenue di ricordo dei baci che, un tempo, Otello e Desdemona si erano dati…
Da sentire e far sentire a tutti i violenti…
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Tra i bonus devo includere un ragionamento sul tentativo effettuato dalla RAI di sensibilizzare in modo non banale… tentativo fatto nella fiction Bella da morire di Andrea Molaioli (2020)…
In essa il personaggio interpretato da Matteo Martari (uno di quegli attori odierni che quando parla non apre la bocca) fa vedere le sedute di terapia per gli uomini violenti e fa vedere tutti i drammi che passa quando si innamora di una (il personaggio di Cristiana Capotondi) non disposta a sopportare le sue malattie…
…tutto molto carino, ma la fiction abbandona questo tentativo di sana rappresentazione sullo sfondo di una storiella in cui si commette l’errore di identificare un colpevole in maniera drammaturgicamente e narratologicamente pessima, un storiella che lascia la rappresentazione di Martari assai sullo sfondo…
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Un altro bonus è senza dubbio The Pyramid, romanzo del 1967 di William Golding…
Una ragazzino borghesuccio immerso nell’estate pre-College in un paesello puritano e bacchettone della campagna inglese, negli anni 1920s che però sembrano la fine dell’Ottocento tanto “arretrato” è il paesello culturalmente, si trova a piangere di essere stato lasciato dal suo amore idealizzato proprio mentre la ragazza belloccia ma tragicamente proletaria del villaggio gli chiede aiuto per spostare un’auto in panne… quell’auto in panne è stata rubata dal figlio del dottore del paese, riccone e “aristocratico”, apposta per portare la belloccia proletaria a scopacchiare in campagna…
Il fatto che la belloccia proletaria si faccia scopacchiare dal riccone induce il ragazzino borghesuccio a pensare che allora la belloccia proletaria è “facile”, e che magari scopacchierà anche con lui!
Inizia così un tira e molla tra il borghesuccio e la proletaria che noi, però, vediamo solo e soltanto dal punto di vista del borghesuccio… il borghesuccio agisce come se “fosse naturale”, per lui, avanzare pretese sessuali sulla belloccia proletaria, e pretende che la belloccia gli si conceda senza tanti complimenti, per cui reagisce non bene al fatto che la belloccia, al contrario, usi il borghesuccio come “facciata” per continuare a scopacchiare col riccone! Ma belloccia e riccone non potranno mai fare qualcosa di più che scopacchiare, poiché il riccone non si potrà mai fidanzare ufficialmente con la proletaria! Ma la proletaria non potrà neanche mai fidanzarsi col borghesuccio, perché sì il borghesuccio è inferiore per “casta” al riccone, ma è comunque superiore alla belloccia!
Nonostante tutto il borghesuccio insiste, di nascosto, a “corteggiare” la proletaria: la segue, la vede con dei lividi, la vede in atteggiamenti poco chiari con il proprio padre, e la vede anche forse “prostituirsi” con il secondo dottore del paese, meno ricco del dottore ufficiale, ma comunque di “casta” altissima… o meglio: il borghesuccio, nostro unico narratore, vede la bocca del secondo dottore sporca del rossetto della belloccia proletaria e fa due più due alimentato anche da diversi gossip cittadini: tutte cose che fanno sì indizi ma non costituiscono alcuna prova…
Dopo tante insistenze, il borghesuccio ce la fa a scopare la belloccia: nella sua narrazione, lei gli si concede di sua volontà, e lui vede l’atto sessuale come una serie di ondate di vento sugli alberi…
Ce la fanno a scopare di nuovo, ma stavolta lui eiacula dentro di lei, con conseguente paura di una gravidanza…
Nel parlottare della tragica eventualità, borghesuccio e belloccia parlano un po’ meglio tra loro: il borghesuccio capisce che la belloccia è stata vittima di abusi sessuali da un vicino di casa mutilato della Prima Guerra Mondiale (abusi da cui derivano i lividi della belloccia), e che tutti quanti nel villaggetto hanno pretese sessuali su di lei solo perché è belloccia e povera, come se essere belli e insieme poveri fosse un “peccato”, una colpa da scontare, una condanna a essere considerata per sempre oggetto sessuale disponibile per chiunque sia di un “lignaggio” più alto: come se il potere delle classi sociali si riferisse anche al corpo oltre che allo spirito… un potere delle classi sociali che in ogni caso fa escludere la belloccia proletaria da qualsiasi “partita” lavorativa, sia quella capitalistica (lei non avrebbe mai i soldi per iniziare una qualsiasi impresa), sia quella istruttiva (le rette dei college sono costose, e la belloccia non potrebbe mai permettersele), sia quella “aristocratica” di arrampicamento sociale attraverso matrimonio (poiché nessuno sposerà mai una proletaria se non un proletario stesso: quando il padre del borghesuccio scopre che il figlio scopacchia con la belloccia proletaria è scandalo!)…
Alla fine la belloccia sfrutta parentele alla lontana per trovare un posto di segretaria a Londra…
I gossip dicono che i genitori la mandano a Londra per evitare la vergogna della prostituzione col secondo dottore…
Dopo due anni, belloccia e borghesuccio si ritrovano: la belloccia è ormai più sveglia, data l’esperienza cittadina, e tratta il borghesuccio, sì universitario ma ancora nullafacente, dall’alto in basso, tanto da riuscire a narrare la storia dal proprio punto di vista: e dal punto di vista della belloccia le loro scopacchiate furono veri e propri stupri: le ondate di vento sugli alberi erano stupri, uguali a quelli subiti dalla belloccia dal mutilato… e non solo: secondo la belloccia tutti i gossip riferiti a lei, sulla prostituzione col secondo dottore e sul suo rapporto malsano col padre, sono tutti partiti dal borghesuccio!
Il borghesuccio è incredulo… ma non si impegna granché a smentire le convinzioni della belloccia… segno che è la belloccia a dire “la verità”…
“La verità”?
Nel patriarcato classista del paesello britannico, “la verità” non può esistere…
e nel patriarcato classista del paesello, essere una ragazza è una delle condanne più terribili che si possano immaginare…
Questa è solo la prima delle tre storie di The Pyramid (nella seconda il borghesuccio avrà a che fare con un regista teatrale gay e nella terza guarderà di persona un caso di arrampicamento sociale che riesce, poiché agito da un uomo che, senza scrupoli, sfrutta l’amore di un’aristocratica poco sveglia e già abituata a essere sottomessa alla volontà del padre), ed è uno dei colpi narrativi migliori di Golding, che ci fa innamorare della belloccia proletaria (il suo nome è Evie Babbacombe) e insieme ci fa entrare perfettamente nel modo di pensare del patriarcato, sottolineando come al maschio sembra tutto inteso come “dovuto” e naturale, così tanto naturale che la componente “violenta” di quel “dovuto” viene rimossa quasi automaticamente dal maschio, perfino a livello inconscio: come se non fosse violenza ciò che è implicito nella società classista… come se la società classista non potesse essere violenta, perché così è, innata, immutabile, “sempre stata così”, e non ci si può fare niente… che senso ha lamentarsi di presunte “violenze”? per la logica classista non è “violenza” ma è “scorrere normale della vita”, come la catena alimentare, come il leone che mangia la gazzella: così è, che ci si può fare? assolutamente niente…
Golding denuncia questo nel ’67 riferendosi agli anni 1920s: e da allora non siamo affatto andati avanti…
The Pyramid è stato tradotto nel 1968 da Corrado Pavolini per Rizzoli: Pavolini fa un ottimo lavoro, anche se toglie diversi «cock» dalla versione italiana…
Pare non ci siano più state ristampe italiane dal 1983, ma il libro è continuamente riproposto in inglese dalla originale casa editrice londinese Faber & Faber, sempre con nuove e sempre più illuminanti introduzioni ermeneutiche: Kindle, per esempio, commercializza un ebook del 2013 con saggio introduttivo di Penelope Lively al costo di poco meno di 5 sterline (nel mercato italiano risulta a 6,54€)… la stessa edizione paperback è nell’Amazon inglese a 7,25 sterline…
[vedi la mia disamina di Golding qui]
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Un bonussetto è dedicato a un romanzetto che molti elencano in liste simili… La mite di Fëdor Dostoevskij (Krotkaja, 1876)…
Io sono un tolstoiano puro e quindi Dostoevskij non lo capisco…
Della Mite non ho letto l’ultima, dicono splendida, traduzione di Serena Vitale per Adelphi (2018), ma ho letto la versione, molto contorta, di Patrizia Parnisari per Feltrinelli (1997): sono sicuro che il sentirla “contorta” non è colpa di Parnisari ma direttamente di Dostoevskij, impegnato in un suo solito monologo interiore, tutto parlato, con la petulante, pedante e noiosissima voce del protagonista che ti ammorba (una caratteristica che Dostoevskij passa a gente come Céline e Italo Svevo, che, parimenti, non reggo!) descrivendo in modo non banale il narcisismo e la possessività del maschio nei confronti della donna, in una sorta di antecedente alla Sonata a Kreutzer di Tolstoj, che io preferisco, ovvio…
Dostoevskij centra però bene la tematica: un uomo rozzo e con evidenti segni di poca lucidità, che rovina, a fuoco lento, quella che è una bambina (16 anni), dicendo sì di amarla ma intanto costringendola a mortificarsi oppure a essere schiacciata dal peso della “adorazione” pesante del maschio… come al solito, il maschilismo costringe le donne o a serve o a sante, figure che il maschilismo mescola, e l’unica via d’uscita è la morte…
Non si legge bene, e a mio avviso è assai meno ficcante della Sonata a Kreutzer (Tolstoj, ovviamente, affronta la cosa anche dal punto di vista di chi ha i soldi, mentre Dostoevskij insozza tutto in un milieu di poveri “arricchiti” di quelli che sono veri e propri slums ottocenteschi) ma il problema lo affronta a puntino!
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Un bonussotto potrebbe essere la Street Scene, “american opera” di Kurt Weill del 1947 già nelle Musiche ispirate alla luna…
Weill fa un discorso davvero non male, anche se disperato, sul rapporto uomo-donna…
negli stra-sobborghi iperpopolati (e policulturali, anche di culture che si “odiano”) di New York, una donna tradisce il marito e il marito la uccide…
la loro figlia, nel frattempo vittima di cat calling da parte di un riccone che le propone di diventare la sua “mantenuta” a Hollywood, sarebbe sì innamorata del dolcissimo, affettuosissimo e studioso vicino di casa, ma il femminicidio la turba e la fa decidere, in maniera sconvolgente, di diventare la “puttanella” del riccone e andare a Hollywood…
il vicino di casa le dice «but we belong each other», ma lei risponde che anche suo padre e sua madre «belonged each other» ed è finita in femminicidio, quindi forse se la madre «belonged to herself» e il padre «belonged to himself» le cose sarebbero state meno tragiche, e su questo assunto abbandona il vicino al dolore inconsolabile di aver perso un amore sbocciato spontaneamente nella melma…
tristezza, ma suscitante grandi riflessioni…
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Da non sottovalutare l’opera La Navarraise di Jules Massenet, del 1894…
La povera protagonista è davvero vittima del maschilismo: fa le cose per fare i favori agli altri ma poi è sempre colpa sua…
davvero tristissima ed efficace nei suoi 45 minuti circa di durata: un portento!
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In musica è straforte la metafora di Dafne appunto nella Daphnedi Richard Strauss del 1938 che illustra alla perfezione il mito archetipico dello sfuggire allo stupro: Strauss è veramente un fenomeno a mettere in musica, con leggere volute art nouveau, la delusione di Daphne davanti alle voglie sessuali, ancora innocenti anche se comportano il “tradimento” dell’amicizia, del suo amico Leukippos e poi il suo sconcerto nel vedere le eguali pretese di Apollo, molto più virulente e prevaricanti (Apollo, in quanto dio, non rinuncia a fare miracoli e prodigi prepotenti contro Leukippos, che si erge a difensore, e Daphne per ottenere il corpo della ragazza), che lasciano Daphne lacrimevolmente delusa, degli uomini, dell’esistenza e della vita, tanto da accantonarli tutti e due, alla luce della luna, per farsi natura, fuori dal divenire dell’umanità corrotta, e nel farlo, Daphne è finalmente serena (il finale dell’opera è solo musica e descrive la trasformazione in albero e i raggi lunari che lo accarezzano: si intitola Mondlichtmusik)… [in qualche modo connessa alla violenza psicologica sulle donne anche Salome, del 1905]
A Dafne collego una riflessione sull’analoga Aino, personaggio del Kalevala…
Aino preferisce diventare una perca (o un salmone) piuttosto che concedersi a Väinämöinen e Aino ha un risvolto di complessa allegoria: nella diegesi del Kalevala si affoga, senza grandi metafore, appena sa di dover “subire” Väinämöinen, ma il suo “spirito”, oramai libero, torna, da salmone, a prendersi gioco di Väinämöinen: non riesce mai a pescarla e nei pesci sente le sue risate… Aino forse dice che potremmo anche ammazzarle tutte, noi maschi di merda, ma loro rimarranno sempre, nella natura intorno a noi, a ridere di noi, a smascherare le nostre piccolezze, a canzonare la nostra violenza inutile, poiché del tutto incapace di plasmare il mondo ma buona solo per palesarci come ridicoli: dalla violenza si creano solo fantasmi che ridono della nostra coglionaggine (come l’usignolo che rinasce subito dopo fucilato in Chantecler di Rostand, sparargli è inutile; o la volpe Bystrouška di Janáček che rimane viva nonostante le cartucce che la colpiscono [descritta molte altre volte in questo blog, soprattutto nel Don Chisciotte di Gilliam e nelle Musiche per la primavera]), perché la violenza rimpicciolisce, svuota, e alla fine fa ridere, in modo patetico… rendiamocene conto anche noi altri, e ridiamo anche noi di chi violenta e uccide…
«qui dall’altra parte siamo noi, che non ne veniamo mai a capo»
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E a proposito della volpe Bystrouška di Janáček (nelle Musiche per la primavera), la sua perorazione contro il bracconiere che la uccide solo perché è una volpe («Bít, zabít, jen proto, že su liška?»: picchiata e uccisa solo perché sono una volpe!), vale come inno contro le violenze che si perpetrano contro la natura delle cose, contro chi ammazza qualcuno solo per come è, e fa riflettere sull’ignobile concetto dell’odio misogino insito nel femminicidio: il patologico non sopportare la donna proprio perché è donna: il modo di pensare che è installato nei maschi di generazione in generazione, nell’educazione e nel vivere quotidiano. Cominciare a dire che questo sistema produce solo morte e disperazione è imperativo…
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Truce, ma forse ficcante, è The Rape of Lucretia di Benjamin Britten (1946)…
In un clima da incubo come solo Britten sa fare quando è arrabbiato (e questa è solo la sua terza opera, e la prima che chiama chamber opera) si consumano le peggiori prevaricazioni maschiliste e non c’è senso alcuno se non quello dell’autoinganno della religione, che guarda caso, propongono gli uomini (ci sono due personaggi, un tenore e un soprano, che cantano i pensieri dei maschi e quelli delle donne), quasi a giustificare il dolore perché favorisce una beatitudine in paradiso… ma nessuno ci crede… soprattutto non ci crede la musica, così cupa, concupiscente, lubrica e odiosa da rappresentare benissimo lo sguardo maschile, ma è anche così paurosa (il desiderio maschile è connotato da un giretto di pianoforte che dà i brividi!) e tremante nel rappresentare la paura e la vergogna femminile da rendere efficacemente insopportabile quello sguardo!
E fa anche riflettere come tutta la società sia, da sempre (l’opera è ambientata addirittura durante il regno di Tarquinio il Superbo), bottino di guerra dei maschi nei confronti delle donne (e infatti il giretto maschile, ereditato dagli altri strumenti, e soprattutto da acuti legni, attanaglia il finale come una follia: un gesto desunto da Strauss e dal suo espressionismo, quello di Salome ed Elektra, e quando Britten scrive Strauss è ancora vivo)
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È impossibile non tacere di due film che hanno fatto parecchia breccia nel pubblico odierno, cioè Promising Young Woman di Emerald Fennell (2020) e Revenge di Coralie Fargeat (2017)…
abbiamo già parlato di entrambi e sono tutti e due da rimarcare, anche se, per ragioni di maggiore consentaneità personale col modo di rappresentazione “sguardosa”, ho preferito il secondo, pur riconoscendo i molti meriti del primo e pur comprendendo che il secondo possa non essere adatto a molti palati più “realistici” e meno grandguignoleschi…
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Ancora estremamente attuale risulta Tess of the D’Urbervilles di Thomas Hardy (1891-1912)…
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e molto attuale ancora il discorso che Mike Nichols riesce a fare in Carnal Knowledge, con sceneggiatura di Jules Feiffer (1971)…
Jack Nicholson e Art Garfunkel, maschi rampanti e ormonici, si muovono alla conquista di Candice Bergen e Ann-Margret…
Nicholson si innamora, ricambiato, di Bergen, che è ufficialmente fidanzata con Garfunkel… la loro love story, consumata nella giovinezza del college, evapora per non urtare le sensibilità dell’ignaro Garfunkel… questa rottura emotiva rende Nicholson incapace di amare ancora, e quando trova Ann-Margret, che sarebbe disposta ad amarlo, Nicholson la prevarica e la maltratta, fino a portarla al tentato suicidio…
in questo Garfunkel non è innocente, perché sa tutto dei comportamenti di Nicholson ma non pensa mai di fare qualcosa per ammonirlo…
Ann-Margret non muore, ma l’esperienza lascia Nicholson ancora più misogino, tanto che riesce ad avere rapporti sessuali solo su un copione da lui stabilito, che fa recitare a prostitute…
La sozzeria maschile, l’ansia di possesso, l’ingordigia emotiva e l’insicurezza dell’uomo vengono tragicamente stigmatizzate da Nichols, Feiffer e Giuseppe Rotunno alla fotografia, in un film che è scarno e immediato quanto ambiguo e obliquo: il linguaggio è esplicito e le vicende certe, ma il buio di Rotunno ammanta tutto, anche, spesso, i volti dei personaggi, e gli episodi sono scanditi dall’onirica visione di una danzatrice sul ghiaccio, che compare come un’allucinazione a metà tra la profezia e l’adynaton d’incomprensione…
Nichols riesce a comunicare la sconfortante tristezza nichilistica che avvolge Ann-Margret quando si accorge delle prevaricazioni di Nicholson, e gestisce le performance attoriali come nessun altro…
e Nicholson, macho dei machi, che riesce a scopare solo con se stesso, dimostra bene quanto l’educazione maschilista sfoci nel delusionale solipsismo e nella più desolante masturbazione narcisistica: cose che non hanno senso, quasi come le figurazioni circolari di una ballerina su ghiaccio che appare a caso fuori contesto…
Capolavoro
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Continue aggiunte:
- lo strepitoso Les femmes au balcon di Noémie Merlant: fantasticissima fantasia di liberazione con argomenti visivi strepitosi;
- lo spettacolo di Antonio Latella e Federico Bellini, Wonder Woman: molto interessante a livello recitativo quanto didascalico, dalle parti di un special tv;
- l’immenso capolavoro The Handmaid’s Tale di Margaret Atwood (1985);
- L’anniversario di Andrea Bajani, vincitore del Premio Strega 2025: io non l’ho sopportato, ma giudicate voi…
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La conclusione è affidata a due testi che sono sempre tacciati di alimentare la cultura machista e di “glorificare” o addirittura “provocare” il femminicidio, cioè le opere Il tabarro di Giacomo Puccini e A kékszakállú herceg vára di Béla Bartók (entrambe del 1918)…
Sono entrambe nelle Opere per Halloween… e di entrambe si è già parlato, perciò non c’è da che fare rimandi…
Su Barbablu si parla nella recensione di Maleficent, signora del male, e ribadisco che additare Barbablu come fiaba femminicida è forse da superficiali…
Non solo…
Barbablu potrebbe essere un testo molto più ficcante per sensibilizzare chi è vittima di violenza al posto delle solite invettive sul denunciare e sullo scappare… perché Barbablu parla davvero della necessità di riconoscere, avere a che fare, e quindi andare al di là della violenza (nella crescita): e lo fa in modo metaforico universale invece che cronachistico e immanente, e perciò potrebbe risultate molto più efficace… (e un testo simile, di cui dovrò riparlare a mille, potrebbe essere anche The Company of Wolves di Neil Jordan del 1984, che meriterebbe di essere trattato in questo post, e forse, grazie al testo edit verrà incluso in futuro!)
Sul Tabarro e il femminicidio dico già tanto nella sua apparizione nelle Musiche per l’estate, a cui non c’è che tornare…
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Per adattarmi a un pubblico un pochino meno attempato, propongo la canzone Happier than ever di Billie Eilish, uscita nell’aprile del 2021: trita e ritrita, e magari uguale a mille altre, ma ripropone roba risaputa con estrema forza, e non credo possa lasciare davvero indifferenti… parla di una ragazzona che decide di mandare affanculo un qualcuno (forse il partner) con cui non ha un rapporto proprio salutare…
Ne esistono diversi video ufficiali: almeno due riprese live girate e montate per farne il video, e un video vero e proprio diretto dalla stessa Eilish: questo qui…
Ma per quanto riguarda le canzoni “pop” sull’argomento nessuna, a mio parere, riesce a battere La cattiva educazione di Vinicio Capossela (con Margherita Vicario), del 2023: non riesco ad ascoltarla senza piangere…
anche se i grandi classici di Edoardo Bennato, La fata (datata addirittura 1977), e Le ragazze fanno grandi sogni (1995), sono effettivamente immortali…
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Sull’argomento leggersi anche l’Editto di Posto occupato…
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Per capire/approfondire c’è il bellissimo e agile libretto, ricco di particolari cronachistici su tutte le brutture del sistema culturale e *giudiziario* sul problema, Per ammazzarti meglio di Ilaria Bonuccelli, edito a Firenze nel 2019 da Lucia Pugliese/Pozzo di Micene: imperdibile!
Vero, e nessuno ci fa caso.
Interessantissima dissertazione… Complimenti!
Dovrai consigliarci tanta musica non “classica” sull’argomento!
Il machismo degli Stones parla da sé in canzoni come “Some Girls”, purtroppo… Poi sarà scena e posa ma non ci andrei lo stesso fiero
…tristezza…
A occhio anche Honky Tonk Women non è particolarmente illuminata rispetto al tema…
Splendido post, Nick!
E quanta ragione hai quando scrivi “Tutta la comunicazione sul femminicidio, in modo a mio avviso paradossale, è rivolta alle donne, in quanto vittime, invece di essere rivolta agli uomini, in quanto malati”.
Non solo! Ho un amico psicologo che lavora a Milano e la sua intuizione qualche anno fa è stata di cominciare a lavorare con i maschi che commettono/hanno commesso violenze di genere. Mi diceva che incredibilmente nemmeno la sua professione si è mai concentrata troppo su di loro in quanto malati da aiutare, e non per giustificarli o per negare che le vittime siano le donne in questa storia, ma proprio per provare a risolvere il problema alla radice!
È uno sfacelo…
Si ha troppa cultura della “colpa” (del tipo: «sei colpevole, quindi muori: non ce ne frega nulla di perché sei colpevole»), e finché c’è quella forse non ci sarà mai abbastanza spazio per la cultura della terapia e dello studio (capire i meccanismi socio-cognitivo-comportamentali che favoriscono certe reazioni violente, così da cercare di “limitare” quei meccanismi), che è quella che risolve davvero i problemi!
È molto più faticoso tentare di risolvere davvero i problemi…
In un parallelo medico: quando abbiamo mal di testa prendiamo un antidolorifico che fa scomparire il mal di testa, ma la causa del mal di testa rimane ignota quindi il mal di testa ritornerà (e gli antidolorifici faranno sempre meno effetto)…
Che meraviglia di post! Me lo salvo. Non conosco tutte le musiche, ma me le andrò ad ascoltare…. Graziissime!!!!!
Nel senso che mi sono andata a cercare i link indicati, e me li leggerò tutti… Ciao!
Grazie mille!
Io come al solito arranco … concordo su Caramelle da uno sconosciuto soprattutto considerando i tempi in cui è stato girato.
Ma soprattutto trovo perfetto l’aggettivo FANTASTICISSIMA per la serie Big llittle lies!! E se non hai ancora fatto il post (in caso come al solito me lo sono perso) facciamolo!!!!
La vorrei analizzare davvero bene bene bene, e non c’ho modo e tempo (magari, boh, gennaio-marzo, in cui riuscirò a staccare per un paio di giorni alle 17.30 invece che alle 19, ma è un “deposito virtuale” di ore che sto figurativamente destinando già a un po’ troppe cose!)
Ho riletto volentieri, perchè il tempo passa e le cose non solo non migliorano, ma non fanno che peggiorare … anzi direi che il tuo incipit diventa persino profetico.
In più mi sono resa conto che all’epoca della mia visione al cinema nel 1984 di La compagnia dei lupi probabilmente non avevo abbastanza strumenti per comprenderlo.
GRAZIE.
Della compagnia dei lupi dovremmo parlarne per benino: speriamo arrivi il tempo
Be’, ma non è vero che tutta la comunicazione sull’argomento è rivolta alle donne e non fa cenno al fatto che è l’uomo quello violento. Dipende da che comunicazione ascolti! E nemmeno credo che il violento sia “malato”: come dice Elena Cecchettin, “è il figlio sano del patriarcato”.
Sì, è un articolo vecchiotto…
Oggi ci sono molti più appigli di stigmatizzazione del machismo tossico, fatte, per fortuna, da uomini.
in alcune “quadre” aggiunte ho appreso che considerarli malati è anche controproducente a livello giudiziario, perché sanno assai bene quello che fanno.
Che siano figli sani del patriarcato è la definizione più calzante.
Credo invece che il tuo articolo sia ancora oggi molto valido e interessante . È ancora vero che buona parte della comunicazione sul problema sia centrata sulle donne, su come aiutarle a identificare e difendersi dagli amori tossici e poca attenzione venga data all’uomo violento e sulle ragioni della sua natura disturbata ecc., come se fosse un dato di fatto che l’uomo sia così e irrimediabilmente sarà così, escludendo a priori la vera comprensione della natura dei femminicidi.
Giusta la comprensione che il violento sia il figlio sano del patriarcato ma anche non bisogna sottovalutare la violenza maschile come figlia disturbata e malata dello stesso. Insomma, il problema ė molto complesso e bisogna studiarlo ancora in fondo.
Grazie per il tuo bell’articolo.
Ti ringrazio tantissimo!