The Beguiled – L’inganno

Io avevo in mente The Beguiled – La notte brava del soldato Jonathan di Don Siegel del 1971, che ho rivisto di recente (l’ho tirato fuori anche per È solo la fine del mondo)…

Siegel è sardonico, saturnino, gotico, luciferino, cattivo, sarcastico, e usa il cinema con uno stupeficio immenso, con ricordi, sogni, immagini mentali, orrorifiche, deformate, per nulla realistiche… Nel suo film i ruoli sono chiari e quasi esasperati: le donne sono cattive, il soldato mente e tesse trame psicologiche, le adolescenti sono sessualissime e assai vendicative, e le storie di background sono morbose, torbide e sordide (c’è il fratello morto dell’istitutrice stupratore e incestuoso, il cui ricordo appesta la villa e le sue abitanti, tra cui anche la servetta nera che la Coppola ha tagliato; tra l’istitutrice e l’insegnante giovane c’è un rapporto saffico isinuante e mellifluo a metà tra la sindrome di Stoccolma e il contratto/ricatto economico)

Coppola prende il materiale d’origine (il romanzo di Thomas Cullinan, la cui circolazione è stata travagliata se non addirittura inesistente: The Beguiled è il secondo titolo, il primo era A Painted Devil — neanche WorldCat trova una copia di un’edizione con questo titolo — oggi è leggibile quella intitolata The Beguiled in un’edizione Penguin riproposta proprio in concomitanza con il film) e fa un film che il confronto con la versione di Siegel penalizza e “sporca”… Mi spiego: chi ha visto Siegel, come ho fatto io, si distrarrà e si sforzerà di vedere Coppola con mente libera, ma non ci riuscirà, mentre chi Siegel non l’ha visto vedrà Coppola con molto più gusto…

Perché motivi per divertirsi, nella versione di Coppola, ci sono comunque…

il graffio satirico di Siegel sparisce per una narrazione più attenta a rendere la quasi prigionia delle ragazze, a rendere la «noia del quotidiano» e la scansione dei giorni, più indugiosa sugli aspetti “panici” e “naturalistici” (le ragazze sembrano parte del giardino o del bosco), e quasi più somigliante alla messa in scena di Peter Weir di Picnic a Hanging Rock (1975) che alla violenza gothic di Siegel… e somigliante anche alle Vergini suicide, il primo lungometraggio di Coppola (1999)…

le immagini e la macchina, seppur più “fredde” di quelle di Siegel, e magari meno sicure a livello narrativo, regalano comunque soddisfazioni bellissime: alcuni shots delle ragazze sugli alberi hanno un’obliquità genuina (non si sa chi li “agisca”, chi stia guardando in quel momento: sono spesso shot col teleobiettivo); l’efficacia pittorica è studiata e sopraffina, e mantiene molti “goticismi” goduriosi (la ricerca di effetti chiaro vs scuro nella stessa inquadratura, e la sapienza nell’uso kubriackiano della luce delle candele); certi punti di vista sono insoliti e pieni di senso inaspettato, interessanti e molto ben messi (come alcuni frame ripresi quasi come fossero sospesi in alto); i movimenti di macchina sono rari, ma quando ci sono lasciano il segno — tutto questo sembra denotare un occhio quasi complice nell’azione, come se la macchina da presa fosse essa stessa una studentessa dell’educandato, timorosa e sbirciosa, ma anche intraprendente e partecipata, curiosa di scoprire quello che succede…

il sistema diegetico-attanziale è meno efficace e forte di quello di Siegel perché più ambiguo e più bisognoso dell’interpretazione dello spettatore e delle sue inferenze (termine tratto da Seymour Chatman: è quando il lettore mette del suo nell’interpretare cose che il testo lascia inspiegate o date per scontate): le intenzioni delle donne sono meno palesi, meno evidenti, sicché c’è da capire cosa fanno e perché lo fanno — le attrici sono brave nel rendere questa reticenza delle emozioni, che si accorda allo sguardo della macchina che mostra e non mostra — il risultato è che non sai se le donne fanno le cattive per vendetta o se agiscono per pura buona fede o autodifesa, e idem non sai se il soldato è cattivone o solo sperduto…

alla fine, al contrario di Siegel, rimarremo nel dubbio se la vendetta c’è stata o no, e le ultime scene sembrano esprimere uno status di dubbio perenne che si protrae infinito in un microcosmo di cattività, separato dal resto del mondo, a metà tra la prigione e la culla, da cui di sicuro non si può uscire — un punto di vista, quindi, tutto sull’incerto e sul “digerimento” delle conseguenze, a differenza di quello di Siegel che era sull’enunciazione sicura di uno status delirante: Siegel era certo, la Coppola no (Siegel diceva: «lo vedete che siamo folli!», Coppola dice: «la nostra pena è non avere mai la conferma se siamo folli o no»)…

Ila ha interpretato le cose in modo universalistico e metaforico del presente:

lo straniero giunge, sembra nemico, non lo è, e sembra rientrare nel sistema di mansioni della società ospite… poi, però, i rapporti sentimentali dello straniero sono diversi da quelli dell’ospite e allora l’ospite reagisce, e la reazione spaventa lo stranero che sbotta e braveggia con ira… l’ospite, spaventato dall’ira dello straniero, decide di punirlo e di “annullarlo”… e questo nonostante lo straniero non fosse iroso tout-court, ma iroso solo perché respinto e non compreso, e bastava solo una attestazione di affetto per renderlo uno zucchero… un’attestazione d’affetto che però non c’è, poiché gli ospiti decidono di reagire con violenza all’ira, dato che si preferisce agire sempre “per vendetta” invece che per “inclusione”… e finisce che lo straniero muore e l’ospite si sente quasi in colpa, mai consapevole se la sua condotta è morale o solo egoista…

Ila, cioè, ha interpretato tutto come metafora della gestione europea dei migranti… e la cosa non è per niente peregrina!

Kidman e Fanning sono efficaci (anche se la Fenning ha solo un’anticchia della prestanza fisico-erotica di Jo Ann Harris, scelta quarant’anni fa da Siegel per lo stesso ruolo), la Dunst ha sbacucchiato (e non voglio spiegare questo termine), ma la parte del leone la fanno le altre ragazzine, davvero felici e precise nelle loro caratterizzazioni!

Nella filmografia di Coppola, Lost in Translation (2003) è forse il top, Marie Antoinette (2006) non è per nulla una cavolata, Somewhere (2010) è il film maturo, Bling Ring (2013) era un po’ manierato (è il numero 6 de Il Conte di Palomino)… Questo The Beguiled è un’ennesimo capolavoretto di una regista ottima, da cui non ti aspetti quasi mai una boiata!

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